venerdì 29 giugno 2007

Parentesi notturne

Quando sei sola in casa, ti ritrovi come una stupida a fare le cose che si fanno sempre. Appena alzata ti fai il caffé, fai il letto entro la fine della mattinata, innaffi le piante, cucini alle ore giuste e lavi la cucina subito dopo pranzo, ché non si può lasciare tutto in disordine, pieghi i vestiti, spazzi il pavimento. Cerchi di mantenere le cose esattamente come stavano quando c’erano tutti, quasi che quei gesti, quelle precise situazioni, ti dessero sicurezza. Già lasciare il letto disfatto sarebbe l’orlo del precipizio, l’inizio del caos! Potresti fregartene di tutto, in effetti, ma sai che allora dimenticheresti chi sei e cosa devi fare. Cosa devi fare, soprattutto. Basta tanto poco a farmi perdere? Invece tutto normale, tutto un po’ pulito, rassicurante, anche se molto più silenzioso.
Quando sei sola in casa, certe volte, ti ritrovi ad essere sola davvero. E allora ti chiedi se sia proprio impossibile studiare Pascoli mentre si ascolta Anime Salve… almeno quelle due voci, ed era un po’ che non le sentivi, riempiono la stanza. E così canti, stupida e bambina, la tua smisurata preghiera di speranze, il tuo rosario interminabile di paure, ed appoggi la testa sul libro per non vederlo più. Sono così altrove, ultimamente.

Le tue mani. Se potessi averle adesso, anche solo per un momento, tra le mie, le bacerei, le tue mani. Le bacerei con tenerezza come a volte bacio le mie, piano e d'amore, quando ricordo le cose. Le tue mani segnate dal vento, scure della tua pelle, le poserei sul mio viso e ne sentirei il calore, bagnandole di pianto e poi consolandole, sapendo che è per adesso e non per domani, sapendo che non avrò il loro tocco ancora. Le tue mani sarebbero il mio sollievo, sarebbero il riconoscimento delle mie difficoltà, così le stringerei forte.
E le lascerei andare.

lunedì 25 giugno 2007

Il mare e l'incendio

La mente si è svuotata del tutto, e per oggi la posso perdonare. E’ andata anche questa prova, la terza, la quarta, l’ennesima in cinque anni… è andata. Finito di scrivere, senza rileggere quasi nulla, consapevole di aver riempito quanto potevo riempire, ho consegnato quei maledetti fogli e sono corsa a mettermi in costume! Il mare non poteva attendere oltre!!!
Ogni anno da quell’anno il mare è il premio che posso darmi fiduciosa sapendo di aver fatto qualcosa di buono, ogni anno da quell’anno è lì che sembra non aspettare altro che abbracciarmi, è la distesa generosa che non si nega più, mai più a me, da quell’anno. La prima volta di giugno porta con sé quel sapore di un amico ritrovato, e la gioia della conquista che lascia i suoi segni bianchi e benevoli di sale sulla pelle. Non mi sazio mai di quel vedere appannato, non potrei dopo averlo perso per tanto tempo, non potrei quando so che era amaro guardarlo e desiderarlo ed era dolce averlo… quindi non posso ora. Io sono gente comune, sono gente di qui.
Lo so che non è tutto finito (altrochè!), so che c’è ancora tanto lavoro e manca la volata finale, ma oggi me lo voglio prendere così, di bontà verso il mio corpo che ho maltrattato parecchio in questi giorni. Berrò un sacco d’acqua, mi sistemerò i capelli, metterò la crema sulle spalle e sulle mani, e stanotte dormirò tanto per premiarlo della sua collaborazione, perché può essere un corpo infido quando si emoziona ma lo è sempre in buona fede… in fondo è il mio e porta tutta la mia storia su di sé, scritta in lingue diverse.
Poi arriva un pomeriggio come questo e pensi che storia dell’arte in fondo ha fatto domande accessibili, biologia ti spaventa ancora ma mai quanto italiano che cresce ai tuoi occhi come un gigante inavvicinabile, pensi che la Simone è stata stronza come al solito (irredeemably) e che l’Annicchiarico non è in grado di fare domande che superino una difficoltà da primo superiore, pensi che la Doria ha mantenuto la sua parola e che hai fatto bene a ringraziarla, pensi che latino si poteva fare ma lo sguardo di quella donna resta troppo severo per promettere bene. E metti tutte le canzoni che hai in una grande tracklist per concedere ai tuoi neuroni musicali di godere anche loro, e trovi quella che non ti aspettavi… come sempre. Quella che ti trafigge il cuore e quasi ti fa piangere a pensare quanto eri ingenua e bambina le prime volte che l’ascoltavi e quanto sia bella ancora adesso, così terribilmente bella. Lei resta immensa e ha mille volti dentro di sé, mentre tu cresci e cambi, il volto del soldato e il volto del bambino, quello del ragazzo, quello del viaggio, quello del dolore si fondono in te con intensità sempre diversa. Non ci puoi far niente, perché non te l’aspettavi e tutto si paralizza, non riesci a reagire… perché reagire… lei ti passa accanto, breve e lunghissima.
Il regalo di oggi al mio cuore è stato questo. Questa canzone.

Il ragazzo ha un fucile di legno e ci tira alle stelle
com'è dritta la schiena, che bianchi i suoi denti e gli occhi sono due caramelle
e se provi a sentire stanotte puoi sentire abbaiare
...è il suo cuore di cane che corre e non si vuole fermare

lunedì 18 giugno 2007

Curve nella memoria

Premessa: so che chi non ha vissuto queste vicende con me può trovare difficile capire di cosa sto parlando. Intanto, perchè qualcosa si comprenda, voglio specificare che il "tmo" è il reparto di trapianto di midollo osseo che ha ospitato la mia guarigione per lunghi mesi; le "ragazze" a cui alludo sono naturalmente le infermiere, e Tiziana e Cri sono due di loro; Dado... bè, Dado è il mio medico, all'anagrafe Edoardo Lanino, forse di lui vi parlerò un'altra volta.
Invece Giuseppe, Marco, Adil e Jo erano altri pazienti, conosciuti in tmo nel corso di quei mesi.... il loro destino non è stato il mio. Il dolore di averli persi resta vivo in me, così come il ricordo dei loro sorrisi e dei momenti allegri. Tutti, tutti i momenti allegri, e sono stati tanti, in quel corridoio del tmo!


E oggi, una tristezza sconfinata come il mare. Irreparabile.
Jo, perché mi regalavi tante cose? Volevi che di te mi restasse la traccia? La tengo ferma, profonda, in me. Adil, cos’è che ti ha rubato l’anima? E perché ha lasciato che tu soffrissi tanto? Giuseppe mi accarezzavi anziché graffiarmi, venivi in braccio senza dar testate e giocavamo per ore davanti a quella finestra sul mondo, c’era anche freddo e vento ed era forte… Marco davvero non sapevi quale fosse il problema? Davvero non l’avevi capito intuito chiesto mai? Avevi diciott’anni, Marco! Avevi dei sogni, e non chiedevi nulla?
Vorrei qualcuno a cui raccontare di voi. Raccontare di quando parlavamo, di quanto ridevamo, eravamo uguali ed eravamo malati ma non ce ne fregava niente.

L’abbraccio di Barbara e gli occhi di Cri sono le ultime immagini che ho in mente del Gaslini. Quella dolcezza indecisa, quel colore. Barbara, raggio di sole, è una persona che è entrata nella mia storia in punta di piedi, timorosa, e il tocco della sua mano era sempre silenzioso e discreto.
Il giorno che sapemmo di Jo ero in Day Hospital. Dentro di me sentivo che era questione di ore, di minuti, ma sperai sino all’ultimo che non fosse vero. Perché io Jo lo conoscevo. Jo era un ragazzino di dieci anni, e ci eravamo visti la prima volta nell’anticamera delle sale operatorie. Sua madre ci disse che sarebbero venuti presto anche loro in tmo, perché la malattia non faceva che tornare, e si era giunti al trapianto anche per lui. Lo rassicurai tanto, me lo ricordo, raccontai di quanto stavamo bene in reparto e di come erano simpatiche le ragazze, sorrisi, gli dissi che mi avrebbe trovata lì quando sarebbe arrivato. Poi venne Dado, e come sempre mi avviai sottobraccio con lui in sala operatoria, non ricordo precisamente perché, una cosa da niente credo, forse una semplice biopsia.
Jo venne in reparto poco tempo dopo, e non era un gran periodo per me, stavo sempre in stanza con la mia maledetta nausea immobilizzante, ci vedevamo poco e più che altro con sua madre Elena. Mi mandava delle cose però, come il sasso con la runa elfica che ho ancora in camera mia, e ogni tanto si affacciava timido alla porta della stanza. Quando lasciai il tmo, parecchio tempo dopo, lui era ancora lì. Poi mesi di telefonate, qualche cena insieme quando uscì, risate… e i suoi problemi con la gvh. La solita, immancabile, bastarda gvh.
Quella mattina in Day, dopo ore passate in attesa di notizie, tutti i timori si fusero nell’impatto con la realtà. Non potevo far altro che piangere, piangere soltanto. E lei, Barbara, anziché farmi andare in sala per la visita venne da me, prese una sedia bassa e mi si sedette accanto, mi fece poche domande, quelle strettamente necessarie. Rispondevo a monosillabi, senza mai guardarla, con gli occhi gonfi fissi sulla TV. Quasi ipnotizzata, perché se mi fossi girata verso di lei le sarei saltata al collo in lacrime. Barbara. Barbara che quella mattina era corsa al trasfusionale a dirci di non andare da Jo, perché non stava bene. Barbara che aveva pianto a dirotto forse più di me, Barbara che è così dolce, che non si merita niente di tutto questo. Barbara che faccio fatica a considerarla una dottoressa, che nonostante tutto sorride strizzando gli occhi, e si lega i capelli, e sta bene ovunque e con tutti. Raggio di sole. Il suo abbraccio me l’ha regalato dopo anni che ci conosciamo, per pudore, per timore di essere invadente, e io l’ho colto felice perché lo aspettavo e gliene sono grata, così grata! Perché mi ricorda di vivere, lei e tutte le altre, mi ricordano di vivere!

E Giuseppe, quant’era bello, piccolo, quel pomeriggio insieme non lo dimenticherò mai, quando sua madre mi disse “Può rimanere un po’ con te, che noi andiamo a fare la spesa?”. Avevo paura a tenerlo perché non pensavo di esserne in grado. Ma in fondo eravamo in tmo e c’erano le ragazze, di cosa spaventarsi? Poi eravamo felici di stare insieme. Io con lui, solo con lui al crepuscolo scuro di un gennaio freddissimo, su una barella in corridoio, giocando a far rotolare un flacone di gocce giù per un righello, mentre fuori il tramonto scendeva azzurro su un mare che mai avevo visto così impetuoso. Io a sostenerlo mentre cercava di camminare, io a sostenere lui! Io che a malapena mi reggevo in piedi lo tenevo in braccio, perché mi amava, perché si attaccava a me e mi abbracciava, delicato, bambino, mentre con tutti gli altri scalciava e faceva i capricci, quasi a dirmi “siamo tutti nella stessa barca, no?” Le ragazze si davano le consegne e noi giocavamo con la pallina di polistirolo, faccia da delinquente Giuse, certe volte giocavamo di nascosto e a dispetto della stanchezza, per non farti piangere, per farti dormire più sereno, Giuse, perché ti facessi misurare la febbre da quella povera Tiziana che non sapeva come fare. Ci dimisero quasi insieme, ricordi?
Dopo la breve convivenza fuori dal Gaslini, in due appartamenti vicini alle Sturline, e qualche ora insieme quando avevo un po’ di forze, mi ricoverai agli Infettivi, e lui quasi con me per altri problemi. Poi non so bene, poi mi dissero che era tornato in Sicilia, a casa sua, senza soluzioni. Ce la farà, pensavo, ce la farà lo stesso, quel bambino è immortale e Dio avrà pietà dei suoi due anni.
E invece quella telefonata. E invece ecco qui.
Giuseppe non ti ho nemmeno rivisto prima che morissi! Prima che il tuo cuore non sopportasse più nulla e smettesse di battere! Il mio Giuseppe!
Stavi imparando a camminare in una corsia di ospedale. Potevi essere un uomo nel mondo, ora, ma non ti hanno risparmiato. Non hanno potuto salvarti. Di te però mi resta quel sorriso beffardo, la foto in cui siamo belli insieme, e le tue mani piccole che mi sfioravano le guance.
Io, la tua ragazza. Un bacio ovunque tu sia.

martedì 12 giugno 2007

Il cielo d'Irlanda e Mrs. Dalloway

Ho dimenticato di annaffiare il bonsai del salotto per quattro o cinque giorni consecutivi, la settimana scorsa. L’ho fatto colpevolmente, come un omicidio. Ci passavo davanti, guardavo le foglie riarse, andavo via. Come un omicidio. Sembra che abbia bisogno di veder soffrire le cose e le persone che amo, per capire di amarle davvero… ma forse poi no. Forse sono solo quei periodi in cui cado nella spirale autodistruttiva, che mi portano a pensarmi come una persona così crudele. Così intimamente cattiva.
Arrivano sempre eventi o pensieri ad addolcirmi, per fortuna, e così è anche questa volta… Stamattina è stata Fiorella, come riesce solo a lei quando la sua voce ha tanto potere su di me. Volevo ascoltare “Tutti cercano qualcosa”, l’ho cantata e riscoperta come mi piace, senza pensare affatto che subito dopo c’era la perla dimenticata: “Il cielo d’Irlanda” ha invaso la stanza ad alto volume, è salita veloce attraverso il pavimento, non le ho resistito neanche per un istante! Ho urlato e saltato e riso di me, mi sono sentita sciocca buttando via le scarpe, ho sentito di nuovo le mie gambe rispondermi, le ho regalato il meglio che avevo, sono crollata a terra esausta! sorridente!
In me c’è altro. C’è così tanto altro! E io spero che un giorno lo vedano le persone a cui non l’ho mostrato mai, specialmente quelle a cui l’ho negato inconsapevolmente perché le amavo. Perché quando amo divento eccessiva e ferisco, distruggo, non respiro bene. Vorrei dare a queste persone tutta la dolcezza di cui sono capace, l’energia positiva, l’entusiasmo, il bene che ho. Tutto a loro.
Da qualche giorno ho ripreso a dare acqua a quella povera pianta, e mi fa felice vedere ogni mattina che le foglie si aprono e tornano del loro verde tenero e vivo. Chissà che tutto non inizi così.


“In people’s eyes, in the swing, tramp, and trudge; in the bellow and the uproar; the carriages, motor cars, omnibuses, vans, sandwich men shuffling and swinging; brass bands; barrel organs; in the triumph and the jingle and the strange high singing of some aeroplane overhead was what she loved; London; this moment of June.”

(V. Woolf)

sabato 9 giugno 2007

Starry night

L’aria ancora umida mi entra nei polmoni, sa di pioggia. Quant’acqua è caduta!
Così non entro in casa, perché qualcuno davanti alla tv vorrà sapere com’è stato lo spettacolo: noioso, prevedibile, pessimo, ecco com’è stato. Ma non entro. C’è troppa pace troppo profumo troppo silenzio è così bello, io non ci resisto… io mi siedo sul muretto di marmo, freddo, e guardo casa mia. Ferma.
Poi la vedo appannata, capisco che sto piangendo e le bevo, le lacrime salate, perché sono mie e le aspettavo da un po’. Perché io sono questo, fuori luogo e fuori tempo massimo, e non lascio che nessuno mi veda piangere. Ecco perché non posso fare ciò che mi suggerisci, professoressa Mary Doria. Non posso essere brillante e attirare l’attenzione. Chissà perché mi è venuta in mente.
Sono stanca di essere messa alla prova, così stanca, stanca, stanca. E nessuno piangerà per me.
Quindi a passi incerti vado verso la porta. C’è mia sorella, sono fortunata… posso correre in bagno a cancellare gli occhi rossi e poi mi accoglierà il sonno della stanchezza, gentile. Gentile e morbido. Così buonanotte, buonanotte ancora.

mercoledì 6 giugno 2007

I knew I loved you

Da stamattina sono in uno stato d’animo incantevole: potrei diventare qualunque cosa da un momento all’altro, la persona più serena del mondo, la più infelice. Ridere a fior di labbra, farmi male. Era tantissimo tempo che non sentivo come inizia a piovere; scappando dall’ennesimo caffè familiare, mi sono chiusa in camera degli ospiti e affacciata alla finestra: la prima, la seconda, e poi decine di piccole gocce giù dal cielo, piano, quasi a non voler disturbare. Sugli alberi, sulla mia mano, acqua appena tiepida e bianca, con un rumore leggero ma uguale. È infinitamente bello, quando inizia a piovere.
Quando mi sono svegliata non era ancora tempo di studiare (ma arriverà, questo tempo, o devo farmi violenza?) e ho passato le ore a svuotare lo zaino, come faccio ogni volta che devo partire. C’erano dentro ancora due scontrini per Ilaria, non ho avuto cuore di buttarli, li ho chiusi nel diario col biglietto dell’autobus e la fotocopia rimpicciolita del Cubismo. Ed ho la mente limpida, vuota, azzurra. Sorrido stranita, e sfoglio i quaderni che non mi servono più, selezionando ordinata i fogli per gli esami e quelli da mettere da parte. Tutto è così pacifico, così lento, oggi.
A volte mi capita di vivere solo per una persona, un ragazzo, una donna, un amico. Allora mi sento gelare. Mi guardo senza vedermi, fisso i miei occhi marroni senza pensarmi e mi mordo il cuore a immaginare quella persona così lontana e i miei doveri. Soprattutto, le tante cose che quella persona non saprà mai, e che io penso di lei. Il mio egocentrismo. Persone così belle che attirano a sé, che le riempiresti di baci e di sorrisi e di parole per tutta la vita.
E la felicità è una strada rettilinea illuminata da fari arancioni.
Le tue labbra sempre piegate in quella curva sul lato destro, che rende il tuo parlare delicato e lieve, accomodante. Sto per imparare, me lo sento, ad andare avanti, coi capelli legati che mi fanno sembrare grande, seduta in un bar, a pensare al futuro. Oh, ridemmo molto, sì! Risi perchè non sapevamo cosa volesse dire una parola. Risi perché l’avevi ammesso. E ridemmo, ancora, quando dissi che mia sorella era matta… andò bene. “The hands of time would lead me to you…” La dovresti ascoltare, questa canzone, perché è bella e te la meriti. Ti meriti tutti i baci, i sorrisi e le parole che non posso darti.


«Oggi non era un giorno di parole, con mire di poesie e di discorsi, né c'era strada che fosse la nostra. A definirci bastava solo un atto, e visto che a parole non mi salvo, parla per me, silenzio, ch'io non posso»

(Josè Saramago)

sabato 2 giugno 2007

We fly high

Ho dormito rannicchiata in un cantuccio del letto, così che il mondo non dovesse preoccuparsi che io esisto. Perché potessi proteggere meglio il mio petto e non perdere nessuna delle tante correnti che l’attraversavano, tenerle tutte per me, accarezzarle consolandole. Accarezzarle consolandomi.
Abbiamo volato in alto, amici miei. I milioni di giorni e ore insieme sono stati il cielo da solcare, un cielo a volte di un azzurro terso e avvolto dal sole, a volte burrascoso o solo grigio di nebbia. Abbiamo volato in alto ridendo e guardandoci in faccia, urlandoci contro, sorridendo ai nostri sorrisi, cercando di diventare noi stessi, cercando di fare quanto si doveva, di dare quanto si poteva… e abbiamo ricevuto in cambio una gemma brillante d’oro che splende al centro di ognuno di noi, oggi, domani, forse sempre. Abbiamo ricevuto parole e amore. Bei voti immeritati, brutti voti giustissimi e viceversa. Qualche delusione. Qualche sorpresa da bocca spalancata. Troppe cose per elencarle, troppo importanti per non parlarne con un brivido leggero.

Ho dormito per quasi 9 ore, senza muovere neanche un muscolo, e mi sembra di non aver riposato affatto, stamattina ho le ossa rotte e la testa deserta… non ho riposato affatto, oggi che mi sento la regina di un paese devastato. E questo fastidio forte che mi chiude lo stomaco e accentua il malessere sembra essere davvero una specie di somatizzazione, se non fosse che è l’era della scienza e devo chiamarlo virus, ma serve solo a rendere il mio viso un po’ più triste. Tanti uomini e donne uomini e donne ogni mattina lì per anni e senza che voglia accentuare questa specie di nodo in gola cosa c’era da aspettarsi a fare una festa dei maturandi il primo giugno con le magliette solo nostre e i cappelli lanciati in aria cosa c’era da aspettarsi forse la gioia di un inizio o la teatralità di un finale no niente di tutto questo ma una linea blu di dolore malinconico e dolce salire dal pavimento e restarmi nelle gambe e nella testa per ore infinite e veloci abbracciare una giacca bianca riconoscere una canzone impossibile da trovare rubare una torta e mettersi in posa perché ci vediamo agli esami ma non più così miei compagni di viaggio non più come adesso… non più nei nostri banchi coi nostri tormentoni e i suggerimenti ai compiti in classe. Eravamo noi, noi e loro. Noi.
Poi la sera mi addormento e qualche volta sogno perché voglio sognare, e nel sogno stringo i pugni tengo fermo il respiro e sto ad ascoltare…come i treni a vapore, mia anima, come i treni a vapore quest’inverno passerà.
E voleremo in alto, ancora, tutti.