giovedì 27 dicembre 2007

20/12/07 Verso casa

E’ un punto scuro piccolissimo. Si china a toccare la sabbia, raccoglie qualcosa, non so. Sembravano onde piccole, ma confrontate con lui, che sarà un ragazzo o un uomo, si allargano ed inghiottono tutto lo spazio, sono così quiete, enormi, così normali. Il cielo fa il suo solito gioco di rosa e celeste per ipnotizzare, e ci riesce di nuovo, ma solo per poco stavolta. Per poco davvero.
Si rialza, si volta verso qualcuno, va via. Altre due figure si lasciano frustare i capelli dal vento, le perdo a sinistra nel finestrino. Torna un deserto d’acqua fredda, deserto com’è deserto il mondo, senza più tracce. Se solo non ci fosse la musica. Se non avessi letto quella musica.
Tornare ancora, come se non bastasse, ritornare e doverci mettere infinite ore, avere così tanto silenzio nella testa, nel petto, negli occhi, tutto questo treno riempito di desolazione. Senza poter aggiungere una parola, senza volere più.
Sembravano onde piccole. Si sono prese tutta la spiaggia.


"Verso casa
la pioggia minaccia la calma di questa pianura
ma io non sento niente
se non la tua assenza, chiassosa assenza
Verso casa
mi lascio abbracciare dal canto di questo dolore
perché la vita non si è intonata con la tua voce
limpida e ingenua, limpida e ingenua...

Quante volte tornerai
in un pianto inatteso
nel ricordo più intenso
luce che muore al tramonto
in un giorno qualunque di luglio..."

lunedì 24 dicembre 2007

... comunque Natale

“Natale arriva quando inizia la pubblicità della Coca-Cola”: perla di saggezza dispensata dalla mia coinquilina prima che inizi inesorabile Striscia la notizia. Guardo gli orsi polari (che tra l’altro mi fanno gran simpatia) e anziché pensare alla Coca-Cola mi vengono in mente i Natali degli anni passati, resto con gli occhi sbarrati a ripensarci, se mi fanno domande comunque non le sento.
“Da chi toccano i regali quest’anno?” è la domanda classica, quando il giorno si avvicina. Sì, perché a casa mia funziona così: tutta la famiglia paterna (diecinipoticinqueziierispettiviconiugipiùallegativari) si riunisce di mattina presto il 25 e i regali si aprono insieme, ogni anno in una casa diversa, davanti ad una colazione maestosa... è una delle tradizioni meravigliose della mia famiglia, un’ora di risate ed entusiasmo che prolungherei per chissà quanto. Da piccoli, quando abitavamo tutti nello stesso palazzo, ci si riuniva a casa di nonna al piano terra. Io lo ricordo appena, e lo ricordo stupendo.
Il tappeto di mia nonna era di pelo bianco morbido e l’albero altissimo, uscivamo di casa quasi in contemporanea e scendevamo per le scale bardati con sciarpe e vestaglie sui pigiami già caldi: un’orda festante di ragazzini, gli sguardi ancora assonnati, pronti a sedersi ordinatamente per terra in trepidante attesa della distribuzione dei regali. Io ed Alo correvamo in punta di piedi in cucina, a rubare lo zucchero in zollette che nonna credeva di aver nascosto bene nello stipo, e lo facevamo sempre ma lei fingeva di non accorgersene. C’erano mille piccole cose per ognuno, e risate per i bigliettini che i grandi si ingegnavano a scrivere, sorprese, invidie da bambini e oscene foto in pigiama. C’era guardarsi intorno e vedere che eccolo, è questo, Natale.


Sono mancata solo una volta, a questa specie di rito festoso, ma per fortuna è stata una notte bellissima anche quella, il 24 dicembre del 2001. Organizzammo un cenone in corsia e c’era da spalancare gli occhi per tutto quel bendiddio, che poi non ricordo neanche di aver mangiato per quanto tempo ho passato a ridere quella sera. E siccome non volevo saperne di dormire (il cortisone non aiutava!), passai la notte in Sala Medica con le ragazze, a cercare stupidaggini in Internet, ad aiutare coi pacchi Broviac, parlare fino alle sette di mattina del ragazzo di Sonia, della casa in montagna di Elda, dell’influenza di Manrica e del suo coniglio nero. Non credo che la dimenticherò mai, quella notte della vigilia. E quanto ero entusiasta di tutto, quel bellissimo Natale.


Questo è il primo anno che mancherà nonna, ad aprire i regali con noi. Ma ci riuniremo comunque, davanti ai vassoi di cornetti e al caffellatte, seduti su un tappeto ad aspettare che anche quest’anno lo zio di turno ci distribuisca i nostri pacchetti. E rideremo ancora e avremo sorprese, e di nuovo guardandomi intorno penserò che eccolo, è ancora questo, Natale.

mercoledì 19 dicembre 2007

Saudade de dezembro

Avevi paure dolcissime. Ti preoccupavi che non mi mancasse niente, che non fossi triste, che non mi facessi male. Avevi l’impressione, sempre, di non essere abbastanza, tu che sei troppo comunque e in ogni caso. Avevi paura di spaventarmi e di perdermi, che mi dimenticassi di te, che ti nascondessi qualcosa o che alla prima occasione cambiassi idea. Paura persino di sentire la mia voce, ma meno di quanta ne avessi io. Che ho paure più e meno di te.
Avevi una gelosia timida, di quelle che non si sentono in diritto di parlare. La gelosia che avrebbe voluto chiedermi di essere per te soltanto, ma aveva timore di disturbare, di volere troppo. E per quel tuo modo discreto di chiedere le cose, solo se volevo dirtele, tra mille scuse di imbarazzo, era bellissimo rassicurarti ed era inevitabile desiderare, ogni momento, di averti lì davanti e toglierti ogni dubbio. Un istante soltanto, per favore. Per tutte quelle attenzioni delicate e per quel respiro tagliato a metà, per un bacio almeno, una parola venuta fuori di colpo, per il profumo, il tremore alle mani.
Mi ritrovavo ad aspettarti senza che avessimo nessun appuntamento. Mi ritrovavo a sorridere di me quando guardavo l’orologio e pensavo che era presto, mi imponevo di resistere ancora dieci minuti, ancora cinque, magari anche due bastano. Svegliarmi e correre di sopra, trovare una sorpresa ogni mattina, tutte le mattine lì ad accogliermi. Volerti sorprendere e sorprenderti non volendo.

Non servirà, questa volta, correggere gli effetti dei miei guasti nucleari. Fare bilanci e provare a capire, né tornare indietro, né aspettare. Non servirà rivedere i pomeriggi a sciogliersi in una terapia di lacrime sotto la coperta. E allora che tutto scivoli, che arrivi la tranquillità. Per me, per te soprattutto.
Lascio quello che è stato in un angolo nella penombra, per proteggermi, lascio che stia lontano e prenda polvere per un certo tempo. Ma sappilo, non lo perdo, è troppo prezioso per dimenticarlo: rimane lì.
Dentro al replay.


"E la pace verrà
sulle nostre due singole guerre
e la prova più dura sarà
sotterrare l'amore e le armi
...
Tra un minuto è di nuovo Natale
Tra un minuto è comunque Natale"

martedì 11 dicembre 2007

Consigli in ritardo

Se incontrassi la me stessa di qualche anno fa, mi farebbe ridere vedere i suoi capelli corti e le sue gambe piene di ferite. Me la guarderei per bene: dovrebbe dimagrire, essere più schietta, scrivere di meno e vestirsi meglio, cioè, vestirsi e non buttarsi addosso le cose! Sorriderei delle sue spalle strette, di quelle scarpe che non si toglie mai, di quanto si affanna per essere qualcosa. E lentamente, attenta a non spaventarla, mi avvicinerei per parlarle.
Come stai? Com’è che ti senti, riesci a spiegarlo almeno a me? Non aver paura di essere eccessiva, puoi permetterti parole grosse, tanto sono io e so che peso hanno. Me la terrei qualche ora stretta tra le braccia, lei che non sa quanti abbracci poi arriverà a desiderare, con tutta sé stessa, senza averli mai. Le sussurrerei che non sta facendo niente di sbagliato, ma che è inutile recitare una parte solo perché piace agli altri, o solo perché non sa ancora bene quale sia la sua. Le direi che quella maglietta grigia piace anche a me, di mettersela quando ha voglia, che le sta bene e chissenefrega di cosa dice mamma. Parlerei con la voce calma, dicendole di non sentirsi da meno degli altri solo perché le mancano le parole giuste al momento giusto e quando si arrabbia le viene da piangere, il carattere cambia e le parole vengono, un giorno griderà di una rabbia senza lacrime le parole che avrebbe voluto dire senza pentirsi, si sentirà liberata, non più ridicola. Saprà arrabbiarsi come tutti.
La rassicurerei, ma che non si aspetti una vita costellata di rose. Soprattutto, l’avvertirei che è stupido preoccuparsi di non piangere, perché io lo so, la disturba questo. Si chiede perché non le viene mai una lacrima, neanche al momento giusto, neanche quando sprofonda nella tristezza, si chiede come mai tutti attorno a lei si commuovono e nulla mai le inumidisce gli occhi. Non pensarlo neanche – le direi – il tuo dolore o il tuo coinvolgimento non si misurano con due gocce di acqua salata; la tua tristezza è la malinconia che hai avuto sempre, resta seria e se non hai voglia non parlare, ma non strizzare gli occhi per cercare di piangere, non è quello che ti libera se non te lo senti. Le racconterei con un briciolo di amarezza che ha così tanto da piangere che non è il caso di cominciare in anticipo. Non mi crederebbe, se le dicessi che passerà giornate intere ad annegare nel pianto, le sembrerà fuori dal mondo, ma almeno ci avrei provato... Non credo che anticiperei le meraviglie di cui non ha ancora idea, il diploma, quella lettera, i giorni di Londra, non le direi che avrà una casa e se la caverà per conto suo nel posto in cui ha sempre voluto studiare, quello no, perché possa provarla intera, la gioia del buono che c'è ad affrontare le cose da soli. Lascerò che si tormenti di paura come ho fatto io, è ciò che rende speciale un'attesa, che libera tutto quando si risolve bene. E ancora.
Cara, mormorerei, piccola, non tormentarti per l’assenza di amore. C’è un motivo se ti fa aspettare, e quando ti prenderà di sorpresa, sarà amore doppiamente, sarà bello da non poterci credere. Non cercarlo inutilmente in sguardi sconosciuti, il suo volto saprai benissimo qual è, ancor prima di realizzare che è lui. Non farti piacere nessuno per forza, non hai bisogno di elemosine, né di sentirti pari a qualcuno. E’ nel modo più bizzarro, che arriva. Non lo avresti mai pensato, ma ti assicuro, arriva. Anche per te, che spesso non ci credi.
Le direi che la felicità viene a mozzichi e bocconi, e che a riconoscerla ci vuole ben poco, perché ne basta una goccia a riempire tutto ciò che c’è. Le direi sta’ attenta, attenta a non lasciarti sfuggire il cuore davanti a lei, cerca di guardarla per ore ed ore, non dormire di notte se lei non dorme e non aspettare un istante se in te lei non aspetta. E se quando la tocchi non ti sembra possibile, e se credi sia troppo bella per esistere, se ogni giorno si preannuncia migliore del giorno prima, non aver paura, è quella vera. L’avvertirei anche, ma sottovoce, che una volta finita diventa irripetibile. Una volta finita, quella goccia di felicità, è finita per sempre. E vorrei non mi sentisse, quando glielo dico, perché non si freni mai.
Le direi corri, corri fino a non farcela più, corri fino al collasso dei polmoni e gettati per terra, grida, impara a svuotarti di tutto! Imponiti, piccola mia, lascia libero quello che hai di più estremo, regala tutto quello che puoi dare, leggi fino a notte fonda, alza il volume allo stereo, non restare mai la seconda voce di te stessa! Non ne vale la pena, Lucky, non ne vale la pena!
E dopo averle posato un bacio sui capelli, la scioglierei da quell’abbraccio, lasciandola andare via, e sperando che un giorno sia una persona migliore di me.


"L’oroscopo speciale
di fine mese leggerai per me
ma non mi dire
che domani m’innamoro"

domenica 9 dicembre 2007

Io nessuno e loro tutti (-Vie di Bologna-)

"Danzandoti nella mente
sfiorando tutta la gente
a volte sedendoti accanto"


Bologna è la pace.
So che è difficile trovare un luogo meno chiassoso e frequentato, meno densamente popolato di persone e rumori, ma non c’è nulla che acquieti le mie guerre come la grandezza di quelle strade, il loro colore conosciuto. Quei palazzi enormi che mi stancano solo a vederli, che mi costringono a tenere gli occhi bassi e guardarmi dritto davanti.
Scesa dal primo regionale che riesco a prendere, quella che in partenza era una fuga diventa una passeggiata: l’aria che mi sbatte sul giubbotto invernale mi impedisce di sentire, non so più cosa cerco ma cammino pacificata, col passo sereno che raramente mi riesce, anche volendo. Non importa che ore siano, non importa quando avrò il treno del ritorno. Se Bologna mi accoglie, se è la stessa dell’ultima volta, mi aggrapperò al suo tumulto pregando che ancora per un giorno si riveli guaritore, il suo chiasso che non sento, perché Bologna mi chiude le orecchie. Forse mi salva quell’anonimato temporaneo, la sensazione che nessuno mi veda e mi giudichi, mi salva guardare in faccia la gente senza voler vedere niente. Mi solleva il marrone dei suoi mattoni, le tegole rosse, rosso scuro come se ci fossero sempre state. Sotto ogni pioggia, resistenti ad ogni vento, sprezzanti dell’estate, della nebbia, dell’incoscienza di tutti, gente di corsa, tutti che vanno oltre, camminano a testa bassa, tutti passi lenti senza fretta, io insieme a loro, io incosciente come loro, io nessuno e loro tutti. Non conta la mia vita, a Bologna. Corro davanti all’autobus a semaforo rosso. Nessun pericolo per me.

Via San Vitale era tiepida e non troppo affollata, era settembre 2001, facevo iniezioni ogni sera. Dimenticai la macchina fotografica, lasciai a casa i primi giorni di scuola e i quaderni nuovi, ma mai, mai più ho perso quella cartolina in bianco e nero, regalo di un negoziante da commuoversi dal ridere: un vecchio bolognese spassosissimo, chiuso in una stanza piena di poster, che ora chiamo lo zio Lenin, sì, diceva così lui della foto che aveva appesa al muro, “ecco lo zio Lenin”. E mai più ho perso né dimenticato quelle cartoline prese con ogni molecola del cuore, in Piazza Grande, quelle che erano i suoi colori autunnali ma lei non lo sapeva, e forse glielo scrissi, ma non le importava. Che ci avessi pensato. Tutto quel sentirsi vinta, chiuso in una foto di alberi rossi e gialli. Mi mancava tanto, nella mia giacca a vento. Via San Vitale odorava di polvere e sole lontano.
Ricordo poi Via Indipendenza percorsa in un quarto d’ora, con le cuffie nascoste nella camicia, mi ricordo mossa dall’impazienza, dall’incredulità e da un uomo che solo, tra mille canzoni, scelse di cantare. La ricordo speranza. La ricordo sicurezza. E la musica, tutta la musica di quindici minuti.

Fa parte delle mie piccole pigrizie o delle bontà che mi concedo, prendere l’ascensore per andare dal binario a livello strada di ritorno alla stazione di Forlì, improvvisamente stanca di piegare le ginocchia per venti gradini. Arrivo a casa in un nonnulla ed è tutto finito... eppure no.
Via San Vitale è quattordici anni, e tutto ciò che non sapevo. E’ il mio sorriso ragazzino nel negozietto dello zio Lenin.
Piazza Grande è il gioco delle pulci che non si trovava, e un quadro ad acquerello nel salotto di mia zia.
Via Indipendenza è passeggiare contro il tempo. Con il tempo che non ho.


"Dovunque cada l’alba sulla mia strada
senza catene, vi andremo insieme"

lunedì 3 dicembre 2007

Recollection (memories in a week)

Mi manchi ogni giorno, il mercoledì di più. Anche il sabato non scherza.
Mi accosto al termosifone per riscaldarmi le gambe, ma mi si piega subito la testa e si socchiudono gli occhi. E’ così che ti penso, quasi sempre, con le mani poggiate sul metallo caldo. E come il calore che risale piano lungo il braccio, togliendomi ogni forza, il pensiero di te prende a impregnarmi ossa e muscoli, a scivolare sulle spalle sfiorando i capelli, e a cascarmi sulle labbra. Non è colpa tua né mia, né forse del termosifone, se la mia mente ti si è affezionata.
Ma visto che non mi dispiace, ti prego di non scusarmi se ancora ti penso.

E il lunedì, cosa sarà mai il lunedì? Nulla più di un pensiero fastidioso la domenica sera. Cinque diverse lezioni pesantissime, per cui alle otto la sveglia vorrei scagliarla giù per le scale. L’inizio di una settimana che vedrà altre ore avvicendarsi lente o rapidissime a seconda della compagnia, il turno delle pulizie, il tema del giovedì in italiano, quello del venerdì in spagnolo; occasionalmente, anche un tema in inglese. Un lunedì. Quel lunedì.

“Piangi” mi hai detto “piangi e non parlare” e non esisteva nulla di più bello. I singhiozzi allora venivano fuori pacifici, a metà increduli per la possibilità di sbocciare così, senza trattenersi. Ma più di tutto accarezzati e consolati dalla tua voce, lì presente a ricostruire, con pazienza, con tenerezza, senza fretta. "Posso prendermi io cura di te per qualche giorno? Posso?". Stasera spero che tutti un giorno abbiano la possibilità di piangere così... dentro un abbraccio. Poi, una volta basta. Basta un venerdì per avere paura, e per non averne più.

Conservo gelosa la mia buona dose di memoria. Memoria di anni vuoti e di giorni pienissimi, di mesi passati senza vivere niente, di secondi spesi a volere tutto. Un ricordo, senza consistenza come ogni cosa importante, porta troppo con sé. E’ piacevole e divertente, è una panacea per i cattivi pensieri, toglie l’aria nel dispiacere del rimpianto, uccide, fa ridere, guarisce, tortura. Lascia increduli. Perdona. Squarcia.
Quanto vorrei essere priva di memoria, non vedere niente. Quanto vorrei moltiplicarla all’infinito, e raddoppiarne la nitidezza, che abbia più spazio e più musica.

Buonanotte tesoro, resta lì senza pensarci. Chiudi gli occhi e prenditi il riposo di un sonno senza preoccupazioni, prima di tornare a muoverti aspetta che sia martedì.
Sogni d’oro.


“Campane di domenica e non io
che resto muto
nel cigolio
come un bambino
che questo amore...
è mio”

mercoledì 21 novembre 2007

Nostalgie uno e due

Fa un freddo che non ci si crede, e tutti torniamo ad avere nostalgia. Come se ci fossimo messi d’accordo. Chi sogna la Puglia, chi la Basilicata, la costa sarda, la campagna laziale o toscana, senza eccezioni ad uno ad uno riviaggiamo verso le nostre terre e sentiamo sotto le scarpe il viale di casa, il tiepido intorno. Arriviamo davanti al portoncino di legno scuro, e annusiamo il nostro autunno di foglie secche e di sole sbiadito, di oro rosso, e se anche l’aria punge un po’ sul viso non ci gela i sogni. Muoviamo decisi il piede destro in avanti, per mettere il primo passo oltre la soglia, e già ci sorprende la lieve onda di calore a riceverci accogliente, già ci si gonfia un attimo il petto. La bocca, quella che si sforza di pronunciare bene una sillaba o di non scoppiare in pianto e in riso, quella stessa bocca, allargata per un secondo a salutare. Non pensiamo a nient’altro, nessuno di noi. Un caminetto e una risata, la sento già salire. Le foglie che al vento fanno rumore di pioggia.
Salvo poi aprire gli occhi, e vedere che fuori dalla classe della lezione di spagnolo quasi nevica.

Sabato scorso sono rimasta al caldo, sotto le coperte, dimentica degli impegni. Ma non è colpa di nessuno se tra le mie nostalgie, che sono cento e sono tre, è tornato a farsi vivo l’odore caro di salsedine e ardesia, è passato per un secondo un soffio di buone cose. Il vento di Genova.

Finestra grande, nessuno con me, mi metto in piedi un po’ a fatica ma sto bene. Il pigiama rosa leggero. Mi affaccio respirando verso uno dei meravigliosi tramonti di questa stagione, e vedo qui sotto case verdi e rosa e gialle, auto ferme al semaforo, una ringhiera, il 31 per Brignole. La luce arancione accarezza tutto, non posso sapere quanto è inverno fuori di qui, sembra un marzo perenne, meraviglioso. Ed è così che anch’io lo vedo: a ripetersi sempre diverso, il mare, a impegnarsi, a costruire, il mare ad andare e venire orgoglioso e superbo, messo lì perché mi ricordi che non tutto cambia mentre io sono bloccata in questo limbo per un tempo immisurabile. Non tutto cambia. Il mare a placare il dolore.
Tengo i libri di scuola in un armadietto, insieme alla fisiologica e all’eparina, per essere libera di non preoccuparmene, come se già sapessi che ciò che ho lasciato ormai è perso, ma non volessi ancora avvisare gli altri. I peluche voglio averli un po’ ovunque, anche se imbustati perché non facciano polvere, ma va bene, per una volta che me ne regalano a dozzine, a manciate, in quantità! Sono le sette di sera e dio mio, non ci si crede ai colori che regala questa finestra. Poggio il palmo della mano sul vetro: il freddo di dicembre, non quello della mia febbre ma quello che sentono gli altri (ecco perché portano i cappotti), è incredibile, il freddo di dicembre è ancora freddo come prima...
Ho quattordici anni, nella stanza 5 del tmo. Sono piccola e leggera, non peso a nessuno, gli occhi mi si fanno grandi sulla faccia da quando non ho capelli ma non me ne curo, le ragazze mi guardano come fossi una creatura stupenda. Sono le ultime ore di un giorno che finisce, simile a ieri e spero uguale a domani; si sta così bene adesso, cala la luce a bagnare la polvere sul libro abbandonato sul comodino e sulla porta che – ci scommetto – tra pochissimo qualcuno spalancherà. Come fanno sempre loro, le ragazze, in tuta verde a maniche corte, dopo aver scalato i viali su un motorino sgangherato, con quella faccia un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova... verranno a parlare della cena e a raccontarmi del tempo, a descrivermi come si vive ancora e bene, scese le scale di questo piano rialzato. Sento il fresco della corrente che mi passa sotto la pelle.
Non piove da giorni e la stomatite sta passando, so che è uno stato di grazia e so, respirando così bene, che domattina arriverà come sempre, col suo giro delle otto, con il letto da rifare, Daniela che combinerà un altro casino, Elda Manrica e Sonia, poi Cri Fulvia e Marco, e le visite dei medici a cui spiegare. Domattina arriverà come sempre. Ma quella spiacevole sensazione di cose da fare non mi appartiene ora, alle sette di sera, davanti a questa finestra, poco prima che qualcuno entri a parlare con me di qualunque cosa.
Perché tutto è così limpido, e nulla potrebbe andar meglio.

Il vento di Genova.
Qui che siamo a mezza Italia invece, ci dispiace quasi sempre tornare alle nostre stanze da soli, infagottati nei giubbotti, e un po’ per tutti ogni scusa è buona per fermarsi in giro e continuare a camminarsi dietro, a chiacchierare. Un pomeriggio alla fine passa piacevolmente, e non dovrebbe mai finire, se per una volta ad una lezione di spagnolo si preferisce coltivare una passione.
Ci prenderanno per matte. Ma restiamo qui sedute a ridere, due studentesse, una poesia di Góngora, e una cioccolata calda.





“Finirà questa neve
questo inverno sarà breve
e il coraggio
magari verrà”



PS: 16 novembre, sei anni. Grazie, amico mio.

venerdì 9 novembre 2007

Novembre

"Cominciai a sognare anch’io insieme a loro
poi l’anima d’improvviso prese il volo"



Hai uno sguardo, tu, fresco e bambino come l’odore del bucato appena lavato. Un maglione verde morbido, che non si smetterebbe mai di abbracciare. Hai sospiri leggeri di tristezza o desiderio, note alte nella voce e prolungati silenzi, alternati a moti improvvisi di dolcezza. E corrughi un po’ la fronte se non capisci, già sapendo che ciò che non ti è chiaro non ti piace; la distendi poi un istante se non ti sfiorano i ricordi, fai un respiro limpido e tiri fuori il migliore di quei sorrisi immensi, regalandolo, regalandolo, gentile.
A volte invece hai un sorriso spento, adulto e maturo, e gli occhi dilatati di chi ha così sofferto che non ce la fa più, e sa già come viene, e non ha voglia di spiegare. Davanti a questo sguardo io torno a distanze siderali e mi ritrovo accanto a te la ragazzina che sono, ingenua e presa dal dispiacere, che nulla può né forse deve dire. Davanti a questo sguardo, mentre camminiamo, mi vedo d’intralcio, mi strisciano le scarpe, e si moltiplica senza ragione la mia voglia di esserci, forse perché mi ritrovi alla fine di quel pensiero (ed ha una qualche importanza, poi?)
Hai movimenti veloci delle mani, quando racconti le cose, la capacità di sussurrare e farmi saltare il cuore in gola. Una bellezza così semplice e disarmata che sembra nessuno la noti, che sono certa al contrario tutti vedono, anche se non lo ammetti. Così che ti guardo, spesso, senza saperti dire esattamente perché nel tuo viso annegherei.

A me che ti ripenso stasera, immersa nel torpore delle coperte, credo resteranno per sempre molte fotografie. Una piega della pelle, al lato degli occhi, quando li apri. La misura inconfondibile di quello sguardo a labbra chiuse. Mille piccoli dettagli che forse neanche tu sai, e neanche io so.

Ho avuto la febbre, l’altra notte, sono andata a letto stordita e mi sono svegliata a metà con un rimbombo vuoto in testa e le gambe che non mi reggevano. Una febbre silenziosa, a me sconosciuta, una febbre di stanchezza e di esasperazione. Ci ha messo dieci ore per andar via, da sola com’era arrivata, ma portandosi dietro sudore e mal di testa sembra che sia riuscita a rimettermi i piedi in terra. Da quella mattina, e lo sento, è scomparso l’urlare represso di ogni giorno, le ossessioni non mi mordono più la gola, gli occhi si sono asciugati.
Ero semplicemente esausta. Di essere triste, di essere per forza e di volere, di cercare. Così mi sono svegliata, fresca e leggera, come sollevata da pesi insostenibili, ed ho messo la solita strada sotto le scarpe per andare all’università. Tutto intorno è diventato quasi familiare, conosciuto, accogliente. Mi sfiora un piacere così silenzioso da somigliare al pianto - ma senza più lacrime. Ci sei sempre, questo sì, per fortuna, a camminarmi a fianco con una nostalgia sottile ma non più ansiosa.

Non voglio che finiamo per avere tristezze diverse con le stesse canzoni. Non voglio che la storia sia la stessa che conosci e che prevedevi già; per una volta, non voglio che abbia ragione tu.
E siccome c’è di nuovo freddo e ho sonno, per una giornata come questa va bene un qualunque finale. Anche quello che dopo cent’anni di solitudine non ammette una seconda possibilità.


“Poi parliamo delle distanze e del cielo
e di dove va a dormire la luna quando esce il sole
di come era la terra prima che ci fosse l’amore
e sotto quale stella fra mille anni
se ci sarà una stella… ci si potrà abbracciare”

giovedì 1 novembre 2007

Sentimento del tempo (impazienza)

Vedo, ho avuto vent’anni per lo più fatti di attese.
Il tempo per partire, il tempo di restare, il tempo di lasciare, il tempo di abbracciare...
Aspettare l’autobus alle sette di mattina sotto la pioggia di gennaio, una mano a stringere il lettore mp3 in tasca, l’altra gelida a tenere l’ombrello; aspettare fuori dal bar, fuori dal cinema, fuori dalla porta l’amica ritardataria che mi ha fatto scapicollare per poi lasciarmi lì decine di minuti. Uscire dall’aula al suono della campanella dell’ultima ora e fermarmi nell’atrio, aspettare che Mari esca per viaggiare con lei parlando fino a casa, fantasticando di settimane in Brasile e infervorandoci nelle critiche dei rispettivi prof. Restare in attesa di quella chiamata o di quel messaggio che – lo sento – può salvarmi la vita ma non accenna ad arrivare. Aspettare un giorno. Un mese. Cinque anni. Aspettare paziente che finisca la lezione di storia. Che passi la pioggia, il singhiozzo, i cinquanta minuti di treno, la fitta lancinante allo stomaco, la stanchezza e l’Inverno.
Nell’attesa mi ritrovo ferma in un equilibrio stabile, ogni minuto di spazio libero diventa un fermarmi, in silenzio, a guardare la mia vita che continua a scorrere all’esterno di me. Ho creduto quindi per molto tempo di aver imparato ad aspettare, almeno questo, di aver sviluppato una sorta di capacità a riempire le pause forzate... di conseguenza a non aver fretta: mi sbagliavo, ovviamente :)
Al contrario, ultimamente mi accorgo di avere una mia incoscienza patologica di cui non so liberarmi, quasi che ogni cosa fosse la più normale e non ci fosse mai di che stupirsi, mai nulla di esagerato. Impaziente, precipitosa, mi sembra spesso che nessuno si accorga di quanto poco tempo ci han dato per fare ciò che più vogliamo, e che nessuno veda come me quanto poco basti per perdere ogni cosa (ed è così poco, credimi, che non preoccuparmi di cosa vedono gli altri è il minimo, a pensare che domani magari non ci sei).
So perfettamente, al contempo, che questa visione non porta lontano, che la stragrande maggioranza delle persone vive senza sentire l’acqua alla gola, sa aspettare senza ansie e non pretende, si scandalizza per gli eccessi in nome dell’essere opportuni. Sto cercando per questo di guarirne, ma è così forte il desiderio e così veloce il tempo, così beffardo, pronto a riprendersi in fretta quello che regala, che mi è difficilissimo e spesso non sono certa di volerlo.
Ahimè, credo di aver dimenticato mio malgrado cosa voglia dire essere opportuna, controllata, conveniente, adeguata, senza pretese. Adesso mi lancerei in corse a perdifiato e prenderei ogni cosa subito, e non mi negherei nulla, perché so cosa vuol dire avere un istante e poi perdere. Saper camminare e un mese dopo non reggersi in piedi, avere un appiglio e vederlo svanire, conoscere una voce o un volto e poco dopo non ritrovarli, scrivere miliardi di lettere e non sapere più - d’improvviso - se ai destinatari fa piacere riceverle. E allora affrettata, precipitosa, pur sapendo quanto sia sbagliato.
Perché è questo volere disperato, questa enorme impazienza, che mi porta alla mia esagerazione. Di cui spesso sì, mi pento. A cui devo il pianto dirotto e il mal di testa persistente.
E pazienza... aspetterò che mi passi!




Post scriptum – delirio di mezzanotte

C’è un tempo perfetto per fare silenzio. Esiste davvero un tempo “giusto” per fare qualcosa? - mi chiedo. Non è forse un costringersi, un inutile trattenersi, il nostro continuo aspettare il momento adatto per dire, sentire, agire? La verità è che, cara Lù, non controlliamo niente di quanto ci succede, e quello che a noi sembra il momento perfetto ed unico ed inimitabile può non esserlo per chi ci sta di fronte. Potessimo avercelo tutti, l’orologio degli dèi.
Come si fa – spiegatemi – a capire se la frase che ci pulsa in gola farebbe meglio ad uscire subito o a restare lì rinchiusa? Come si può stabilire la canzone che faremmo meglio ad ascoltare, il libro che dovremmo leggere, il bacio che dovremmo dare in un preciso istante tra milioni? Credo alla fine che il solo modo di comportarsi sia lasciar sgorgare. Ché preoccuparsi del resto non serve.
Tanto quando succede, quando non si è soli a sentire qualcosa, quando si desidera in due o tre o quattro esattamente lo stesso, quando si è a un passo e si ha la certezza che nulla potrà fermarci, allora si capisce che per una volta, una volta almeno, quello era il momento. E non si dimentica più.

mercoledì 17 ottobre 2007

Cartoline forlivesi

Forlì è a misura di bicicletta, sapete? Ci è voluto un po’ per adattarmi a tutte queste ruote a raggi che mi girano intorno ad ogni ora, e soprattutto a rassegnarmi al fatto che i miei piedi non vanno così veloci: per quanto allunghi il passo arrivo sempre puntuale al secondo, mai in anticipo, una volta anche con due minuti di ritardo (con semi-incenerimento visivo da parte della prof, altro che quarto d’ora accademico!). Ci sono piste ciclabili da e per ovunque, i divieti di sosta per le auto si accompagnano ai divieti di parcheggiare le bici, e avvengono fenomeni inesplicabili ai quali una pugliese come me non arriverà mai a credere: automobili che non solo si fermano sempre davanti alle strisce pedonali, ma che senza fare una piega ad ogni incrocio danno precedenza alle BICICLETTE!
La verità è che nel petto di ogni forlivese che si rispetti batte un cuore da ciclista, e che Forlì sta al velocipede come Bologna al tortellino; ho scoperto qui che i semafori per le bici esistono davvero (cosa che si vede sui manuali di scuola guida e a cui non avrei mai creduto se non ne avessi avuto le prove) e noto che tra gli annunci di compravendita di libri sulla bacheca della scuola campeggiano le richieste di studenti che cercano city bike. Ciliegina sulla torta: ieri mattina di buon’ora, appena uscita di casa ho visto venire verso di me un signore di mezza età, vestito di tutto punto, su una bici giallo taxi; perplessa, poco dopo l’ho visto fermarsi davanti al cancello di una villetta, e solo lì ho guardato il cappello e ho realizzato: era il postino! ...Va bene, ma una moto no?! Sembrava una puntata di “C’è posta per te”!

Alla SSLiMIT ci sono orari strani, che a volte diresti comodi e altre volte ti condannano ad infinite passeggiate da mattina a sera. “Organizzarsi” è un verbo bandito dal vocabolario e basta distrarsi mezzo secondo che si perdono lezioni o si cambiano aule e professori senza preavviso; ci sono più stranieri che italiani, un sito sempre aggiornato a cui non posso accedere, e una ragazza cieca bellissima con cui vorrei tanto parlare, bassina e bionda, che muove le labbra in curve inusuali senza che questo alteri la precisione della sua pronuncia. Frequento ore di materie per le quali mi sveno e che farei durare all’infinito, ed altre che temo come la peste o che mi annoiano ancor prima di cominciare: per dirne una, metterei volentieri un bavaglio al prof di Linguistica, alla sua voce monotona e alla sua ridondanza, capace di prosciugarmi ogni energia in pochissimi minuti e farmi sprofondare nel "sonno della ragione".
Mi spaventa molto, questa scuola... sì. Nessuno si trova qui per caso, sono pochi quelli che vedo spaesati quanto me (che con la disinvoltura ho sempre fatto a pugni, peraltro) e quanto al fatto di essere realmente capace di raggiungere livelli così alti come quelli che si richiedono, bè, ci provo ma non garantisco. Non voglio più garantire niente, se poi mi basta fermarmi a pensare un secondo ed ecco che subito ho paura, una morsa di angoscia stretta sul petto, da far fatica a camminare. Ironico e provvidenziale, a cercare di distogliermi, su diversi muri di marmo di questa città geometrica campeggia il Che sovrastato dalla scritta “chi si ferma è perduto”: avanti, dunque, sia pure.

I colori si facevano nitidi, il pomeriggio in cui la luce colpiva gli alberi di striscio, con misurata grazia: guardavo incredula il verde chiaro delle foglie, spalancando gli occhi perché non ricordavo come arrivasse a brillare. Taglio sempre per quel parco, rientrando a casa, per lo sconfinato silenzio che mi concede la musica e per la forma tonda di quel verde a cui non sono abituata. I vialetti sono a metà coperti da foglie secche, ma gli strani alberi alti sembra abbiano mantenuto intatta la loro chioma, quasi ridendo di me che li osservo da terra, come una bambina. Appena messo piede oltre il cancello di questa piccola oasi rallento visibilmente l’andatura e a volte, se qualche canzone arriva al momento giusto, resto immobile col naso in su, a respirare. E’ in effetti uno strano angolo di pace messo lì quasi per sbaglio, a due passi dalla trafficata strada principale; ma è così accogliente e caldo che non posso negarmi il piacere di passarci, come fosse una terapia al malumore.
Una mattina, seduta su una delle sue panchine di pietra, guardando il pavimento e le foglie accartocciate piangevo... per chi è ferito e non cade ma continua ad andare. La corteccia dei tronchi, confrontata con le pareti spoglie di una stanza, mi consolava come un abbraccio tiepido, tanto da farmi rialzare. E se uno di voi lo vedesse adesso, si chiederebbe che cos’ha di speciale quel piccolo ciuffo d’alberi all’angolo di Via Zanchini, senza capire.

A volte davvero penso che non mi interessa più niente, mi chiedo cosa ci faccio in questo posto e perché fossi così certa di volerci venire... e un istante dopo mi accorgo che non vorrei essere da nessun’altra parte, non adesso. C’e abbastanza arancione nella mia stanza perché io resti, è così vicino il treno, la barista a colazione è sempre gentilissima e finora non ha piovuto mai. Ultimo dettaglio, non trascurabile: domattina, che è sabato, posso dormire fino a tardi senza il terrore della sveglia... e sotto il piumino leggero si sta un gran bene.
Quindi, tutto incluso, credo di fermarmi qui a Forlì ancora per molto, e piacevolmente. Ma comprerò una bicicletta :)

“Se tornasse da queste parti
il mio indirizzo la gente lo sa
tu dille che può cercarmi
se trova il tempo mi troverà”

giovedì 11 ottobre 2007

I giorni

Un giorno inizia con fatica. A volte quando apri gli occhi di colpo, rendendotene conto solo un istante dopo; altre volte quando si affacciano pensieri senza avvisare e non riesci a capire quando il sonno sia finito.

Quel giorno lì, non potevi credere di saperti rialzare da sola. Ti brillava la fronte e alzavi la voce perché lo sentissero, cosa ti era successo. Avresti voluto piangere se fosse servito a farglielo capire (ma non piangevi ancora, era troppo difficile). E ti stupisci adesso di ricordare mille ore prima e dopo. Prima e dopo.
C’era il giorno in cui bastava infilarsi in bocca un pezzo di cioccolata e star zitta, col viso disteso dal sapore buono, magari da dividere con qualcuno. La volta in cui invece sul palato si sentiva solo veleno, che non si riusciva a scacciare a furia di inghiottire saliva, e si stava zitti lo stesso ad aspettare che passasse quella devastazione e tornasse un minimo, un minimo di pace.
C’era anche la sera in cui la tranquillità era scoramento, e non si voleva null’altro se non che scoppiasse un temporale, che accadesse un cambiamento qualunque, una caduta, una lettera, un graffio. Tanti, tanti di questi silenzi infiniti e vuoti, senza sapere come si sopportavano. E i piedi così freddi di notte da confondere il gelo col dolore, metterci troppo ad accorgersi che non passava. Metterci sempre troppo.
Lo ricordi? C’è stato il giorno in cui la musica invadeva tutto, e socchiudevi gli occhi per aver paura di tanta bellezza che rimbalzava nel petto violenta, e nulla sarebbe bastato a contenerla o a spiegarla ma il desiderio di regalarla era irrefrenabile, così vivo! Dividere moltiplica, ti sei detta.
E ricordi ancora quel giorno, in cui il sorriso è stato così aperto che non vedevi quasi più da quanto gli occhi erano stretti, e non riuscivi a dire niente per lasciare spazio a quella gioia esplosa sul viso. Sperando che chi ti veniva incontro lo sentisse come te.
E’ venuto persino il giorno, che non è passato da tanto, in cui amore era una parola che esisteva e non faceva più paura, così che ogni cosa sembrava uno stupore incontenibile. Il momento di quello che hai immaginato per così tanto tempo da non credere più seriamente che possa succedere, e che vedi lì davanti a te disarmato, pronto a restare per sempre.
Cambiano altri giorni ogni mattina, da quando sono qui. Alzarsi e rabbrividire, per il freddo che c’è nel pigiama leggero, e anche non credendo all’orologio dover prendere la strada e andare di nuovo, a passo svelto, con decisione. Accettare che l’aria ti prenda a schiaffi perché poi essa stessa ti sollevi.
Viene, certo, anche un giorno come questo, in cui ti sembra di aver vissuto in modo ineccepibile, di aver fatto davvero tutto quello che potevi, di esserti impegnata, di aver trovato gli spazi giusti per le cose giuste, sofferto il dovuto e sorriso quanto bastava; viene un giorno come questo, e tu non desideri altro che distruggere tutto. E non tornare più.

Credo che non imparerò mai cosa fare. Continuerò per molto tempo ancora a stare qui ferma, guarendo, morendo, guardando i giorni che vanno... a scivolare.

martedì 9 ottobre 2007

Monopoli, 15 settembre 2007

Si chiama Antonella ed è la barista che ogni cliente ha sempre sognato: una ragazza bruna e sorridente, attenta, allegra, è una di quelle bariste a cui (come nei film) si può dire la parola magica “il solito” e ti portano esattamente ciò che volevi. Ha cambiato bar ma non è cambiata lei, Antonella, che si ricorda ancora di avermi vista due volte sul giornale, mi riconosce mentre passo davanti alla vetrina e mi chiede cosa ho fatto questa estate. Non resisto ad un sorriso così, stamattina, e per quanto non abbia fame mi butto su un inedito cornetto ed espressino, che si sostituisce al mio “solito” muffin e caffè macchiato. Sì, è cambiato anche il mio “solito”, Antonella, così come cambierò scuola, cuore, mani e città. Ma tornerò a trovarti, sai? Tu non allontanarti troppo, perchè la prossima volta porterò con me anche Mariangela, in nome di quelli che saranno i vecchi tempi :)

“Lucrezia cara, raccontami tutto”
E cosa vuole che le racconti, professoressa? E’ strano tornare in questo posto. Tornarci adesso che non ne sono ancora fuori né più dentro… Ho una specie di tentazione che mi suggerisce di andare in classe perché la ricreazione sta finendo, e volti nuovi tutt’intorno che mi impongono di andar via. Duncan scende le scale con il suo solito passo sconnesso, due sandali da spiaggia che fanno ridere, mi riconosce subito e mi chiede sorridendo “How was the test in Forlì?”, col fare sarcastico di chi mi ha scoraggiata da morire e adesso magari mi vorrebbe consolare. “Good, I passed it” “YOU DID?!” Visto? Sorpresa! Sì, lo è stata anche per me, l’ho saputo ieri eccetera eccetera. Hai visto però Duncan, che ti ricordi come mi chiamo? Grazie, per questo.
Sono così oltre tutto quello che ero qui, che mi ritrovo a fare la gentile persino con la Simone, sottolineando però che è stata la Allende a portare bene, mentre lei preferisce la Esquivel e non spiega nessuna delle due. E ripenso con un briciolo di rimpianto a quanto, quanto avrebbe potuto darci! In ogni senso, come avremmo potuto essere più ricchi di quanto non lo siamo già, se solo il gelo di quegli occhi azzurri si fosse sciolto appena un po’. Chi lo sa, magari lo capirà, Chicas. Io, per me, credo di averglielo detto.
Sembra che tutto sia cambiato in questo primo piano, ma sono mancata così tanto? Non ho più un mio posto, mi sento quasi persa. Pratiche burocratiche da sbrigare e scale che percorro in ogni senso, per stancarmi e per guardare chi arriva. Ma alla fine preferisco così, preferisco non sentirmi più pienamente parte di questo luogo, preferisco che la nostalgia mi si allontani a poco a poco ma presto, così sarà un motivo in meno perché mi manchi casa, quando sarò via.
“Are you happy?” mi chiedi, professoressa... “Yes, of course” ti rispondo, perché il test di ammissione l’ho passato ed era quello a cui miravo finora; poi, visto che un po’ mi conosci, mi chiedi di non dimenticarmi di voi. Me lo chiedi come già sapendo che potrei farlo, effettivamente, guardandomi un secondo seria e scappando via tra la massa di gente vociante davanti alla porta. Hai ragione a ricordarmelo: porterò qualcosa con me, per questo, un libro o una foto che sia inequivocabile, che sia qui e prima, da guardare e da tenere fra le dita quando compirò gli anni.
Ma vado via comunque, da sola, più leggera che mai. E’ una sensazione bella, quella di uscire, che non sentivo da tanto. Vado a scoprire cos’altro c’è fuori, più tardi, quando la notte finisce; vado a prendere appunti altrove, a conoscere nuove voci; vado, perché questo devo fare. Questo voglio.

E chissà se lo sa, Antonella, impegnata com’è a servire cappuccini sorridendo.

mercoledì 26 settembre 2007

E così sia

Adesso, adesso che hai un po’ di tempo, fa’ un respiro profondo, chiudi gli occhi… e immagina.
Immagina un amore rotondo, completo, tutto da costruire. Un amore che ti invada d’improvviso senza lasciarti dubbi, che abbia la vivacità e l’intensità di un temporale che aspetti da tempo (o che non ti aspetti affatto). Che sia sicuro di sé, ma non troppo, tanto che tu debba rassicurarlo ma mai ripetere le cose allo sfinimento; che sappia come fare a non deluderti, e ti regali magliette colorate, che non dimentichi niente di quanto ti riguarda e sia speciale, solo tuo.
Immagina un amore la cui bellezza sia indiscutibile e rara, o per lo meno, che ti lasci pochi difetti da perdonare, e ti faccia disimparare del tutto i tuoi; forte, giovane e maturo, divertente, con lunghi riccioli scuri (o con i capelli corti, o lisci, o comunque tu voglia). Cerca di sentire le sue mani delicate a inondarti di attenzioni, a riscaldarti di mattina presto quando ti scontri con la nebbia azzurra e fredda della notte non ancora finita, e il suo sorriso meraviglioso a proteggerti. Prova a sognare un amore che non abbassi lo sguardo di fronte al tuo, che non sia mai neanche sfiorato dal pensiero di tradirti, che abbia timidezze comuni e arrossisca, ma senza dire sciocchezze solo perché è imbarazzato; e sappia far finta di niente, quando serve, e canti, canti con la voce più bella che ha, davanti a te.
Guardalo correre dietro al vento e abbracciarti di sorpresa, prenderti alle spalle e sollevarti in aria, farti scoppiare il cuore! Sorridigli quando ti guarda con gli occhi del desiderio, o quando non ti guarda affatto e sei tu ad averlo in mente, sorridi; immagina questo amore a riempirti di passione con un bacio, questo amore indiscusso e leggero, senza sensi di colpa e senza alcun rimorso, che sa cosa fare e cosa dire, e resta in silenzio se non vuoi sentirlo.
Dolce, magnifico, semplice e sorprendente, ad aumentare ogni minuto.
Lo vedi, riesci ad averne un’idea? Lo vedi, tu? questo amore pieno.

Ecco: questo è l’amore che vorrei per te.
Quello che io non sono.

“Buonanotte, anima mia
adesso spengo la luce
e così sia”

venerdì 21 settembre 2007

Sympathy

In questi giorni sembra che tutti vogliano qualcosa da me. Attenzione, favori, informazioni, telefonate, doveri, appuntamenti, libri, canzoni. Ognuno ha qualcosa da chiedere. Io fossi in voi, cari voi, non vorrei niente da me. Perché quello che riesco a dare è così poco, così svogliato, così striminzito, che non vale davvero la pena averlo, a mio modesto parere.
In meno di una settimana ho saputo dove passerò i prossimi cinque anni, trovato casa, scelto e comprato un portatile, sono andata a litigare col dentista, ho avuto un lavoro e una scadenza per consegnarlo, ritirato moduli, fatto l’iscrizione, ripreso la terapia, detto bugie e sperato e smesso di sperare e desiderato ancora. Perdo anche miliardi di capelli al secondo, mi devo meravigliare?
She was a failure, she said. […] It was sympahy she wanted, to be assured of her genius, first of all, and then to be taken within the circle of life, warmed and soothed, to have her senses restored to her, her bareness made fertile, and all the rooms of the house made full of life.
She wanted sympathy. Ma anche solo qualcuno che si faccia trovare sotto casa con un posto in macchina e il sorriso più presente che riesce a fare. O magari un attimo più grande, con uno sguardo che sia ti capisco, che sia ti voglio bene e so già cos’hai se vuoi ti porto lontano… e mi posi una mano sulla spalla, a dire che ci sediamo al bar facciamo due chiacchiere e parlerò io finché non avrai tu qualcosa da dire, ti parlerò di me adesso che posso, sarò così per te, accomodante quanto riesco, e ti guarderò fisso ma non sempre perché non mi dia nessuna spiegazione. Solo un pomeriggio leggero, non chiedo mica chissà che.

Sono stata così chiusa, così afona e immobile. Immersa nella tristezza e nel suo non sentire, solo aspettando… non si sa cosa. Per fortuna e in definitiva, aspettando molto poco. Giusto il tempo perché arrivassi.
Per poi avvertire di sera sempre nel silenzio, ma stavolta un silenzio splendido e pieno del tuo respiro, di colpo tutti i pori riaprirsi; sentire di nuovo con violenza il dolore, il calore, il dispiacere e come un miracolo, un miracolo, il petto battere forte. Deciso, veloce… Bellissimo.
A te che mi prendi d’improvviso, quando non me l’aspetto. Grazie.

"You are not my enemy anymore
there's a ray of light upon your face now
I can look into your eyes
and I never thought it could be so simple"

... When we'll wake up some morning rain will wash away our pain...

mercoledì 19 settembre 2007

The sound of silence (-autunno dolciastro-)

“Già settembre, poche voci distanti
e un autunno distratto al di là dei vetri
quasi speravo che non arrivassi più
quasi credevo che non mi mancassi eppure…
stavo aspettando”


C’è un silenzio così bello, così perfetto. E non è pace e non è amore, ma neanche l’incertezza di ieri, non è vuoto e non è pesante, resta solo sospeso attorno a me isolandomi da tutto, come una coltre spessa ma leggera. Potrei far finta di ignorarlo, chiudere gli occhi, tornare a casa e inventare un modo per ingannare l’attesa; sarebbe un peccato però. Sono sfinita. Questa quiete mi riposa, sembra messa qui apposta.
Fasano, le cinque di pomeriggio, nuvole scure, nessun messaggio ancora. Trascino i passi fino alla macchina e sembra che in giro non ci sia un’anima, è tutto così tranquillo e privo di pretese che vorrei ringraziare chiunque abbia costruito questo momento per me… Guido senza attenzione, come fosse naturale, con la radio accesa e senza alcuna meta precisa: mi cerco le strade più isolate, così da non dover scansare le altre macchine né spostare troppo lo sguardo.
“Eri tu, quel tasto dolente eri tu, autunno dolciastro eri tu…”
Ti aspetto fino alle sei. Le sei e mezza, hai visto mai servisse a qualcosa. “Dopo tanto sbandare” cerco di darmi un ordine e calmarmi, pur non smettendo di andare, piano, per questo paese semideserto e grigio, aria di pioggia, aria di pioggia sui vetri, e non solo. Penso ininterrottamente ma senza che nulla si chiarisca, senza decifrare quanto i ricordi mi facciano male e quanto mi portino a sperare ancora, semplicemente mettendo insieme un’immagine dopo l’altra con il cuore chiuso, impermeabile. Come se niente più mi toccasse, non adesso.
Lasciate che chiuda gli occhi e portatemi via di qui. Dolcemente. In silenzio.



“And in the naked light I saw
ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
people hearing without listening
people writing songs that voices never share
and no one dared
disturb the sound of silence”

sabato 15 settembre 2007

Desperate housewife

Giovedì di buon’ora, perfettamente calata nel ruolo della Brava Figlia Collaborativa, telefono a mia madre per chiederle se c’è qualcosa da fare in casa, visto che di mattina io sono libera e il resto della famiglia lavora. Candidamente lei mi dice: “No, non c’è niente da fare – bugiarda: per lei c’è sempre qualcosa da fare! – stai pure tranquilla. Al limite – eccola! – con un po’ di acqua e detersivo puoi lavare le piastrelle del bagno verde”
Ora, teniamo presente che:
- il bagno verde è il più grande di casa
- il bagno verde è tutto fatto di piastrelle. TUTTO.
… e qui, puntuale, arriva il colpo di grazia: “Passale due volte, prima con la pezza bagnata e poi asciutta, va bene?”. DUE VOLTE. “Sì, ok”. E sti cazzi.
Di conseguenza ho passato mattina e metà pomeriggio con le mani nell’acqua, ad arrampicarmi su scale e a strisciare sotto mensole basse, nonché a scivolare sulla vasca e fare lo slalom tra i sanitari, con l’unico scopo di detergere piastrella per piastrella, di lustrare ripiani, greche, specchi, insomma di tirare a lucido tutte le superfici piane possibili. E adesso non venitemi a dire che se mi fa male OVUNQUE sto prendendo l’influenza!
Mi sono sempre chiesta come si chiami la sindrome che porta mia madre a inventarsi qualunque improbabile tipo di pulizia, a non pensare mai che la casa stia bene come sta. Ogni piccolo acaro indifeso che osi presentarsi sulla soglia viene sistematicamente individuato e sterminato dal vigile occhio materno, a cui nulla sfugge; non c’è perdono né pietà per nessun capello caduto, per nessuna macchia sul pavimento, impronta sul mobile, briciola di pane in cucina. Mia madre è uno dei pochi esseri viventi in grado (e lo dico per comprovata esperienza) di mettersi a passare l’aspirapolvere nell’intero piano rialzato vestita e truccata di tutto punto per uscire, mentre noi la aspettiamo in macchina chiedendoci perché ci stia mettendo tanto…
Ora, non è che sia del tutto pazza. In linea di massima direi addirittura che ogni tanto ha ragione, perché questa casa è immensa e non si riesce a finire di pulirla che già bisogna ricominciare… Però delle volte noi poveri familiari si resta basiti davanti alla sua instancabile inventiva puliziesca, che la porta nei momenti più inaspettati a chiederci di lavare le scope o di lucidare le foglie delle piante, urlando e strepitando come un’ossessa che il mondo straborda di polvere!

L’unica stanza che sembra miracolosamente immune al suo controllo serrato, ringraziando il cielo, è lo studio. Il mio studio. Isola felice della musica e custode fedele dei libri, possessore di mille comodi anfratti dove si smarriscono fogli, grato contenitore del disordine, ideale rifugio dalle umane cure: il mio studio adorato! Non esiste un altro luogo in questa casa (in questo pianeta) dove mi senta a mio agio come nello studio, dove abbia lasciato più tracce e trascorso più momenti, non c’è altro posto dove si avverta in modo più tangibile la mia presenza anche quando non ci sono. Qui si trovano i biglietti dei concerti e tutte le fotografie, cinque anni di Liceo in decine di quaderni, la locandina di Onda Tropicale rubata, quel prodigio di gioia del mio stereo, il bicchiere di Coca Cola della stazione e il poster plastificato di Via del Campo 29/r. C’è Klimt sul divano, Van Gogh accanto ai dischi, e la consuetudine di ritrovarmi sempre a guardare l’albero di pepe finto di questo balcone, quando penso, scostando la tenda o lasciando impronte sulla scrivania di vetro.
Sì, non ci sono solo io, è vero, in fondo si tratta di una stanza al piano terra e in famiglia siamo in quattro… ma da che mondo è mondo, con il suo verde rassicurante, lo studio è mio. E quindi mia madre lo sa, mi piace essere io a pulirlo da cima a fondo, non importa quanto tempo mi ci voglia né quanta sopravvivenza in più sia concessa agli acari che popolano questo locus amoenus...!

In conclusione poi, vista dall’esterno e con un minimo di obiettività, mamma è una gran bella donna: ha gusto, senso pratico, fa delle crostate divine ed ammattisce per il caffé; riesce a trovare argomenti di conversazione con chiunque, è dotata di uno stupendo sense of humour e, aspetto fondamentale, quasi sempre lascia in pace lo studio.
Casualmente però, oggi mi ritrovo nella mia stanza, mani nell’acqua, a dover lavare il muro. Il muro. Perché quello che il mondo non sa è che mia madre nasconde, nel profondo di sé, l’anima psicotica di Bree Van de Kamp…

lunedì 10 settembre 2007

Strade (following epiphanies)

C’era odore di autunno, in quella strada larga, ti precedevo e ti seguivo cercando di non guardarti. Provavo a sentire le macchine, il vociare della gente, i miei stessi passi e quell’odore presente, provavo a non interessarmi del resto. Avevo bisogno di camminare, in effetti, per soffocare. Il pavimento a tessere colorate.
E’ che sempre così, da quando sono cresciuta e non so più controllarmi per bene, mi invento dei modi per andarmene da dove sono. Non avrei voluto. Ho stretto gli occhi e alzato la faccia, come una che non sa bene dove si trova, o come chi lo sa perfettamente e non vuole limitarsi a qui. Per non rischiare che mi arrivasse troppo addosso, per questo ho stretto gli occhi. Mi sono morsa le labbra, prima solo per pensarci su, poi davvero per farmi un po’ male. Tornare alla realtà.
Le strade così grandi danno sempre senso di confusione, e quello che uno spera è che tutti abbiano una meta precisa, che ognuno di quei volti pensierosi, di quei passi svelti e di quei caffé al bar abbia una destinazione, alla fine della via, che sappia benissimo cosa fare. Senza fermarsi, perché chi vince è perduto, e se anch’io mi fermassi potrei cadere. O girarmi e scappare, ma allora inciamperei nelle mie scarpe pesanti e sarebbe comunque cadere. Senza fermarmi, quindi.
La strada di casa mia era di ghiaia fino a poco tempo fa, aveva le buche e graffiava le gambe, toglieva la pelle, a cascare dalla bicicletta. Era così normale ferircisi che non lo sentivamo neanche più, ci si rialzava per correre, scivolare di nuovo, scappare davanti ai cani. Stavo in porta tra due muretti grigi e paravo anche fuori dai pali, ma il pallone finiva sempre sulle rose, chissà com’è. Si smetteva di giocare che ancora non era buio, mia madre che urlava, avevo i palmi delle mani rossi e polverosi che mi pulsavano un po’ per il dolore, il bianco della ghiaia sulla maglietta...
La strada di casa mia adesso se piove è nera d’asfalto: è un piacere andarci su, in bicicletta, e se cadessi al massimo sarebbe un livido. Però mi mancano le ferite dei sassi, che bruciavano e sanguinavano, ferite chiare, precise, da metterci su la saliva o al massimo, se c’è tempo, il disinfettante verde che non fa male. E tempo alla fine non ce n’è quasi mai.
C’era odore di autunno, in quella strada larga, quando ho pianto. Col viso girato dal lato sbagliato, piombata nella bambina che sono, pregando che quel maledetto autobus arrivasse in fretta e mi facesse muovere di nuovo. Perché lì ferma, appoggiata al marmo della vetrina, era troppo amaro e ingiusto piangere, quasi senza lacrime, con un senso di colpa indicibile. Piangere dalla paura di essere di nuovo sospesa sul precipizio del niente quando ogni cosa era stata a un passo, e allo stesso tempo voler ingoiare quel pianto per quanto era rabbioso, inutile, per nulla liberatorio.
Alla fine è passato, l’autobus.
Non passano le tracce che ho addosso, quelle che senti sotto le dita, che vedi appena nascoste dalla camicia… non se ne vanno mai. Ci ho riso e scherzato, ci ho passato su della crema, ho chiesto rimedi e me ne sono fregata, le ho dimenticate, le ho riviste. Non se ne vanno mai. Il mio corpo si è disegnato sopra decine di linee rosse, profonde o solo accennate, a volte incise, quasi sottolineature per ricordarsi di. E’ tutto quanto scritto, e solo adesso mi accorgo che non lo vorrei, che vorrei la pelle più liscia, serena. Perché sono cicatrici, ferme lì per sempre. E tu le senti.
Oggi mi mancano, per questo, le ferite dei sassi: quelle che con il disinfettante verde andavano via.


"E' la curva dell'estate sulla strada di frontiera
è la neve sui ciliegi è la mia casa di ringhiera
sono sogni e cicatrici, sono lacrime e radici
le parole che nascondo dentro me
scorrono e si confondono in fondo all'anima
... fin dentro l'anima"

domenica 9 settembre 2007

Perché viaggiare non è solamente partire e tornare...

[Comptine d’une autre été – l’après midi, Yann Tiersen]

Abbiamo da poco passato Ancona, e sono in questo scompartimento da un’eternità. Forse due. Ho messo le cuffie solo per darmi un aspetto, in qualche modo, nel momento in cui mi sono accorta che da minuti ed ore fissavo il finestrino restando immobile, ricordandomi solo ogni tanto di respirare. Lentamente, con pazienza, la musica mi avvolge e mi riporta al calore della realtà, muovo le gambe rattrappite in un angolo, ho il gelo nelle scarpe, mi stropiccio gli occhi ed è come se la mia mente gradualmente tornasse ad aprirsi. Ho pensato, pensato tanto, ricordato, rimpianto, adesso ascolto.
Le mie dita cominciano da sole a seguire il pianoforte, il sorriso ad aprirsi, i colori a farsi nitidi: mi sembra solo ora, per la prima volta dall’inizio del mio ritorno, di vedere davvero al di là del vetro, di uscire dal baratro di me stessa ed arrivare a guardare fuori… quello che c’è è la meraviglia.
Sembra che il treno viaggi su una distesa d’acqua, di un celeste intenso ma non minaccioso, placata, interminabile, serena: i binari corrono sul mare. Laggiù in fondo, una linea retta perfetta divide questa pace mostruosa e sconfinata da un cielo frastagliato di nuvole, rosa e arancio a tratti e poi ancora indeciso e scuro, ma senza mettere paura. Sono nuvole piatte, come una coperta, sarà una notte fredda, ma silenziosa. Davanti a tutto questo mi si spalanca lo sguardo, mi incanto nello stupore come se aprendo il più possibile gli occhi potessi farcela entrare, tutta quella bellezza, e trattenerla per sempre, e ritrovarla a volte, non perderla più.


Trieste, Bologna, Forlì. Sembra sia stato un secolo.

Sono scesa dall’espresso dopo 12 ore di viaggio con due ragazzi una madre e un gatto, e una città sconosciuta mi è sembrata subito casa mia. Mi è sembrato di essere libera di colpo, per un tempo immenso, di poter finalmente provare a briglia sciolta i sentimenti che volevo, provarli sul viso. Al centro della stazione, come soffitto, c’era una piramide di vetro e legno: mi sono seduta lì sotto e come un piccolo miracolo di accoglienza mi volavano sulla testa gabbiani, uno dopo l’altro, componendo parabole lente, ed erano lì da sempre, loro. Sì, anch’io.
Trieste ho deciso di vederla se e quando volevo. Fare cose assurde, come mettermi a leggere “Cent’anni di solitudine” su una panchina in un parco, solo perché c’era un buon odore e non mi andava di camminare… Sono uscita poi di pomeriggio, con i singhiozzi ancora lievi in gola e lacrime appena asciugate sulle guance. Una leggerezza sul petto e la voglia di vedere il mare… confusa, di una strana allegria, ho passeggiato guardando e sentendo ogni cosa, la piazza i palazzi le strade la stazione, colmando il vuoto, incurante di tutto. Ma quello che di più bello Trieste mi ha regalato è stato il tramonto meraviglioso che ho visto spuntare quando già volevo andar via. Mi sono voltata un attimo, ed eccolo: forte, magnifico, un sole rosso accarezzava tutto penetrando il grigio con il suo calore, riempiendo il freddo d’arancio, aprendomi il cuore! Il colore di quei minuti lunghissimi è ciò che mi porto dentro dall’altro estremo d’Italia, ed è moltissimo. Per com’ero, è moltissimo.

Bologna, niente di più splendido. Non trovo parole che descrivano, non le cerco. Suoni, sapori, odori, colori, emozioni, risate, non so come renderli… niente di più splendido, solo questo.

Forlì è stato un passaggio veloce, solo per farsi un po’ male le mani portando la valigia pesante e accarezzare un gatto nero, senza che mi sia guardata troppo intorno. Un passaggio, ma bello, leggero, divertente. Benissimo così.


Dopo quasi una settimana mi ritrovo nuovamente in treno, passata Ancona, con lo sguardo invaso dalla visione del mare, le mani ancora piccole, la fronte divisa in due, il cuore stracolmo. E sulle labbra il sorriso sorpreso e felice di pensare che io sono, ogni tanto, per te, anche qualcosa di bello.

sabato 1 settembre 2007

"Pace non trovo" - before leaving

Oggi tutto si scontra in me.
Sembra che qualcuno si sia divertito a prendere una serie di sensazioni diverse ed emozioni intense contrastanti che evidentemente avevo da qualche parte, e ad evidenziarle, a metterle insieme a caso nell’esatto centro di me, un po’ a destra del cuore. Qui tutto mi pesa. Altalenando tra la paura nera, fonda, tremenda, inspiegabile che ho, e un’energia gioiosa in fondo in fondo ottimista, pulita, luminosa, che è quella che vorrei.
E succede che mi basta una parola, una musica al momento giusto o al momento più sbagliato possibile, e non desidero altro che piangere, piangere, gridare ancora, e piangere. Avverto un perenne nodo in gola che sì, alle volte riesce a sciogliersi, lasciandomi ridere, ma che poi si ripresenta puntuale e stretto, pronto a farmi del male a suo piacimento.
Fa buio e ho ancora una specie di battaglia silenziosa che infuria, in un punto impreciso, senza che si sentano i rumori delle armi, senza che il fragore e le urla siano chiari e si facciano capire, ma che mi fa arrivare in bocca solo l’amaro del sangue. Vorrei piangere fuori lo sconosciuto che è in me.
So poi alla perfezione che potrei trovare tutta la dolcezza del mondo, non l’ho forse già trovata? Mi spaventa pensare. E’ tutto così poco definito, è tutto sospeso e oscilla, in bilico, so che nulla sarà come vorrei. Nulla di tutto quello che immagino, eppure testarda la mia mente non si ferma. A metà esatta tra l'allegria più sorridente e questa oppressione d'ansia.
Ogni tentata stabilità non lo era che per poco tempo, io lo sapevo, mi sono lanciata a capofitto senza un solo ripensamento e mi sono battuta perché fosse così, ho lasciato scivolare i giorni andando col sorriso sulle labbra verso questo terrore che - già sapevo - era lì ad aspettare, certo che anch’io, il giorno mio che è oggi, sarei arrivata. Inerme.
E ovviamente no, io non ci ripenso, e non mi pento di un solo istante, io parto stasera. Valigia in mano, scarpe allacciate, sola. Non saluto nessuno, questa volta, perché non voglio ritrovare nessuno come lo lascio: “che nulla sia più al suo posto, quando torno” pregherei. Ma questo sarebbe volere troppo, e allora che almeno io non sia più la stessa, al mio ritorno…
Valigia in mano, scarpe allacciate, sola.
Speranza, da qualche parte.
E la sensazione terribile e stupenda di essere a un passo dal possibile, come sull’orlo di un precipizio.

domenica 26 agosto 2007

Nostos - l'Odissea del mio ritorno a casa

Passano le giornate con ore di sonno imprecisatamente poche, ore di musica incalcolabili, un sacco di risate e di mare e di parole tue meravigliose che non dimenticherò mai.
Domenica mattina rifacciamo le valige, io mia cugina Vale e il suo fidanzato Nicola, perché ce ne torniamo a casa insieme. Fatto sta che senza neanche essere usciti dal paese (impresa colossale, manco a dirlo), il motore schizza ad una temperatura altissima, capiamo che la pompa dell’acqua è fusa del tutto, con il sommo rammarico di Nicola che ha con la sua Golf un rapporto di dipendenza acuta e che da questo momento in poi si chiude nel mutismo assoluto.
Praticamente, andiamo avanti così: ogni 5 minuti ci fermiamo, apriamo il cofano, facciamo uscire il fumo, raffreddare la macchina, la riempiamo d’acqua, ripartiamo. Passano due ore e mezza e ci rendiamo conto di aver fatto 20 km… VENTI, non uno di più! Al che, dopo un debito consiglio di guerra, io e Vale ci imponiamo chiedendo con fermezza di arrivare al paese più vicino, Maglie, lasciare l’auto e proseguire con i mezzi, in alternativa lo avremmo lasciato in balia della Golf a costo di proseguire in autostop. Aut Aut. E Nicola in silenzio tombale si arrende all’evidenza e accetta.
A Maglie troviamo stranamente subito l’indicazione per la stazione, tutto è facile, la macchina sembra farcela, parcheggiamo e scarichiamo i bagaglietti ormai risoluti ad arrivare a casa per un’ora ragionevole. Stazione di Maglie: CHIUSA. Proprio chiusa, serrata, come se non esistesse, porte sbarrate e il deserto tutto intorno... in pratica siamo sperduti nell'entroterra, per di più a piedi. Eh sì, Cristo si è fermato a Eboli, figurati se arrivava nel Salento! L’unica soluzione sembra essere, a detta di un ragazzo che passa da quelle parti, aspettare il pullman per Lecce e da lì prendere un treno per Fasano, ma c’è ancora tempo prima che passi.
Stoicamente io e mia cugina lasciamo Nicola affranto, seduto sulle valige all’ombra di un alberello sparuto, e ci mettiamo in marcia per cercare un bar: è l’una, ci sono novecentoventi gradi, è domenica e non c’è un’anima in giro. Camminiamo per km, per accorgerci che non c’è nulla nei paraggi che assomigli anche lontanamente ad un bar o ad un alimentari (nessuno beve caffé in ‘sto posto?!), disperate e stanche entriamo nell’unico negozio aperto: una FARMACIA. C’è l’aria condizionata a palla, -30°C circa, rischiamo una broncopolmonite e siamo tentate di comprare un antidepressivo ma ci accontentiamo semplicemente di chiedere indicazioni… per sentirci dire dalla gentilissima farmacista che forse troveremmo qualcosa di aperto in centro, a circa un kilometro di cammino! E chi è che non si farebbe un’ora a piedi non si sa bene verso dove per arrivare al centro di Maglie e trovare FORSE un bar aperto con Nicola che aspetta seduto sulla valigia?
Ci viene un sacco da ridere per questa assurdissima situazione, ma torniamo davanti alla stazione mettendo su delle facce desolate per sembrare persone serie!

Insomma, l’ho portata un po’ per le lunghe e me ne scuso, alla fine abbiamo avuto un colpo di genio e abbiamo chiamato un amico che passava di lì e che ci ha gentilmente accompagnati a casa, vero e proprio salvatore della patria in un momento di così assoluto sconforto! La strada che avremmo dovuto agevolmente percorrere in due ore ne ha richieste cinque...
L’idea che mi resta è che il tacco dello Stivale, rispetto al resto della scarpa, è proprio un’altra nazione!

sabato 25 agosto 2007

Santu Paulu meu de le tarante (Parte II)

La frase più ricorrente di questi giorni salentini è stata: “Ragà, ci siamo persi”
Sembrava una sorta di congiura dello stradario, per cui ad ogni incrocio e ovunque avessimo deciso di andare, ci perdevamo matematicamente! Allora, uno chiederebbe: ma ce l’avevate una cartina? E la risposta è, naturalmente: non una, ne avevamo TRE, tutte dettagliatissime…
La scena quotidiana, qualunque spostamento fosse, era identica. Mettiamo per esempio che stessimo cercando di arrivare a Tricase: dopo aver girato per km su strade sempre più isolate, sterrate, abbandonate, attraverso paesi tutti uguali che hanno cinque case e una piazza e fanno Comune, con mia cugina alla guida che non vede l’ora di tornarsene a Civitavecchia dove conosce ogni anfratto, troviamo un cartello con il nome che cerchiamo da ore: manco avessimo visto la Madonna! Tricase! Finalmente si scioglie un po’ la leggera tensione e cominciamo a cantare in macchina, con l’mp3 collegato alla radio, qualunque canzone capiti...
Ovviamente, trattasi di mera illusione! Arrivati al bivio successivo vediamo una ventina di cartelli blu, e fiduciosi cominciamo a leggere: Casarano, Barbarano, Miggiano, Ruffano, Neviano, Corsano… tutti uguali – e di Tricase neanche l’ombra. Prendiamo una direzione totalmente a caso, perché sulla cartina non ci ritroveremo mai, e chiediamo indicazioni alla prima persona che troviamo: “Scusi, per Tricase?” e quella, puntuale “Guardate, è FACILISSIMO -…mmmh… già i primi dubbi - dovete andare qui a destra, poi giù e poi fù”. La domanda sorge spontanea: a destra e dritto giù ci si arriva, ma FU’?! Cosa avrà voluto dire?!
Insomma, tutta così la storia, alla fine si arrivava con duecento ore di ritardo ma dopo aver riso fino a scoppiare! Questa è la meraviglia di certe compagnie spensierate, estive, che tanto poco mi capita di frequentare, e per le quali la domanda meno ricorrente è “Che ore sono?”, perché chissenefrega del tempo che passa, se è mattina o pomeriggio per andare a mare, che importa a che ora inizia il concerto, se albeggia e sono al telefono a morire… nessun tempo, tutto il tempo che voglio. Nessuna ansia, preoccupazione, passo furtivo, tutto così miracolosamente spontaneo e spensierato!
Sì, il Salento mi ci voleva, forse solo per allontanarmi da casa, forse per ricordarmi che è stupendo ridere di gusto tra ragazzi, un’imitazione, una cavolata, persone nuove, cantare in macchina…
Sì, il Salento mi ci voleva, portandoti con me.

martedì 21 agosto 2007

Santu Paulu meu de le tarante (Parte I)

Una crede di andare tre o quattro giorni nel Salento con le cugine per divertirsi e far casino. E questo succede!
Succede, ma non solo :)
Una crede di aver visto un po’ di tutto ma poi si ritrova a passare una notte intera a girovagare per una piazza di gente matta che si riunisce in ronde e suona e canta e balla come invasata per ore infinite, senza limiti di sorta purché un limite ci sia. La notte della taranta è il vedere dimenticate le passioni, le frustrazioni, le attese della gente, che sembra aver fermato il mondo per 12 ore e aver scelto di essere tutto, di volere tutto, di amare tutto per sempre. Perché la pizzica è micidiale, la pizzica non lascia scampo, è una specie di trance del desiderio e della follia, un perdersi dei sensi e della ragione in movimenti lenti e veloci e poi lenti e veloci ancora… e non la si può descrivere, né capire, solo guardare estasiati o danzare con rapimento!
Al suono di mille tamburi, lontani fra loro ma tutti coordinati come in un’intesa misteriosa, si sono alternate sotto i miei occhi coppie di ogni tipo: due fidanzati, due sconosciuti, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna, due ragazze… ognuno con qualcosa negli occhi, senza inibizioni, ogni coppia che usciva dalla ronda in modo diverso… chi salutandosi e mai più rivedendosi, chi mano nella mano, chi con un bacio già sulle labbra, chi con un semplice sguardo che è un “alla prossima e non scappare”… tutto un immenso delirio festante giustificato solo da quella musica, ossessiva, esplosa, ripetuta, irrefrenabile!
Passano otto ore che sembra una sola, e da lontano vedo che il cielo sta poco a poco sfumando il suo blu intenso e impenetrabile in un celeste chiaro: sta per albeggiare, penso. E invece no. Scopro così che esiste un momento, lunghissimo e quasi triste, fatto di tantissimi minuti in cui il sole esita ad arrivare, come se volesse lasciare ancora un po’ di posto a quella gente dimentica di sé. E’ come se a un tempo non riuscisse a non farsi intravedere ma non volesse mai sorgere. In questo spazio indefinito in cui restiamo, la piazza si svuota e mi passa accanto un parroco giovanissimo, che avrà la mia età e sembra uscito da una Puglia di cinquant’anni fa… qualche rintocco di campane, arrivano ad una ad una le famiglie del paese, è una strana processione: anziani e ragazzi sottobraccio, vestiti per bene per la messa di San Rocco, è ancora prestissimo quando già si sente in piazza il primo osanna che esce dall’altoparlante. E lì abbandonati a noi stessi non siamo ancora stanchi di ballare: l’ultima ronda, ancora una volta, per favore! Danzano i coltelli con movimenti ampi ed energici, danzano di nuovo coppie di ragazzi, e cantiamo ormai tutti, anche solo per dire ciao… Il sole arriva, lo sentiamo, si vede chiara adesso la sua luce.
Lasciamo la piazza di Torre Paduli che sono le otto passate, senza neanche la forza di camminare, e voltandomi prima di allontanarmi vedo ragazzi esausti, lì seduti, con i tamburelli fra le mani, in silenzio. Sorrido. Vino rosso versato per la strada, come sangue allegro, come il segno tangibile di quel dolore e di quella frustrazione che, ancora una volta, la pizzica è riuscita a farci disimparare. Anche solo per qualche ora di autorizzata follia!

lunedì 20 agosto 2007

Sarà che tutta la vita è una strada e la vedi tornare

Esiste ancora, quel mondo parallelo. Basta varcare una soglia.
Una porta inutilmente chiusa, quando tutti ci possono entrare, come sempre negli ospedali; e cammino lenta, spaventata, in un corridoio troppo corto, che si supera in pochi passi e io vorrei non finisse mai. Faccio finta di non sentire le voci, di non riconoscere i capelli di mia zia e sbagliare direzione: piccola, ma c’è ancora, la paura. E poi entro, perché così ho deciso.
Zio Stefano è seduto vicino alla parete, col viso un po’ rigato di un pianto che non può asciugarsi da solo, e un sorriso incredibile e sereno come i suoi occhi blu, ancora dello stesso blu, nonostante un anno in terapia intensiva. Alza le braccia leggermente, solo a mezz’altezza ma con convinzione, e quello è il movimento più enorme che fa da mesi in qua. E’ stato un sorriso immenso, aperto, che voleva essere enorme, il mio. Voleva essere felice, per lui.
Poi ho iniziato anche a guardarlo, zio Stefano, con gli occhi miei di un tempo, di chi una cosa la riconosce. Di chi quella situazione, sì, la riconosce bene. E l’ho vista anche in lui, nel suo blu quasi allegro, l’azione lenta e progressiva di quella specie di veleno che penetra l’aria di un ospedale: ho visto la bontà dolorosa e fragile che conosco, l’arrendevolezza di chi non ha più orgoglio, e non importa cosa dicano, cosa pensino, possono chiedere di tutto, fa lo stesso, con quale forza negare, perché? Non è solo l’assenza di privacy, non è solo l’affidarsi alle mani di qualcun altro, un medico o un’infermiera, è l’inconsapevole abbandonare sé stessi. E’ quello che si diventa, dopo mesi, o forse anche prima. Mi ha raccontato dei suoi saluti a tutto il personale, perché sta per essere trasferito, mi ha detto che c’è stata molta commozione e abbracci, lacrime… annuivo, sapendo perfettamente. Dev’essere tremendo anche per lui pensare di spostarsi da quel posto, quasi peggio che lasciare casa non è così?, anche se ci si trasferisce per accelerare le cure, prevalgono il disorientamento totale e la paura, proprio quelli, uguali ai miei. Annuivo sorridendo.
Ho cercato non so quante volte di scrivergli una lettera, a mio zio, ci sono decine di fogli azzurri che ho iniziato e poi buttato senza neanche sentirmi troppo male per quell’abbandono in cui lasciavo le mie parole per lui. Ho voluto congelare e mettere da parte una cosa che sentivo così forte da essere un peso, un’angoscia; e come se fosse impossibile per me sopportare il senso di colpa, ho dimenticato. Dimenticato per mesi. Rimosso. Perché lui era tempo che voleva vedermi, perché molto prima di me aveva capito e associato la mia storia alla sua, ed io no.
Anzi, io sì. Ma non lo volevo. Soltanto quel pomeriggio, come un prodigio, quando mio padre per l'ennesima volta mi ha chiesto di andare con loro a trovarlo, è venuto fuori un "sì" deciso, che non sono riuscita a capire ma neanche a fermare. E più tardi, mentre stavo lì che osservavo, di colpo come una specie di valanga mi è crollato addosso quanto sono stata egoista, quanto chiusa, quanto come sempre ho scelto il non vedere e non sapere e chiunque me lo potrebbe ripetere che è la cosa peggiore ma lo sapevo già in effetti, è solo che non sono riuscita a darmi a troppe cose. A darmi, in generale. Non so spiegare la ragione dell’essermi isolata in quel modo, non so dire perché mi sono così estraniata, non so neanche se vale la pena capirlo, in fondo… Sono state giornate furibonde, senza atti d’amore… era forse il tempo di cui avevo bisogno, ma qui ci va un debito punto interrogativo.
E ho sentito quasi da subito di non meritare quell’accoglienza, tutto quel sorriso intero, le parole, la conversazione rilassata. Confusamente guardandomi intorno, come se non fossi davvero lì, ho capito che quella specie di perdono nei miei confronti non me lo meritavo. Avrei voluto forse piangere, mentre da un’altra parte il tuo sguardo benevolo mi accompagnava, capendomi già, con la magia che fai.
Non so quanto ci siamo fermati, tanto secondo l’orologio, comunque troppo poco per me, che nel frattempo non mi sono saputa perdonare. Eppure salutando mio zio, dandogli un bacio sulla guancia senza che lui potesse girarsi per ricambiare, né tanto meno abbracciarmi, dicendogli qualche parola ma più di tutto guardandolo, ho sentito una strana leggerezza. Non sarei più andata via, l’avrei riempito di quello sguardo per parlargli sincera, per fargli sapere di me e di quanto avevo aspettato, non serviva però: lui lo sapeva già, come lo sapevo io quando ero al suo posto. Al contempo poi non vedevo l’ora di uscire per respirare l’ossigeno del giardino e capire che nulla avevo sognato, per sentirmi sbattere in faccia l’aria di fuori e rendermi conto che ero stata di nuovo dentro. Di nuovo dentro, uscendone a testa alta.
E se non ci fossero state quelle lacrime, dopo, se non ci fossi stata tu a parlarmi, ad abbracciarmi, a farmi dire tutto e tirar fuori tutto, non sarei qui a scriverne… come se la tua indulgenza mi avesse contagiata e quasi, quasi, come se potessi assolvermi.

Buon viaggio, zio Stefano, a presto! Alla prossima passeggiata insieme, per mano


"Tu lotta ancora a lungo
non voglio che abbandoni
Il più bello dei tuoi giorni devi attraversare
la canzone tua più dolce è da cantare
tu non arrenderti così, sul confine
Il più verde dei tuoi mari devi navigare
il più rosso vino devi ancora bere
tu non fermarti proprio lì, sul confine"


... perchè sarò ad aspettarti, quando tornerai.

mercoledì 15 agosto 2007

Fino a poterci pensare senza affanni

Capita un giorno così che la cerchi, la cerchi con un certo autolesionismo, una canzone disperata. Una di quelle di una tristezza inconsolabile e che non si mette in discussione, che ti farebbero scoppiare a piangere se fossi anche solo un po’ giù di tuo… una di quelle canzoni che vanno bene in un momento come questo, quando anche solo l’accenno di un ritmo allegro infastidisce: stasera è arrivata lei. Che, se vogliamo dirlo, è un pianto ogni volta.

Baia senza vento possiede una bellezza intatta e folgorante, di quelle che se ti attraversano una volta lasciano qualcosa, come un graffio, e non si fanno dimenticare mai.
E’ una canzone del freddo, di un mattino gelido davanti al mare (qualunque mare ma sai che è quello) con una porta chiusa alle spalle e la sensazione che quel vento che ti sferza ti stia portando via qualcosa senza che tu possa reagire. E’ un finale, è un indiscusso addio. Le barche a remi lasciano la riva e c’è nebbia, non ci si vede, un inverno che uccide ad ogni passo e tu chiusa nel cappotto scuro guardi un punto imprecisato, il ghiaccio nella pelle, non è che guardi in realtà, stai piangendo perché sei da sola, perché non ritorna. Piangi con lo sguardo lontano. E’ una strada sconnessa e cattiva, che si inumidisce per farti scivolare, e una volta che sei a terra di nuovo non puoi far altro che restarci. E ci resti, perché sai che te lo meriti e che in fondo di rialzarti non ne vale più la pena.
Un amore che avresti voluto proteggere, accarezzare, riscaldare, e che invece è scappato dalle tue mani andando a morire altrove, scegliendo per sua colpa e per sua stessa condanna un freddo che non perdona nessuno. Preferendo quel freddo a te, che resti sconfitta. E’ un peso enorme che ti crolla addosso, è la colpa di aver dischiuso le mani quel tanto che è bastato perché il tuo amore fuggisse, e invece tu volevi solo guardarlo, solo sentire la sua luce calda sul viso, niente di più. Guardi i palmi immensi delle tue mani, vuoti.

“Vedi le strade di qui un tempo saranno state pece e sassi, e il vociare della gente copriva il silenzio del mare, copriva…”

E’ stato allora che tutto si è fermato e nessuna voce è stata più in grado di raggiungerti, e l’aria immobile ti ha fatto sentire un silenzio così pieno da averne un terrore assoluto. Un terrore che non aveva motivo, perché non avevi niente in fondo da perdere, ma che esisteva nella sua intensità spaventosa, e che ti ha fatto sollevare gli occhi per un istante solo, con un nodo alla gola.

E’ arrivato il mare, dopo. Ti sei sentita respirare. Soprattutto, l’hai sentito: andare e venire, paziente, presente, sempre gelido ma sfumato di rosso, il rosso vivo e commovente che ti ha fatto piangere ancora, questa volta lacrime calde. Esiste un’eternità sicura, nelle onde che senti, da riempire l’aria e il cuore. Anche se non le guardi.
Vorresti gridare ancora, sì, è probabile che lo farai. Cullerai la tua disperazione fino allo strazio e poi la prenderai a schiaffi e urlerai con tutta la voce il male che ti ha fatto. Ma nella tua voce, quella stessa voce con cui gridi, presto si insinuerà la malinconia, che è delle cose lievi, dolorose, amare… ma passate. E ancora una volta, stupidamente, sorridendo come se l’avessi sempre saputo, dirai a te stessa che il dolore passerà. Come finisce una canzone.


“Guardala invece adesso
questa baia senza vento”

lunedì 13 agosto 2007

11/08/07 Fiorella a Ostuni (e quello che c'è dietro)

Sollevarsi da terra per un tempo indefinito.
Il tempo di risaperla vera, il tempo di cercare i suoi occhi ancora, o di guardare i miei, per una volta. Il tempo di stare seduta sulla ghiaia per sentire vibrare il pavimento e poi forse no, solo il tempo di far uscire qualcosa, da me. Quanto tempo l’ho aspettato! Quasi da dimenticarmene!
E come se fosse qualcosa di completamente diverso ogni volta è venuta fuori dalla semioscurità e non si è fermata mai! Sembrava volesse stare a parlare come al tavolo di un bar, che alla fine la festa fosse nostra e lei solo ad accompagnarci, ho cantato, perdio sì, ho cantato! Tutto quello che voleva venir fuori da me senza freni! Tutte le parole che sapevo, quelle che ho inventato, quelle che avrei voluto dirti, ad averti lì… E non ce la facevo a smettere di muovermi, né riesco adesso a descrivere quale insieme di incanti e di sensazioni siano quelle ore, cosa ho sentito, cosa provo ancora, cosa ho negli occhi!
Ciò che di più dolce mi resterà alla fine, io lo so, è quello sguardo. Quando tutti eravamo lì per lei e non per noi, quando gli occhi ci brillavano e non ci importava stare stretti, le mani si sono fermate ed è partita una nuova musica, l’ho visto: il suo sguardo innamorato, fermo ad aspettare, uno sguardo perso, che si vorrebbe spalancare ma già gli basta, indefinibile, lieve, una carezza che è un grazie. Sincero.
Finisce che ho versato una sola lacrima, quando c’era un tempo che bisognava sognare, e quella lacrima aveva un nome, il nome che ho detto (senza accorgermene) racchiusa nella sedia come a proteggermi da uno sguardo troppo forte. Ad occhi chiusi. Perché tu c’eri, in ogni momento c’eri.
Non so cosa avesse nel cuore, ieri sera, Fiorella; in fondo non so se m’importa, non è suo il cuore di cui voglio prendermi cura. Ma la sua voce, quello che c’era lì, era di un’emozione spaventosa, ed è venuta fuori come io la conosco nelle canzoni che magari ho sentito mille volte, quelle che saprei cantare anche senza pensare alle parole, non dovrebbero sorprendermi più, e invece no, invece per la miseria, invece non sarei mai andata via in quel momento.
I treni a vapore, non so cos’è stato. Il cielo d’Irlanda, quello sguardo, il pensiero di te. Sally, mai come mai. Io che amo solo te… bè, eravamo in due. In due, io e te.

C'è gente che ha avuto mille cose
tutto il bene e tutto il male del mondo
Io ho avuto solo te
e non ti perderò, io non ti lascerò
per cercare nuove avventure...



PS: Un enorme grazie a Don Vinc, Gabriella, Francesca (…e Giulio :)), Trifi, Lucio e Marisa: è tutto un altro concerto con voi!

mercoledì 8 agosto 2007

Anch'io (gelo e acqua calda)

Il mio parlare con te è un susseguirsi di “anch’io”. Anche a me, anch’io, neanch’io, tutto che comprende quella meravigliosa sintonia, quel pensare in simultanea, quell’“insieme” che non sapevamo ci fosse ed è apparso. E sono qui che ti aspetto, come spesso succede, ti aspetto ad un angolo della strada, ti aspetto un giorno qualunque delle mie stagioni; nel momento in cui arriverai ti sentirò passare. Passare.
Se tu volessi fermarti allora, fermarti sulle mie spalle e restare un po’ a guardare quello che io vedo, fermarti immobile su di me e sopportare il silenzio, darmi anche un solo minuto di te, quella sarebbe felicità. E in effetti di cosa mi lamento, ché già averti da aspettare è un regalo! Che questo tempo vuoto sia un’attesa, è un regalo. E’ il miracolo di te, io credo.

L’acqua calda esercita un potere enorme su di me. Scorrendomi addosso, è come se sciogliesse il freddo che ho dentro, quando sono di ghiaccio. Se tutto si blocca, se non sento niente sulla pelle, se ogni slancio si congela lentamente, acqua calda. Pochi minuti, ma acqua calda. Mi cade dai capelli sulla schiena, per ricordarmi che esisto io, mi accarezza le braccia e si lascia baciare generosa, restituendo la lucidità che manca quando mi perdo nel gelo. Quello del tempo che mi sfugge, quello del tempo che non passa mai. E quando arriva l’acqua calda, canto a squarciagola il mio essere nel mondo, perché tutto è rivoluzione di sensazioni! Tutto è chiarore e buonumore!

C’è un solo caso in cui ringrazio che ci sia l’acqua fredda. E questo tu dovresti saperlo benissimo. Animoticon
Sì. Anch’io.

venerdì 3 agosto 2007

Viaggi e miraggi

Sola. Sola seduta nello studio, nel silenzio, a porta socchiusa. Seduta anche per evitare eventuali attacchi di cuore, ma seduta perché sono debole e mi gira la testa, e ho dimenticato di mettere la musica. C’è una strana tristezza che sale da quest’immobilità, sembra la nostalgia di una voce, ma non voglio cercare un rimedio: semplicemente la respiro. E la riconosco. E’ lei, è quella di sempre, di ogni pomeriggio da tanti anni a quest’ora, com’è che l’avevo dimenticata? E’ quella di sempre, sì. Come poi tu abbia fatto a sentirla, per me resta impossibile da spiegare. Come sia stupita, come sia felice di questo, resta impossibile da esprimere.
Tutto è così fuori dal comune, in questi giorni di passaggio. Faccio cose che poco tempo fa avrei creduto stranissime, per la forza degli eventi, per inerzia, per amore, per volontà… mi ritrovo a recitare preghiere che non sapevo di conoscere, nel cerchio di sedie in quel salone spazioso, guardando volti amati e sconosciuti allo stesso modo; mi ritrovo a prendere la macchina andare e venire e salutare la gente per strada come se fosse la cosa più normale del mondo, con quelle scarpe lì; mi ritrovo a far finta di niente, se non voglio dare spiegazioni; mi ritrovo di notte a tremare, a sperare, a immaginare, a desiderare; mi ritrovo a dirti, guardando in alto per la paura e con poca voce, che ti voglio bene.
E poi devo tornare alla vita normale, se ci riesco, almeno ogni tanto…
Allora mi auguro buon viaggio, perché questa casa a volte sembra un groviglio di tensioni. Tutte piccole, leggere, nostre e degli altri, insignificanti magari, ma tutte presenti. Spero, forse mi illudo, che messo piede su quella macchina domattina presto, lasciato questo posto per un po’, arrivi una tempesta di pace. Pace bianca. Che torniamo a parlare e a scherzare senza taciti rimproveri negli occhi, che lo vedano, quanto sono presente, molto più partecipe di quanto fisicamente non dica, che vedano come rido di gusto e che guardino i miei colori senza più credermi assonnata. Spero che la compagnia varia faccia il suo dovere di compagnia varia, giusto cielo!
Mi auguro buon viaggio perché voglio sorridere molto e pensare un po’ meno di quanto faccio in genere, mi auguro buon viaggio perché parto e, incurante di tutto, il sole mi sorride.
Le lacrime si sono asciugate. Parto, ancora una volta col cuore quasi leggero, come su una musica.


"Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il piu' bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto"


(Nazim Hikmet)

lunedì 30 luglio 2007

28/07/07 Farewell

Te ne sei andata in punta di piedi. Te ne sei andata di nascosto, io non ti ho sentita!
Sono venuta mille volte nella camera da letto in fondo al corridoio, ma non c’eri. Ho pensato che forse eri seduta in cucina, magari al telefono perché i compleanni e gli onomastici li sai tutti, giorno mese e anno, come un’anagrafe, e a tutti tieni che arrivi il tuo pensiero. Neanche in cucina c’eri.
Non credo che quella sia tu, così in silenzio. Eppure sono tue quelle mani di cera che stringono il rosario d’osso, proprio quel rosario, che trovammo per te in mezzo al marasma del mercatino delle pulci di Lyon. Era quello che ormai usavi, davvero? Quello tenevi accanto al letto? Vederlo così incastrato tra le tue dita immobili non mi convince che quella sia tu, senza più un movimento né una parola, ma mi ricorda che le nostre vite sono intrecciate. La tua e la mia, nonna. Sei una tempesta di ricordi nella mia mente, e nessuno di essi mi fa piangere, nessuno fa esplodere la mia tristezza, la mia solitudine, la mia disperazione… non posso stare in mezzo a tutti questi estranei, non sopporto quello che forse mi si richiede, una sorta di esibizione del mio dolore davanti a sconosciuti. Sì, sono venuti anche per me, ma io non sono qui per loro. Dove sono io, dov’è quel dolore? Arriva a tratti e vado a nasconderlo, a sentirlo da sola. Non mi importa di cosa penseranno.
Nonna Ziella, non eri tipo da ricordi tristi e lacrime agli occhi, saresti contenta di vedere che mi sono legata i capelli e che sono vestita “per bene”, “garbata”, che sono venuta a trovarti, non mi faresti piangere. Mi dicono che è stato un infarto, sai, ma poi come volevano che reggesse, il tuo cuore? Otto fratelli e sorelle, cinque figli, dieci nipoti e ventimila storie nella tua mente lucida fino all’ultimo, storie che mi fanno sorridere a leggere i numeri che avevi sulla tua sacra agenda telefonica, persone mai sentite, dalla fornaia al macellaio all’amico dell’amico che aveva un amico, fino al numero che so bene, quello 0105636507 che tu hai riportato come “Genova stanza n. 5”. Ci sono anch’io, lì dentro, e l’hai scritto grande perché è il numero di un posto lontano e sconosciuto ma alla fine non ti spaventava affatto chiamarmi. Neanche in Francia, ti spaventava, altrochè! Non c’è nessuna, nessuna delle tantissime persone che sono venute a salutarti (ed è veramente una miriade di persone!) che non dica di averti sentita da poco, che gli avevi mandato dei saluti, degli auguri, che ti ricordavi sempre di lei e dei suoi problemi o delle ricorrenze. Tutti sono qui per te, perché sei stata per tutti. Sei per tutti. Un mare infinito di gente.
“Ci si ostina in affezioni risolute, ignorando tacitamente l’evidenza”: forse è quello che sto facendo. Sorrido alle tue raccomandazioni, alle prediche, alle immancabili critiche sul modo di vestire, di pettinarsi e di vivere di noi nipoti che per tanto tempo non riuscivi a capire. Sorrido se ripenso che quando ti spiegai il referendum sulla fecondazione assistita dicesti che avresti votato quattro sì, come me, tu religiosa fino alla punta dei capelli ma con più buonsenso di tanti miei amici e cugini più giovani. Sorrido perché quando uscivamo da casa tua ci richiamavi sempre quando ormai eravamo al cancello, per darci qualcosa da portare a casa, immancabili pacchettini. Il sorriso si cancella un po’ perché parlare di questo al passato mi turba. Nel mio sogno io sono ancora piccola, e vengo a guardare i cartoni animati a casa tua alle sette e mezza di mattina (“Anna dai capelli rossi”, “Papà Gambalunga”, “Heidi”…), ma non voglio che tu ti alzi per me, è ancora tanto presto. Prima di rassegnarmi a prendere lo zaino e andare a scuola passo dalla tua stanza, che è com’era tempo fa, sono bassa rispetto al letto ed è buio, ti avviso che sto andando via e come sempre mi chiedi se tornerò a mezzogiorno. Sono tornata così tante volte! D’inverno amavo il fuoco acceso se fuori pioveva, non me ne sarei andata mai: dopo ore e ore di scuola avevo il mio posto lì accanto e quel tepore confortante, quella luce soffusa che suggeriva la protezione dal brutto tempo. Amavo la tua camomilla con l’alloro se avevo dolori, il divano morbido, il cornetto al cioccolato che mi prendevi da Sisto quando potevi avermi tutta la mattinata e ancora uscivi a far la spesa da sola. Bambina.

Io so che l’angoscia arriverà. Ha sempre tempo e modo di arrivare, lei. Verranno le lacrime, i sensi di colpa, verrà la paura e la solitudine di casa tua deserta, il terrore di non sentirti parlare. Il posto dove sei, quel piccolo cimitero che non avevo mai visto, adesso mi dà una pace sconfinata, ma forse non lo farà sempre. Verrà lo sconforto. Eppure io di te, di che donna sei, ho un ricordo radioso.
Mi ritrovo a pregare e a sperare, oggi, che quel paradiso per cui hai vissuto, agito, a cui hai sempre guardato, esista davvero. Che esista per te. Ciao, nonna.


"Piovono petali di girasole
sulla ferocia dell'assenza
la solitudine non ha odore
ed il coraggio è un'antica danza

Tu segui i passi di questo aspettare
Tu segui il senso del tuo cercare

C'è solo un posto dove puoi tornare
C'è solo un cuore dove puoi stare"

giovedì 26 luglio 2007

Assolutamente confuso

Guardo fisso la stella polare, chiedendomi perché stia sopra casa mia quando il nord è dall’altra parte. Un solo pensiero attraversa la mia mente, lasciando la sua scia di associazioni come una stella cadente: io potrei dirti tutto. Prendere e partire, prendere e andare, come se fossi davvero lì per me. Parlarti dei miei bambini senza versare una sola lacrima, se sei tu. C’è il rimpianto del viaggio che non ho più fatto, a ferirmi lieve. C'è questo strano vedere e non vedere le cose. Prendere e andare, con i capelli scomposti e la canotta da mare, così, se solo questo vento non fosse una frusta di calore. Io ti direi tutto. Anche se le cose più nascoste e inconfessabili di me, quelle che me stessa non sa, tu le sai già.
Poi capita che mi stendo sul letto a guardare su, ma questa è una posizione in cui sono inerme, in cui nessuno mi protegge e tutto può prendermi. E infatti mi colpisce. Quella dolcezza senza precedenti, mi colpisce, e come qualcosa che mi prende allo stomaco mi colpisce poterti pensare. Pensarti in ogni modo, mentre sei altrove. E maledico, anche se solo un po’, il mio stupido accento.
La tua voce da lontano ritorna. A quest’ora, in questo posto dimenticato dal mondo, con questo vento finalmente fresco, mi batte il cuore pensandoti. Non è il mare, il suo immenso indefinito, la sua rabbia, il suo blu spaventoso; è il fiume morbido, accogliente, è una risata imbarazzata, è te. E’ come sei tu, che adesso non leggo più con la mia voce.

venerdì 20 luglio 2007

Strane nuvole

Lei arriva con la notte, come il desiderio di un bacio. Questo non mi sorprende, perché io e la notte abbiamo sempre parlato e raramente il sonno è arrivato come e quando avrebbe dovuto. La luce accesa dà fastidio e non posso leggere all’infinito, sono costretta a restare ad occhi spalancati, con la testa sul cuscino, a guardare con stupore le stelle sulla mensola. Il mio cielo rassicurante, se è una notte di pensieri: stelle fosforescenti di via San Vitale. Così inavvertitamente mi spoglio ad una ad una di tutte le mie inibizioni, i miei desideri più nascosti prendono forme, colori, voci, consistenza, visioni di cui mi vergogno, da sveglia sogni bellissimi di posti e persone che fantastico di poter vedere, toccare, abbracciare. Accade allora, nel momento in cui mi allontano dalla terra, nei minuti che concedo ai miei segreti, che mi dimentico del dolore.
Con intensità forte o lieve, di mille forme, con milioni di cause insieme o senza alcun motivo: posso ancora sopportarne, dolore? Il dolore che ferisce, quello che unisce, quello che sorprende e quello che passa: posso ancora portarne i segni? Non so se mi è rimasto tempo abbastanza, volontà, o semplicemente spazio perché lui possa arrivare. Non lo crederei. Eppure arriva.
Sono così piena d’amore, ho chi mi colma interamente di attenzioni e parole, ho chi pensa, ogni tanto, che io esisto, ho chi rende ancora più dolce la musica più dolce del mondo, e lo fa sotto i miei occhi e per me. Ma dolore e amore giocano quasi ad armi pari, e quando l’uno prevale l’altro si fa sentire, anche piano, anche delicatamente, a stabilire sempre e comunque la propria presenza.
E’ che forse non avrei amore se non sentissi ogni tanto, piccola in qualche angolo di me, una fitta di malinconia. E’ un po’ come un tributo da versare, come il ricordo che non sempre e non tutto è stato così facile, che dietro una giornata leggera se ne nasconde una di impegni e doveri e sofferenze con cui confrontarsi. Quindi, l’accetto come viene, sapendo che sarebbe più pericoloso se vivessi ogni giorno in nuvole di zucchero. L’accetto quasi sorridendo.
Perché si fa dimenticare, il dolore, per lungo tempo, finge di lasciare solo i ricordi migliori, si mette la maschera più bella che ha perché possiamo dubitare di averlo davvero attraversato e pensare che portiamo con noi solo i momenti di festa. Ma è una maschera, appunto: è un trucco che presto o tardi finisce. E lui torna. Torna quella sensazione di bocca arsa e ferita, di nausea, torna la fitta che ti riporta ad un’altra, torna la consapevolezza e la lieve percezione del cadere senza saper rialzarsi, cadere e cadere e restare a terra impotenti piangere senza che per questo le gambe si muovano lasciar cadere il telefono e provarci e dover per forza chiedere aiuto fingere che non sia successo nulla e tornare a parlare perché te lo dovevi aspettare e ti avevano avvisata e come hai fatto a dimenticartelo?
Va bene, così. Va benissimo. Anche perché affrontato il momento di ogni giorno che mi riporta al dolore, ed è quasi un pugnale dolce a volte, posso tornare a pensare a quello che più amo. A quanto parliamo di notte, io e lei. Al libro che ho appena iniziato e appena finito e vorrei regalare al mondo intero. Al concerto, ai frollini al cioccolato, al tempo che non finisce.
Alla cattedrale di Saint Paul nel 1910.
Strane nuvole, quest’oggi. Strane nuvole davvero.

"E come cambia poco una sola voce
nel coro del vento
Ci s'inginocchia su questo sagrato immenso
dell'altipiano barocco d'oriente
Per orizzonte stelle basse
Per orizzonte stelle basse
oppure... niente"