domenica 26 agosto 2007

Nostos - l'Odissea del mio ritorno a casa

Passano le giornate con ore di sonno imprecisatamente poche, ore di musica incalcolabili, un sacco di risate e di mare e di parole tue meravigliose che non dimenticherò mai.
Domenica mattina rifacciamo le valige, io mia cugina Vale e il suo fidanzato Nicola, perché ce ne torniamo a casa insieme. Fatto sta che senza neanche essere usciti dal paese (impresa colossale, manco a dirlo), il motore schizza ad una temperatura altissima, capiamo che la pompa dell’acqua è fusa del tutto, con il sommo rammarico di Nicola che ha con la sua Golf un rapporto di dipendenza acuta e che da questo momento in poi si chiude nel mutismo assoluto.
Praticamente, andiamo avanti così: ogni 5 minuti ci fermiamo, apriamo il cofano, facciamo uscire il fumo, raffreddare la macchina, la riempiamo d’acqua, ripartiamo. Passano due ore e mezza e ci rendiamo conto di aver fatto 20 km… VENTI, non uno di più! Al che, dopo un debito consiglio di guerra, io e Vale ci imponiamo chiedendo con fermezza di arrivare al paese più vicino, Maglie, lasciare l’auto e proseguire con i mezzi, in alternativa lo avremmo lasciato in balia della Golf a costo di proseguire in autostop. Aut Aut. E Nicola in silenzio tombale si arrende all’evidenza e accetta.
A Maglie troviamo stranamente subito l’indicazione per la stazione, tutto è facile, la macchina sembra farcela, parcheggiamo e scarichiamo i bagaglietti ormai risoluti ad arrivare a casa per un’ora ragionevole. Stazione di Maglie: CHIUSA. Proprio chiusa, serrata, come se non esistesse, porte sbarrate e il deserto tutto intorno... in pratica siamo sperduti nell'entroterra, per di più a piedi. Eh sì, Cristo si è fermato a Eboli, figurati se arrivava nel Salento! L’unica soluzione sembra essere, a detta di un ragazzo che passa da quelle parti, aspettare il pullman per Lecce e da lì prendere un treno per Fasano, ma c’è ancora tempo prima che passi.
Stoicamente io e mia cugina lasciamo Nicola affranto, seduto sulle valige all’ombra di un alberello sparuto, e ci mettiamo in marcia per cercare un bar: è l’una, ci sono novecentoventi gradi, è domenica e non c’è un’anima in giro. Camminiamo per km, per accorgerci che non c’è nulla nei paraggi che assomigli anche lontanamente ad un bar o ad un alimentari (nessuno beve caffé in ‘sto posto?!), disperate e stanche entriamo nell’unico negozio aperto: una FARMACIA. C’è l’aria condizionata a palla, -30°C circa, rischiamo una broncopolmonite e siamo tentate di comprare un antidepressivo ma ci accontentiamo semplicemente di chiedere indicazioni… per sentirci dire dalla gentilissima farmacista che forse troveremmo qualcosa di aperto in centro, a circa un kilometro di cammino! E chi è che non si farebbe un’ora a piedi non si sa bene verso dove per arrivare al centro di Maglie e trovare FORSE un bar aperto con Nicola che aspetta seduto sulla valigia?
Ci viene un sacco da ridere per questa assurdissima situazione, ma torniamo davanti alla stazione mettendo su delle facce desolate per sembrare persone serie!

Insomma, l’ho portata un po’ per le lunghe e me ne scuso, alla fine abbiamo avuto un colpo di genio e abbiamo chiamato un amico che passava di lì e che ci ha gentilmente accompagnati a casa, vero e proprio salvatore della patria in un momento di così assoluto sconforto! La strada che avremmo dovuto agevolmente percorrere in due ore ne ha richieste cinque...
L’idea che mi resta è che il tacco dello Stivale, rispetto al resto della scarpa, è proprio un’altra nazione!

sabato 25 agosto 2007

Santu Paulu meu de le tarante (Parte II)

La frase più ricorrente di questi giorni salentini è stata: “Ragà, ci siamo persi”
Sembrava una sorta di congiura dello stradario, per cui ad ogni incrocio e ovunque avessimo deciso di andare, ci perdevamo matematicamente! Allora, uno chiederebbe: ma ce l’avevate una cartina? E la risposta è, naturalmente: non una, ne avevamo TRE, tutte dettagliatissime…
La scena quotidiana, qualunque spostamento fosse, era identica. Mettiamo per esempio che stessimo cercando di arrivare a Tricase: dopo aver girato per km su strade sempre più isolate, sterrate, abbandonate, attraverso paesi tutti uguali che hanno cinque case e una piazza e fanno Comune, con mia cugina alla guida che non vede l’ora di tornarsene a Civitavecchia dove conosce ogni anfratto, troviamo un cartello con il nome che cerchiamo da ore: manco avessimo visto la Madonna! Tricase! Finalmente si scioglie un po’ la leggera tensione e cominciamo a cantare in macchina, con l’mp3 collegato alla radio, qualunque canzone capiti...
Ovviamente, trattasi di mera illusione! Arrivati al bivio successivo vediamo una ventina di cartelli blu, e fiduciosi cominciamo a leggere: Casarano, Barbarano, Miggiano, Ruffano, Neviano, Corsano… tutti uguali – e di Tricase neanche l’ombra. Prendiamo una direzione totalmente a caso, perché sulla cartina non ci ritroveremo mai, e chiediamo indicazioni alla prima persona che troviamo: “Scusi, per Tricase?” e quella, puntuale “Guardate, è FACILISSIMO -…mmmh… già i primi dubbi - dovete andare qui a destra, poi giù e poi fù”. La domanda sorge spontanea: a destra e dritto giù ci si arriva, ma FU’?! Cosa avrà voluto dire?!
Insomma, tutta così la storia, alla fine si arrivava con duecento ore di ritardo ma dopo aver riso fino a scoppiare! Questa è la meraviglia di certe compagnie spensierate, estive, che tanto poco mi capita di frequentare, e per le quali la domanda meno ricorrente è “Che ore sono?”, perché chissenefrega del tempo che passa, se è mattina o pomeriggio per andare a mare, che importa a che ora inizia il concerto, se albeggia e sono al telefono a morire… nessun tempo, tutto il tempo che voglio. Nessuna ansia, preoccupazione, passo furtivo, tutto così miracolosamente spontaneo e spensierato!
Sì, il Salento mi ci voleva, forse solo per allontanarmi da casa, forse per ricordarmi che è stupendo ridere di gusto tra ragazzi, un’imitazione, una cavolata, persone nuove, cantare in macchina…
Sì, il Salento mi ci voleva, portandoti con me.

martedì 21 agosto 2007

Santu Paulu meu de le tarante (Parte I)

Una crede di andare tre o quattro giorni nel Salento con le cugine per divertirsi e far casino. E questo succede!
Succede, ma non solo :)
Una crede di aver visto un po’ di tutto ma poi si ritrova a passare una notte intera a girovagare per una piazza di gente matta che si riunisce in ronde e suona e canta e balla come invasata per ore infinite, senza limiti di sorta purché un limite ci sia. La notte della taranta è il vedere dimenticate le passioni, le frustrazioni, le attese della gente, che sembra aver fermato il mondo per 12 ore e aver scelto di essere tutto, di volere tutto, di amare tutto per sempre. Perché la pizzica è micidiale, la pizzica non lascia scampo, è una specie di trance del desiderio e della follia, un perdersi dei sensi e della ragione in movimenti lenti e veloci e poi lenti e veloci ancora… e non la si può descrivere, né capire, solo guardare estasiati o danzare con rapimento!
Al suono di mille tamburi, lontani fra loro ma tutti coordinati come in un’intesa misteriosa, si sono alternate sotto i miei occhi coppie di ogni tipo: due fidanzati, due sconosciuti, un ragazzo e una ragazza, un uomo e una donna, due ragazze… ognuno con qualcosa negli occhi, senza inibizioni, ogni coppia che usciva dalla ronda in modo diverso… chi salutandosi e mai più rivedendosi, chi mano nella mano, chi con un bacio già sulle labbra, chi con un semplice sguardo che è un “alla prossima e non scappare”… tutto un immenso delirio festante giustificato solo da quella musica, ossessiva, esplosa, ripetuta, irrefrenabile!
Passano otto ore che sembra una sola, e da lontano vedo che il cielo sta poco a poco sfumando il suo blu intenso e impenetrabile in un celeste chiaro: sta per albeggiare, penso. E invece no. Scopro così che esiste un momento, lunghissimo e quasi triste, fatto di tantissimi minuti in cui il sole esita ad arrivare, come se volesse lasciare ancora un po’ di posto a quella gente dimentica di sé. E’ come se a un tempo non riuscisse a non farsi intravedere ma non volesse mai sorgere. In questo spazio indefinito in cui restiamo, la piazza si svuota e mi passa accanto un parroco giovanissimo, che avrà la mia età e sembra uscito da una Puglia di cinquant’anni fa… qualche rintocco di campane, arrivano ad una ad una le famiglie del paese, è una strana processione: anziani e ragazzi sottobraccio, vestiti per bene per la messa di San Rocco, è ancora prestissimo quando già si sente in piazza il primo osanna che esce dall’altoparlante. E lì abbandonati a noi stessi non siamo ancora stanchi di ballare: l’ultima ronda, ancora una volta, per favore! Danzano i coltelli con movimenti ampi ed energici, danzano di nuovo coppie di ragazzi, e cantiamo ormai tutti, anche solo per dire ciao… Il sole arriva, lo sentiamo, si vede chiara adesso la sua luce.
Lasciamo la piazza di Torre Paduli che sono le otto passate, senza neanche la forza di camminare, e voltandomi prima di allontanarmi vedo ragazzi esausti, lì seduti, con i tamburelli fra le mani, in silenzio. Sorrido. Vino rosso versato per la strada, come sangue allegro, come il segno tangibile di quel dolore e di quella frustrazione che, ancora una volta, la pizzica è riuscita a farci disimparare. Anche solo per qualche ora di autorizzata follia!

lunedì 20 agosto 2007

Sarà che tutta la vita è una strada e la vedi tornare

Esiste ancora, quel mondo parallelo. Basta varcare una soglia.
Una porta inutilmente chiusa, quando tutti ci possono entrare, come sempre negli ospedali; e cammino lenta, spaventata, in un corridoio troppo corto, che si supera in pochi passi e io vorrei non finisse mai. Faccio finta di non sentire le voci, di non riconoscere i capelli di mia zia e sbagliare direzione: piccola, ma c’è ancora, la paura. E poi entro, perché così ho deciso.
Zio Stefano è seduto vicino alla parete, col viso un po’ rigato di un pianto che non può asciugarsi da solo, e un sorriso incredibile e sereno come i suoi occhi blu, ancora dello stesso blu, nonostante un anno in terapia intensiva. Alza le braccia leggermente, solo a mezz’altezza ma con convinzione, e quello è il movimento più enorme che fa da mesi in qua. E’ stato un sorriso immenso, aperto, che voleva essere enorme, il mio. Voleva essere felice, per lui.
Poi ho iniziato anche a guardarlo, zio Stefano, con gli occhi miei di un tempo, di chi una cosa la riconosce. Di chi quella situazione, sì, la riconosce bene. E l’ho vista anche in lui, nel suo blu quasi allegro, l’azione lenta e progressiva di quella specie di veleno che penetra l’aria di un ospedale: ho visto la bontà dolorosa e fragile che conosco, l’arrendevolezza di chi non ha più orgoglio, e non importa cosa dicano, cosa pensino, possono chiedere di tutto, fa lo stesso, con quale forza negare, perché? Non è solo l’assenza di privacy, non è solo l’affidarsi alle mani di qualcun altro, un medico o un’infermiera, è l’inconsapevole abbandonare sé stessi. E’ quello che si diventa, dopo mesi, o forse anche prima. Mi ha raccontato dei suoi saluti a tutto il personale, perché sta per essere trasferito, mi ha detto che c’è stata molta commozione e abbracci, lacrime… annuivo, sapendo perfettamente. Dev’essere tremendo anche per lui pensare di spostarsi da quel posto, quasi peggio che lasciare casa non è così?, anche se ci si trasferisce per accelerare le cure, prevalgono il disorientamento totale e la paura, proprio quelli, uguali ai miei. Annuivo sorridendo.
Ho cercato non so quante volte di scrivergli una lettera, a mio zio, ci sono decine di fogli azzurri che ho iniziato e poi buttato senza neanche sentirmi troppo male per quell’abbandono in cui lasciavo le mie parole per lui. Ho voluto congelare e mettere da parte una cosa che sentivo così forte da essere un peso, un’angoscia; e come se fosse impossibile per me sopportare il senso di colpa, ho dimenticato. Dimenticato per mesi. Rimosso. Perché lui era tempo che voleva vedermi, perché molto prima di me aveva capito e associato la mia storia alla sua, ed io no.
Anzi, io sì. Ma non lo volevo. Soltanto quel pomeriggio, come un prodigio, quando mio padre per l'ennesima volta mi ha chiesto di andare con loro a trovarlo, è venuto fuori un "sì" deciso, che non sono riuscita a capire ma neanche a fermare. E più tardi, mentre stavo lì che osservavo, di colpo come una specie di valanga mi è crollato addosso quanto sono stata egoista, quanto chiusa, quanto come sempre ho scelto il non vedere e non sapere e chiunque me lo potrebbe ripetere che è la cosa peggiore ma lo sapevo già in effetti, è solo che non sono riuscita a darmi a troppe cose. A darmi, in generale. Non so spiegare la ragione dell’essermi isolata in quel modo, non so dire perché mi sono così estraniata, non so neanche se vale la pena capirlo, in fondo… Sono state giornate furibonde, senza atti d’amore… era forse il tempo di cui avevo bisogno, ma qui ci va un debito punto interrogativo.
E ho sentito quasi da subito di non meritare quell’accoglienza, tutto quel sorriso intero, le parole, la conversazione rilassata. Confusamente guardandomi intorno, come se non fossi davvero lì, ho capito che quella specie di perdono nei miei confronti non me lo meritavo. Avrei voluto forse piangere, mentre da un’altra parte il tuo sguardo benevolo mi accompagnava, capendomi già, con la magia che fai.
Non so quanto ci siamo fermati, tanto secondo l’orologio, comunque troppo poco per me, che nel frattempo non mi sono saputa perdonare. Eppure salutando mio zio, dandogli un bacio sulla guancia senza che lui potesse girarsi per ricambiare, né tanto meno abbracciarmi, dicendogli qualche parola ma più di tutto guardandolo, ho sentito una strana leggerezza. Non sarei più andata via, l’avrei riempito di quello sguardo per parlargli sincera, per fargli sapere di me e di quanto avevo aspettato, non serviva però: lui lo sapeva già, come lo sapevo io quando ero al suo posto. Al contempo poi non vedevo l’ora di uscire per respirare l’ossigeno del giardino e capire che nulla avevo sognato, per sentirmi sbattere in faccia l’aria di fuori e rendermi conto che ero stata di nuovo dentro. Di nuovo dentro, uscendone a testa alta.
E se non ci fossero state quelle lacrime, dopo, se non ci fossi stata tu a parlarmi, ad abbracciarmi, a farmi dire tutto e tirar fuori tutto, non sarei qui a scriverne… come se la tua indulgenza mi avesse contagiata e quasi, quasi, come se potessi assolvermi.

Buon viaggio, zio Stefano, a presto! Alla prossima passeggiata insieme, per mano


"Tu lotta ancora a lungo
non voglio che abbandoni
Il più bello dei tuoi giorni devi attraversare
la canzone tua più dolce è da cantare
tu non arrenderti così, sul confine
Il più verde dei tuoi mari devi navigare
il più rosso vino devi ancora bere
tu non fermarti proprio lì, sul confine"


... perchè sarò ad aspettarti, quando tornerai.

mercoledì 15 agosto 2007

Fino a poterci pensare senza affanni

Capita un giorno così che la cerchi, la cerchi con un certo autolesionismo, una canzone disperata. Una di quelle di una tristezza inconsolabile e che non si mette in discussione, che ti farebbero scoppiare a piangere se fossi anche solo un po’ giù di tuo… una di quelle canzoni che vanno bene in un momento come questo, quando anche solo l’accenno di un ritmo allegro infastidisce: stasera è arrivata lei. Che, se vogliamo dirlo, è un pianto ogni volta.

Baia senza vento possiede una bellezza intatta e folgorante, di quelle che se ti attraversano una volta lasciano qualcosa, come un graffio, e non si fanno dimenticare mai.
E’ una canzone del freddo, di un mattino gelido davanti al mare (qualunque mare ma sai che è quello) con una porta chiusa alle spalle e la sensazione che quel vento che ti sferza ti stia portando via qualcosa senza che tu possa reagire. E’ un finale, è un indiscusso addio. Le barche a remi lasciano la riva e c’è nebbia, non ci si vede, un inverno che uccide ad ogni passo e tu chiusa nel cappotto scuro guardi un punto imprecisato, il ghiaccio nella pelle, non è che guardi in realtà, stai piangendo perché sei da sola, perché non ritorna. Piangi con lo sguardo lontano. E’ una strada sconnessa e cattiva, che si inumidisce per farti scivolare, e una volta che sei a terra di nuovo non puoi far altro che restarci. E ci resti, perché sai che te lo meriti e che in fondo di rialzarti non ne vale più la pena.
Un amore che avresti voluto proteggere, accarezzare, riscaldare, e che invece è scappato dalle tue mani andando a morire altrove, scegliendo per sua colpa e per sua stessa condanna un freddo che non perdona nessuno. Preferendo quel freddo a te, che resti sconfitta. E’ un peso enorme che ti crolla addosso, è la colpa di aver dischiuso le mani quel tanto che è bastato perché il tuo amore fuggisse, e invece tu volevi solo guardarlo, solo sentire la sua luce calda sul viso, niente di più. Guardi i palmi immensi delle tue mani, vuoti.

“Vedi le strade di qui un tempo saranno state pece e sassi, e il vociare della gente copriva il silenzio del mare, copriva…”

E’ stato allora che tutto si è fermato e nessuna voce è stata più in grado di raggiungerti, e l’aria immobile ti ha fatto sentire un silenzio così pieno da averne un terrore assoluto. Un terrore che non aveva motivo, perché non avevi niente in fondo da perdere, ma che esisteva nella sua intensità spaventosa, e che ti ha fatto sollevare gli occhi per un istante solo, con un nodo alla gola.

E’ arrivato il mare, dopo. Ti sei sentita respirare. Soprattutto, l’hai sentito: andare e venire, paziente, presente, sempre gelido ma sfumato di rosso, il rosso vivo e commovente che ti ha fatto piangere ancora, questa volta lacrime calde. Esiste un’eternità sicura, nelle onde che senti, da riempire l’aria e il cuore. Anche se non le guardi.
Vorresti gridare ancora, sì, è probabile che lo farai. Cullerai la tua disperazione fino allo strazio e poi la prenderai a schiaffi e urlerai con tutta la voce il male che ti ha fatto. Ma nella tua voce, quella stessa voce con cui gridi, presto si insinuerà la malinconia, che è delle cose lievi, dolorose, amare… ma passate. E ancora una volta, stupidamente, sorridendo come se l’avessi sempre saputo, dirai a te stessa che il dolore passerà. Come finisce una canzone.


“Guardala invece adesso
questa baia senza vento”

lunedì 13 agosto 2007

11/08/07 Fiorella a Ostuni (e quello che c'è dietro)

Sollevarsi da terra per un tempo indefinito.
Il tempo di risaperla vera, il tempo di cercare i suoi occhi ancora, o di guardare i miei, per una volta. Il tempo di stare seduta sulla ghiaia per sentire vibrare il pavimento e poi forse no, solo il tempo di far uscire qualcosa, da me. Quanto tempo l’ho aspettato! Quasi da dimenticarmene!
E come se fosse qualcosa di completamente diverso ogni volta è venuta fuori dalla semioscurità e non si è fermata mai! Sembrava volesse stare a parlare come al tavolo di un bar, che alla fine la festa fosse nostra e lei solo ad accompagnarci, ho cantato, perdio sì, ho cantato! Tutto quello che voleva venir fuori da me senza freni! Tutte le parole che sapevo, quelle che ho inventato, quelle che avrei voluto dirti, ad averti lì… E non ce la facevo a smettere di muovermi, né riesco adesso a descrivere quale insieme di incanti e di sensazioni siano quelle ore, cosa ho sentito, cosa provo ancora, cosa ho negli occhi!
Ciò che di più dolce mi resterà alla fine, io lo so, è quello sguardo. Quando tutti eravamo lì per lei e non per noi, quando gli occhi ci brillavano e non ci importava stare stretti, le mani si sono fermate ed è partita una nuova musica, l’ho visto: il suo sguardo innamorato, fermo ad aspettare, uno sguardo perso, che si vorrebbe spalancare ma già gli basta, indefinibile, lieve, una carezza che è un grazie. Sincero.
Finisce che ho versato una sola lacrima, quando c’era un tempo che bisognava sognare, e quella lacrima aveva un nome, il nome che ho detto (senza accorgermene) racchiusa nella sedia come a proteggermi da uno sguardo troppo forte. Ad occhi chiusi. Perché tu c’eri, in ogni momento c’eri.
Non so cosa avesse nel cuore, ieri sera, Fiorella; in fondo non so se m’importa, non è suo il cuore di cui voglio prendermi cura. Ma la sua voce, quello che c’era lì, era di un’emozione spaventosa, ed è venuta fuori come io la conosco nelle canzoni che magari ho sentito mille volte, quelle che saprei cantare anche senza pensare alle parole, non dovrebbero sorprendermi più, e invece no, invece per la miseria, invece non sarei mai andata via in quel momento.
I treni a vapore, non so cos’è stato. Il cielo d’Irlanda, quello sguardo, il pensiero di te. Sally, mai come mai. Io che amo solo te… bè, eravamo in due. In due, io e te.

C'è gente che ha avuto mille cose
tutto il bene e tutto il male del mondo
Io ho avuto solo te
e non ti perderò, io non ti lascerò
per cercare nuove avventure...



PS: Un enorme grazie a Don Vinc, Gabriella, Francesca (…e Giulio :)), Trifi, Lucio e Marisa: è tutto un altro concerto con voi!

mercoledì 8 agosto 2007

Anch'io (gelo e acqua calda)

Il mio parlare con te è un susseguirsi di “anch’io”. Anche a me, anch’io, neanch’io, tutto che comprende quella meravigliosa sintonia, quel pensare in simultanea, quell’“insieme” che non sapevamo ci fosse ed è apparso. E sono qui che ti aspetto, come spesso succede, ti aspetto ad un angolo della strada, ti aspetto un giorno qualunque delle mie stagioni; nel momento in cui arriverai ti sentirò passare. Passare.
Se tu volessi fermarti allora, fermarti sulle mie spalle e restare un po’ a guardare quello che io vedo, fermarti immobile su di me e sopportare il silenzio, darmi anche un solo minuto di te, quella sarebbe felicità. E in effetti di cosa mi lamento, ché già averti da aspettare è un regalo! Che questo tempo vuoto sia un’attesa, è un regalo. E’ il miracolo di te, io credo.

L’acqua calda esercita un potere enorme su di me. Scorrendomi addosso, è come se sciogliesse il freddo che ho dentro, quando sono di ghiaccio. Se tutto si blocca, se non sento niente sulla pelle, se ogni slancio si congela lentamente, acqua calda. Pochi minuti, ma acqua calda. Mi cade dai capelli sulla schiena, per ricordarmi che esisto io, mi accarezza le braccia e si lascia baciare generosa, restituendo la lucidità che manca quando mi perdo nel gelo. Quello del tempo che mi sfugge, quello del tempo che non passa mai. E quando arriva l’acqua calda, canto a squarciagola il mio essere nel mondo, perché tutto è rivoluzione di sensazioni! Tutto è chiarore e buonumore!

C’è un solo caso in cui ringrazio che ci sia l’acqua fredda. E questo tu dovresti saperlo benissimo. Animoticon
Sì. Anch’io.

venerdì 3 agosto 2007

Viaggi e miraggi

Sola. Sola seduta nello studio, nel silenzio, a porta socchiusa. Seduta anche per evitare eventuali attacchi di cuore, ma seduta perché sono debole e mi gira la testa, e ho dimenticato di mettere la musica. C’è una strana tristezza che sale da quest’immobilità, sembra la nostalgia di una voce, ma non voglio cercare un rimedio: semplicemente la respiro. E la riconosco. E’ lei, è quella di sempre, di ogni pomeriggio da tanti anni a quest’ora, com’è che l’avevo dimenticata? E’ quella di sempre, sì. Come poi tu abbia fatto a sentirla, per me resta impossibile da spiegare. Come sia stupita, come sia felice di questo, resta impossibile da esprimere.
Tutto è così fuori dal comune, in questi giorni di passaggio. Faccio cose che poco tempo fa avrei creduto stranissime, per la forza degli eventi, per inerzia, per amore, per volontà… mi ritrovo a recitare preghiere che non sapevo di conoscere, nel cerchio di sedie in quel salone spazioso, guardando volti amati e sconosciuti allo stesso modo; mi ritrovo a prendere la macchina andare e venire e salutare la gente per strada come se fosse la cosa più normale del mondo, con quelle scarpe lì; mi ritrovo a far finta di niente, se non voglio dare spiegazioni; mi ritrovo di notte a tremare, a sperare, a immaginare, a desiderare; mi ritrovo a dirti, guardando in alto per la paura e con poca voce, che ti voglio bene.
E poi devo tornare alla vita normale, se ci riesco, almeno ogni tanto…
Allora mi auguro buon viaggio, perché questa casa a volte sembra un groviglio di tensioni. Tutte piccole, leggere, nostre e degli altri, insignificanti magari, ma tutte presenti. Spero, forse mi illudo, che messo piede su quella macchina domattina presto, lasciato questo posto per un po’, arrivi una tempesta di pace. Pace bianca. Che torniamo a parlare e a scherzare senza taciti rimproveri negli occhi, che lo vedano, quanto sono presente, molto più partecipe di quanto fisicamente non dica, che vedano come rido di gusto e che guardino i miei colori senza più credermi assonnata. Spero che la compagnia varia faccia il suo dovere di compagnia varia, giusto cielo!
Mi auguro buon viaggio perché voglio sorridere molto e pensare un po’ meno di quanto faccio in genere, mi auguro buon viaggio perché parto e, incurante di tutto, il sole mi sorride.
Le lacrime si sono asciugate. Parto, ancora una volta col cuore quasi leggero, come su una musica.


"Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il piu' bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto"


(Nazim Hikmet)