mercoledì 17 ottobre 2007

Cartoline forlivesi

Forlì è a misura di bicicletta, sapete? Ci è voluto un po’ per adattarmi a tutte queste ruote a raggi che mi girano intorno ad ogni ora, e soprattutto a rassegnarmi al fatto che i miei piedi non vanno così veloci: per quanto allunghi il passo arrivo sempre puntuale al secondo, mai in anticipo, una volta anche con due minuti di ritardo (con semi-incenerimento visivo da parte della prof, altro che quarto d’ora accademico!). Ci sono piste ciclabili da e per ovunque, i divieti di sosta per le auto si accompagnano ai divieti di parcheggiare le bici, e avvengono fenomeni inesplicabili ai quali una pugliese come me non arriverà mai a credere: automobili che non solo si fermano sempre davanti alle strisce pedonali, ma che senza fare una piega ad ogni incrocio danno precedenza alle BICICLETTE!
La verità è che nel petto di ogni forlivese che si rispetti batte un cuore da ciclista, e che Forlì sta al velocipede come Bologna al tortellino; ho scoperto qui che i semafori per le bici esistono davvero (cosa che si vede sui manuali di scuola guida e a cui non avrei mai creduto se non ne avessi avuto le prove) e noto che tra gli annunci di compravendita di libri sulla bacheca della scuola campeggiano le richieste di studenti che cercano city bike. Ciliegina sulla torta: ieri mattina di buon’ora, appena uscita di casa ho visto venire verso di me un signore di mezza età, vestito di tutto punto, su una bici giallo taxi; perplessa, poco dopo l’ho visto fermarsi davanti al cancello di una villetta, e solo lì ho guardato il cappello e ho realizzato: era il postino! ...Va bene, ma una moto no?! Sembrava una puntata di “C’è posta per te”!

Alla SSLiMIT ci sono orari strani, che a volte diresti comodi e altre volte ti condannano ad infinite passeggiate da mattina a sera. “Organizzarsi” è un verbo bandito dal vocabolario e basta distrarsi mezzo secondo che si perdono lezioni o si cambiano aule e professori senza preavviso; ci sono più stranieri che italiani, un sito sempre aggiornato a cui non posso accedere, e una ragazza cieca bellissima con cui vorrei tanto parlare, bassina e bionda, che muove le labbra in curve inusuali senza che questo alteri la precisione della sua pronuncia. Frequento ore di materie per le quali mi sveno e che farei durare all’infinito, ed altre che temo come la peste o che mi annoiano ancor prima di cominciare: per dirne una, metterei volentieri un bavaglio al prof di Linguistica, alla sua voce monotona e alla sua ridondanza, capace di prosciugarmi ogni energia in pochissimi minuti e farmi sprofondare nel "sonno della ragione".
Mi spaventa molto, questa scuola... sì. Nessuno si trova qui per caso, sono pochi quelli che vedo spaesati quanto me (che con la disinvoltura ho sempre fatto a pugni, peraltro) e quanto al fatto di essere realmente capace di raggiungere livelli così alti come quelli che si richiedono, bè, ci provo ma non garantisco. Non voglio più garantire niente, se poi mi basta fermarmi a pensare un secondo ed ecco che subito ho paura, una morsa di angoscia stretta sul petto, da far fatica a camminare. Ironico e provvidenziale, a cercare di distogliermi, su diversi muri di marmo di questa città geometrica campeggia il Che sovrastato dalla scritta “chi si ferma è perduto”: avanti, dunque, sia pure.

I colori si facevano nitidi, il pomeriggio in cui la luce colpiva gli alberi di striscio, con misurata grazia: guardavo incredula il verde chiaro delle foglie, spalancando gli occhi perché non ricordavo come arrivasse a brillare. Taglio sempre per quel parco, rientrando a casa, per lo sconfinato silenzio che mi concede la musica e per la forma tonda di quel verde a cui non sono abituata. I vialetti sono a metà coperti da foglie secche, ma gli strani alberi alti sembra abbiano mantenuto intatta la loro chioma, quasi ridendo di me che li osservo da terra, come una bambina. Appena messo piede oltre il cancello di questa piccola oasi rallento visibilmente l’andatura e a volte, se qualche canzone arriva al momento giusto, resto immobile col naso in su, a respirare. E’ in effetti uno strano angolo di pace messo lì quasi per sbaglio, a due passi dalla trafficata strada principale; ma è così accogliente e caldo che non posso negarmi il piacere di passarci, come fosse una terapia al malumore.
Una mattina, seduta su una delle sue panchine di pietra, guardando il pavimento e le foglie accartocciate piangevo... per chi è ferito e non cade ma continua ad andare. La corteccia dei tronchi, confrontata con le pareti spoglie di una stanza, mi consolava come un abbraccio tiepido, tanto da farmi rialzare. E se uno di voi lo vedesse adesso, si chiederebbe che cos’ha di speciale quel piccolo ciuffo d’alberi all’angolo di Via Zanchini, senza capire.

A volte davvero penso che non mi interessa più niente, mi chiedo cosa ci faccio in questo posto e perché fossi così certa di volerci venire... e un istante dopo mi accorgo che non vorrei essere da nessun’altra parte, non adesso. C’e abbastanza arancione nella mia stanza perché io resti, è così vicino il treno, la barista a colazione è sempre gentilissima e finora non ha piovuto mai. Ultimo dettaglio, non trascurabile: domattina, che è sabato, posso dormire fino a tardi senza il terrore della sveglia... e sotto il piumino leggero si sta un gran bene.
Quindi, tutto incluso, credo di fermarmi qui a Forlì ancora per molto, e piacevolmente. Ma comprerò una bicicletta :)

“Se tornasse da queste parti
il mio indirizzo la gente lo sa
tu dille che può cercarmi
se trova il tempo mi troverà”

giovedì 11 ottobre 2007

I giorni

Un giorno inizia con fatica. A volte quando apri gli occhi di colpo, rendendotene conto solo un istante dopo; altre volte quando si affacciano pensieri senza avvisare e non riesci a capire quando il sonno sia finito.

Quel giorno lì, non potevi credere di saperti rialzare da sola. Ti brillava la fronte e alzavi la voce perché lo sentissero, cosa ti era successo. Avresti voluto piangere se fosse servito a farglielo capire (ma non piangevi ancora, era troppo difficile). E ti stupisci adesso di ricordare mille ore prima e dopo. Prima e dopo.
C’era il giorno in cui bastava infilarsi in bocca un pezzo di cioccolata e star zitta, col viso disteso dal sapore buono, magari da dividere con qualcuno. La volta in cui invece sul palato si sentiva solo veleno, che non si riusciva a scacciare a furia di inghiottire saliva, e si stava zitti lo stesso ad aspettare che passasse quella devastazione e tornasse un minimo, un minimo di pace.
C’era anche la sera in cui la tranquillità era scoramento, e non si voleva null’altro se non che scoppiasse un temporale, che accadesse un cambiamento qualunque, una caduta, una lettera, un graffio. Tanti, tanti di questi silenzi infiniti e vuoti, senza sapere come si sopportavano. E i piedi così freddi di notte da confondere il gelo col dolore, metterci troppo ad accorgersi che non passava. Metterci sempre troppo.
Lo ricordi? C’è stato il giorno in cui la musica invadeva tutto, e socchiudevi gli occhi per aver paura di tanta bellezza che rimbalzava nel petto violenta, e nulla sarebbe bastato a contenerla o a spiegarla ma il desiderio di regalarla era irrefrenabile, così vivo! Dividere moltiplica, ti sei detta.
E ricordi ancora quel giorno, in cui il sorriso è stato così aperto che non vedevi quasi più da quanto gli occhi erano stretti, e non riuscivi a dire niente per lasciare spazio a quella gioia esplosa sul viso. Sperando che chi ti veniva incontro lo sentisse come te.
E’ venuto persino il giorno, che non è passato da tanto, in cui amore era una parola che esisteva e non faceva più paura, così che ogni cosa sembrava uno stupore incontenibile. Il momento di quello che hai immaginato per così tanto tempo da non credere più seriamente che possa succedere, e che vedi lì davanti a te disarmato, pronto a restare per sempre.
Cambiano altri giorni ogni mattina, da quando sono qui. Alzarsi e rabbrividire, per il freddo che c’è nel pigiama leggero, e anche non credendo all’orologio dover prendere la strada e andare di nuovo, a passo svelto, con decisione. Accettare che l’aria ti prenda a schiaffi perché poi essa stessa ti sollevi.
Viene, certo, anche un giorno come questo, in cui ti sembra di aver vissuto in modo ineccepibile, di aver fatto davvero tutto quello che potevi, di esserti impegnata, di aver trovato gli spazi giusti per le cose giuste, sofferto il dovuto e sorriso quanto bastava; viene un giorno come questo, e tu non desideri altro che distruggere tutto. E non tornare più.

Credo che non imparerò mai cosa fare. Continuerò per molto tempo ancora a stare qui ferma, guarendo, morendo, guardando i giorni che vanno... a scivolare.

martedì 9 ottobre 2007

Monopoli, 15 settembre 2007

Si chiama Antonella ed è la barista che ogni cliente ha sempre sognato: una ragazza bruna e sorridente, attenta, allegra, è una di quelle bariste a cui (come nei film) si può dire la parola magica “il solito” e ti portano esattamente ciò che volevi. Ha cambiato bar ma non è cambiata lei, Antonella, che si ricorda ancora di avermi vista due volte sul giornale, mi riconosce mentre passo davanti alla vetrina e mi chiede cosa ho fatto questa estate. Non resisto ad un sorriso così, stamattina, e per quanto non abbia fame mi butto su un inedito cornetto ed espressino, che si sostituisce al mio “solito” muffin e caffè macchiato. Sì, è cambiato anche il mio “solito”, Antonella, così come cambierò scuola, cuore, mani e città. Ma tornerò a trovarti, sai? Tu non allontanarti troppo, perchè la prossima volta porterò con me anche Mariangela, in nome di quelli che saranno i vecchi tempi :)

“Lucrezia cara, raccontami tutto”
E cosa vuole che le racconti, professoressa? E’ strano tornare in questo posto. Tornarci adesso che non ne sono ancora fuori né più dentro… Ho una specie di tentazione che mi suggerisce di andare in classe perché la ricreazione sta finendo, e volti nuovi tutt’intorno che mi impongono di andar via. Duncan scende le scale con il suo solito passo sconnesso, due sandali da spiaggia che fanno ridere, mi riconosce subito e mi chiede sorridendo “How was the test in Forlì?”, col fare sarcastico di chi mi ha scoraggiata da morire e adesso magari mi vorrebbe consolare. “Good, I passed it” “YOU DID?!” Visto? Sorpresa! Sì, lo è stata anche per me, l’ho saputo ieri eccetera eccetera. Hai visto però Duncan, che ti ricordi come mi chiamo? Grazie, per questo.
Sono così oltre tutto quello che ero qui, che mi ritrovo a fare la gentile persino con la Simone, sottolineando però che è stata la Allende a portare bene, mentre lei preferisce la Esquivel e non spiega nessuna delle due. E ripenso con un briciolo di rimpianto a quanto, quanto avrebbe potuto darci! In ogni senso, come avremmo potuto essere più ricchi di quanto non lo siamo già, se solo il gelo di quegli occhi azzurri si fosse sciolto appena un po’. Chi lo sa, magari lo capirà, Chicas. Io, per me, credo di averglielo detto.
Sembra che tutto sia cambiato in questo primo piano, ma sono mancata così tanto? Non ho più un mio posto, mi sento quasi persa. Pratiche burocratiche da sbrigare e scale che percorro in ogni senso, per stancarmi e per guardare chi arriva. Ma alla fine preferisco così, preferisco non sentirmi più pienamente parte di questo luogo, preferisco che la nostalgia mi si allontani a poco a poco ma presto, così sarà un motivo in meno perché mi manchi casa, quando sarò via.
“Are you happy?” mi chiedi, professoressa... “Yes, of course” ti rispondo, perché il test di ammissione l’ho passato ed era quello a cui miravo finora; poi, visto che un po’ mi conosci, mi chiedi di non dimenticarmi di voi. Me lo chiedi come già sapendo che potrei farlo, effettivamente, guardandomi un secondo seria e scappando via tra la massa di gente vociante davanti alla porta. Hai ragione a ricordarmelo: porterò qualcosa con me, per questo, un libro o una foto che sia inequivocabile, che sia qui e prima, da guardare e da tenere fra le dita quando compirò gli anni.
Ma vado via comunque, da sola, più leggera che mai. E’ una sensazione bella, quella di uscire, che non sentivo da tanto. Vado a scoprire cos’altro c’è fuori, più tardi, quando la notte finisce; vado a prendere appunti altrove, a conoscere nuove voci; vado, perché questo devo fare. Questo voglio.

E chissà se lo sa, Antonella, impegnata com’è a servire cappuccini sorridendo.