giovedì 27 dicembre 2007

20/12/07 Verso casa

E’ un punto scuro piccolissimo. Si china a toccare la sabbia, raccoglie qualcosa, non so. Sembravano onde piccole, ma confrontate con lui, che sarà un ragazzo o un uomo, si allargano ed inghiottono tutto lo spazio, sono così quiete, enormi, così normali. Il cielo fa il suo solito gioco di rosa e celeste per ipnotizzare, e ci riesce di nuovo, ma solo per poco stavolta. Per poco davvero.
Si rialza, si volta verso qualcuno, va via. Altre due figure si lasciano frustare i capelli dal vento, le perdo a sinistra nel finestrino. Torna un deserto d’acqua fredda, deserto com’è deserto il mondo, senza più tracce. Se solo non ci fosse la musica. Se non avessi letto quella musica.
Tornare ancora, come se non bastasse, ritornare e doverci mettere infinite ore, avere così tanto silenzio nella testa, nel petto, negli occhi, tutto questo treno riempito di desolazione. Senza poter aggiungere una parola, senza volere più.
Sembravano onde piccole. Si sono prese tutta la spiaggia.


"Verso casa
la pioggia minaccia la calma di questa pianura
ma io non sento niente
se non la tua assenza, chiassosa assenza
Verso casa
mi lascio abbracciare dal canto di questo dolore
perché la vita non si è intonata con la tua voce
limpida e ingenua, limpida e ingenua...

Quante volte tornerai
in un pianto inatteso
nel ricordo più intenso
luce che muore al tramonto
in un giorno qualunque di luglio..."

lunedì 24 dicembre 2007

... comunque Natale

“Natale arriva quando inizia la pubblicità della Coca-Cola”: perla di saggezza dispensata dalla mia coinquilina prima che inizi inesorabile Striscia la notizia. Guardo gli orsi polari (che tra l’altro mi fanno gran simpatia) e anziché pensare alla Coca-Cola mi vengono in mente i Natali degli anni passati, resto con gli occhi sbarrati a ripensarci, se mi fanno domande comunque non le sento.
“Da chi toccano i regali quest’anno?” è la domanda classica, quando il giorno si avvicina. Sì, perché a casa mia funziona così: tutta la famiglia paterna (diecinipoticinqueziierispettiviconiugipiùallegativari) si riunisce di mattina presto il 25 e i regali si aprono insieme, ogni anno in una casa diversa, davanti ad una colazione maestosa... è una delle tradizioni meravigliose della mia famiglia, un’ora di risate ed entusiasmo che prolungherei per chissà quanto. Da piccoli, quando abitavamo tutti nello stesso palazzo, ci si riuniva a casa di nonna al piano terra. Io lo ricordo appena, e lo ricordo stupendo.
Il tappeto di mia nonna era di pelo bianco morbido e l’albero altissimo, uscivamo di casa quasi in contemporanea e scendevamo per le scale bardati con sciarpe e vestaglie sui pigiami già caldi: un’orda festante di ragazzini, gli sguardi ancora assonnati, pronti a sedersi ordinatamente per terra in trepidante attesa della distribuzione dei regali. Io ed Alo correvamo in punta di piedi in cucina, a rubare lo zucchero in zollette che nonna credeva di aver nascosto bene nello stipo, e lo facevamo sempre ma lei fingeva di non accorgersene. C’erano mille piccole cose per ognuno, e risate per i bigliettini che i grandi si ingegnavano a scrivere, sorprese, invidie da bambini e oscene foto in pigiama. C’era guardarsi intorno e vedere che eccolo, è questo, Natale.


Sono mancata solo una volta, a questa specie di rito festoso, ma per fortuna è stata una notte bellissima anche quella, il 24 dicembre del 2001. Organizzammo un cenone in corsia e c’era da spalancare gli occhi per tutto quel bendiddio, che poi non ricordo neanche di aver mangiato per quanto tempo ho passato a ridere quella sera. E siccome non volevo saperne di dormire (il cortisone non aiutava!), passai la notte in Sala Medica con le ragazze, a cercare stupidaggini in Internet, ad aiutare coi pacchi Broviac, parlare fino alle sette di mattina del ragazzo di Sonia, della casa in montagna di Elda, dell’influenza di Manrica e del suo coniglio nero. Non credo che la dimenticherò mai, quella notte della vigilia. E quanto ero entusiasta di tutto, quel bellissimo Natale.


Questo è il primo anno che mancherà nonna, ad aprire i regali con noi. Ma ci riuniremo comunque, davanti ai vassoi di cornetti e al caffellatte, seduti su un tappeto ad aspettare che anche quest’anno lo zio di turno ci distribuisca i nostri pacchetti. E rideremo ancora e avremo sorprese, e di nuovo guardandomi intorno penserò che eccolo, è ancora questo, Natale.

mercoledì 19 dicembre 2007

Saudade de dezembro

Avevi paure dolcissime. Ti preoccupavi che non mi mancasse niente, che non fossi triste, che non mi facessi male. Avevi l’impressione, sempre, di non essere abbastanza, tu che sei troppo comunque e in ogni caso. Avevi paura di spaventarmi e di perdermi, che mi dimenticassi di te, che ti nascondessi qualcosa o che alla prima occasione cambiassi idea. Paura persino di sentire la mia voce, ma meno di quanta ne avessi io. Che ho paure più e meno di te.
Avevi una gelosia timida, di quelle che non si sentono in diritto di parlare. La gelosia che avrebbe voluto chiedermi di essere per te soltanto, ma aveva timore di disturbare, di volere troppo. E per quel tuo modo discreto di chiedere le cose, solo se volevo dirtele, tra mille scuse di imbarazzo, era bellissimo rassicurarti ed era inevitabile desiderare, ogni momento, di averti lì davanti e toglierti ogni dubbio. Un istante soltanto, per favore. Per tutte quelle attenzioni delicate e per quel respiro tagliato a metà, per un bacio almeno, una parola venuta fuori di colpo, per il profumo, il tremore alle mani.
Mi ritrovavo ad aspettarti senza che avessimo nessun appuntamento. Mi ritrovavo a sorridere di me quando guardavo l’orologio e pensavo che era presto, mi imponevo di resistere ancora dieci minuti, ancora cinque, magari anche due bastano. Svegliarmi e correre di sopra, trovare una sorpresa ogni mattina, tutte le mattine lì ad accogliermi. Volerti sorprendere e sorprenderti non volendo.

Non servirà, questa volta, correggere gli effetti dei miei guasti nucleari. Fare bilanci e provare a capire, né tornare indietro, né aspettare. Non servirà rivedere i pomeriggi a sciogliersi in una terapia di lacrime sotto la coperta. E allora che tutto scivoli, che arrivi la tranquillità. Per me, per te soprattutto.
Lascio quello che è stato in un angolo nella penombra, per proteggermi, lascio che stia lontano e prenda polvere per un certo tempo. Ma sappilo, non lo perdo, è troppo prezioso per dimenticarlo: rimane lì.
Dentro al replay.


"E la pace verrà
sulle nostre due singole guerre
e la prova più dura sarà
sotterrare l'amore e le armi
...
Tra un minuto è di nuovo Natale
Tra un minuto è comunque Natale"

martedì 11 dicembre 2007

Consigli in ritardo

Se incontrassi la me stessa di qualche anno fa, mi farebbe ridere vedere i suoi capelli corti e le sue gambe piene di ferite. Me la guarderei per bene: dovrebbe dimagrire, essere più schietta, scrivere di meno e vestirsi meglio, cioè, vestirsi e non buttarsi addosso le cose! Sorriderei delle sue spalle strette, di quelle scarpe che non si toglie mai, di quanto si affanna per essere qualcosa. E lentamente, attenta a non spaventarla, mi avvicinerei per parlarle.
Come stai? Com’è che ti senti, riesci a spiegarlo almeno a me? Non aver paura di essere eccessiva, puoi permetterti parole grosse, tanto sono io e so che peso hanno. Me la terrei qualche ora stretta tra le braccia, lei che non sa quanti abbracci poi arriverà a desiderare, con tutta sé stessa, senza averli mai. Le sussurrerei che non sta facendo niente di sbagliato, ma che è inutile recitare una parte solo perché piace agli altri, o solo perché non sa ancora bene quale sia la sua. Le direi che quella maglietta grigia piace anche a me, di mettersela quando ha voglia, che le sta bene e chissenefrega di cosa dice mamma. Parlerei con la voce calma, dicendole di non sentirsi da meno degli altri solo perché le mancano le parole giuste al momento giusto e quando si arrabbia le viene da piangere, il carattere cambia e le parole vengono, un giorno griderà di una rabbia senza lacrime le parole che avrebbe voluto dire senza pentirsi, si sentirà liberata, non più ridicola. Saprà arrabbiarsi come tutti.
La rassicurerei, ma che non si aspetti una vita costellata di rose. Soprattutto, l’avvertirei che è stupido preoccuparsi di non piangere, perché io lo so, la disturba questo. Si chiede perché non le viene mai una lacrima, neanche al momento giusto, neanche quando sprofonda nella tristezza, si chiede come mai tutti attorno a lei si commuovono e nulla mai le inumidisce gli occhi. Non pensarlo neanche – le direi – il tuo dolore o il tuo coinvolgimento non si misurano con due gocce di acqua salata; la tua tristezza è la malinconia che hai avuto sempre, resta seria e se non hai voglia non parlare, ma non strizzare gli occhi per cercare di piangere, non è quello che ti libera se non te lo senti. Le racconterei con un briciolo di amarezza che ha così tanto da piangere che non è il caso di cominciare in anticipo. Non mi crederebbe, se le dicessi che passerà giornate intere ad annegare nel pianto, le sembrerà fuori dal mondo, ma almeno ci avrei provato... Non credo che anticiperei le meraviglie di cui non ha ancora idea, il diploma, quella lettera, i giorni di Londra, non le direi che avrà una casa e se la caverà per conto suo nel posto in cui ha sempre voluto studiare, quello no, perché possa provarla intera, la gioia del buono che c'è ad affrontare le cose da soli. Lascerò che si tormenti di paura come ho fatto io, è ciò che rende speciale un'attesa, che libera tutto quando si risolve bene. E ancora.
Cara, mormorerei, piccola, non tormentarti per l’assenza di amore. C’è un motivo se ti fa aspettare, e quando ti prenderà di sorpresa, sarà amore doppiamente, sarà bello da non poterci credere. Non cercarlo inutilmente in sguardi sconosciuti, il suo volto saprai benissimo qual è, ancor prima di realizzare che è lui. Non farti piacere nessuno per forza, non hai bisogno di elemosine, né di sentirti pari a qualcuno. E’ nel modo più bizzarro, che arriva. Non lo avresti mai pensato, ma ti assicuro, arriva. Anche per te, che spesso non ci credi.
Le direi che la felicità viene a mozzichi e bocconi, e che a riconoscerla ci vuole ben poco, perché ne basta una goccia a riempire tutto ciò che c’è. Le direi sta’ attenta, attenta a non lasciarti sfuggire il cuore davanti a lei, cerca di guardarla per ore ed ore, non dormire di notte se lei non dorme e non aspettare un istante se in te lei non aspetta. E se quando la tocchi non ti sembra possibile, e se credi sia troppo bella per esistere, se ogni giorno si preannuncia migliore del giorno prima, non aver paura, è quella vera. L’avvertirei anche, ma sottovoce, che una volta finita diventa irripetibile. Una volta finita, quella goccia di felicità, è finita per sempre. E vorrei non mi sentisse, quando glielo dico, perché non si freni mai.
Le direi corri, corri fino a non farcela più, corri fino al collasso dei polmoni e gettati per terra, grida, impara a svuotarti di tutto! Imponiti, piccola mia, lascia libero quello che hai di più estremo, regala tutto quello che puoi dare, leggi fino a notte fonda, alza il volume allo stereo, non restare mai la seconda voce di te stessa! Non ne vale la pena, Lucky, non ne vale la pena!
E dopo averle posato un bacio sui capelli, la scioglierei da quell’abbraccio, lasciandola andare via, e sperando che un giorno sia una persona migliore di me.


"L’oroscopo speciale
di fine mese leggerai per me
ma non mi dire
che domani m’innamoro"

domenica 9 dicembre 2007

Io nessuno e loro tutti (-Vie di Bologna-)

"Danzandoti nella mente
sfiorando tutta la gente
a volte sedendoti accanto"


Bologna è la pace.
So che è difficile trovare un luogo meno chiassoso e frequentato, meno densamente popolato di persone e rumori, ma non c’è nulla che acquieti le mie guerre come la grandezza di quelle strade, il loro colore conosciuto. Quei palazzi enormi che mi stancano solo a vederli, che mi costringono a tenere gli occhi bassi e guardarmi dritto davanti.
Scesa dal primo regionale che riesco a prendere, quella che in partenza era una fuga diventa una passeggiata: l’aria che mi sbatte sul giubbotto invernale mi impedisce di sentire, non so più cosa cerco ma cammino pacificata, col passo sereno che raramente mi riesce, anche volendo. Non importa che ore siano, non importa quando avrò il treno del ritorno. Se Bologna mi accoglie, se è la stessa dell’ultima volta, mi aggrapperò al suo tumulto pregando che ancora per un giorno si riveli guaritore, il suo chiasso che non sento, perché Bologna mi chiude le orecchie. Forse mi salva quell’anonimato temporaneo, la sensazione che nessuno mi veda e mi giudichi, mi salva guardare in faccia la gente senza voler vedere niente. Mi solleva il marrone dei suoi mattoni, le tegole rosse, rosso scuro come se ci fossero sempre state. Sotto ogni pioggia, resistenti ad ogni vento, sprezzanti dell’estate, della nebbia, dell’incoscienza di tutti, gente di corsa, tutti che vanno oltre, camminano a testa bassa, tutti passi lenti senza fretta, io insieme a loro, io incosciente come loro, io nessuno e loro tutti. Non conta la mia vita, a Bologna. Corro davanti all’autobus a semaforo rosso. Nessun pericolo per me.

Via San Vitale era tiepida e non troppo affollata, era settembre 2001, facevo iniezioni ogni sera. Dimenticai la macchina fotografica, lasciai a casa i primi giorni di scuola e i quaderni nuovi, ma mai, mai più ho perso quella cartolina in bianco e nero, regalo di un negoziante da commuoversi dal ridere: un vecchio bolognese spassosissimo, chiuso in una stanza piena di poster, che ora chiamo lo zio Lenin, sì, diceva così lui della foto che aveva appesa al muro, “ecco lo zio Lenin”. E mai più ho perso né dimenticato quelle cartoline prese con ogni molecola del cuore, in Piazza Grande, quelle che erano i suoi colori autunnali ma lei non lo sapeva, e forse glielo scrissi, ma non le importava. Che ci avessi pensato. Tutto quel sentirsi vinta, chiuso in una foto di alberi rossi e gialli. Mi mancava tanto, nella mia giacca a vento. Via San Vitale odorava di polvere e sole lontano.
Ricordo poi Via Indipendenza percorsa in un quarto d’ora, con le cuffie nascoste nella camicia, mi ricordo mossa dall’impazienza, dall’incredulità e da un uomo che solo, tra mille canzoni, scelse di cantare. La ricordo speranza. La ricordo sicurezza. E la musica, tutta la musica di quindici minuti.

Fa parte delle mie piccole pigrizie o delle bontà che mi concedo, prendere l’ascensore per andare dal binario a livello strada di ritorno alla stazione di Forlì, improvvisamente stanca di piegare le ginocchia per venti gradini. Arrivo a casa in un nonnulla ed è tutto finito... eppure no.
Via San Vitale è quattordici anni, e tutto ciò che non sapevo. E’ il mio sorriso ragazzino nel negozietto dello zio Lenin.
Piazza Grande è il gioco delle pulci che non si trovava, e un quadro ad acquerello nel salotto di mia zia.
Via Indipendenza è passeggiare contro il tempo. Con il tempo che non ho.


"Dovunque cada l’alba sulla mia strada
senza catene, vi andremo insieme"

lunedì 3 dicembre 2007

Recollection (memories in a week)

Mi manchi ogni giorno, il mercoledì di più. Anche il sabato non scherza.
Mi accosto al termosifone per riscaldarmi le gambe, ma mi si piega subito la testa e si socchiudono gli occhi. E’ così che ti penso, quasi sempre, con le mani poggiate sul metallo caldo. E come il calore che risale piano lungo il braccio, togliendomi ogni forza, il pensiero di te prende a impregnarmi ossa e muscoli, a scivolare sulle spalle sfiorando i capelli, e a cascarmi sulle labbra. Non è colpa tua né mia, né forse del termosifone, se la mia mente ti si è affezionata.
Ma visto che non mi dispiace, ti prego di non scusarmi se ancora ti penso.

E il lunedì, cosa sarà mai il lunedì? Nulla più di un pensiero fastidioso la domenica sera. Cinque diverse lezioni pesantissime, per cui alle otto la sveglia vorrei scagliarla giù per le scale. L’inizio di una settimana che vedrà altre ore avvicendarsi lente o rapidissime a seconda della compagnia, il turno delle pulizie, il tema del giovedì in italiano, quello del venerdì in spagnolo; occasionalmente, anche un tema in inglese. Un lunedì. Quel lunedì.

“Piangi” mi hai detto “piangi e non parlare” e non esisteva nulla di più bello. I singhiozzi allora venivano fuori pacifici, a metà increduli per la possibilità di sbocciare così, senza trattenersi. Ma più di tutto accarezzati e consolati dalla tua voce, lì presente a ricostruire, con pazienza, con tenerezza, senza fretta. "Posso prendermi io cura di te per qualche giorno? Posso?". Stasera spero che tutti un giorno abbiano la possibilità di piangere così... dentro un abbraccio. Poi, una volta basta. Basta un venerdì per avere paura, e per non averne più.

Conservo gelosa la mia buona dose di memoria. Memoria di anni vuoti e di giorni pienissimi, di mesi passati senza vivere niente, di secondi spesi a volere tutto. Un ricordo, senza consistenza come ogni cosa importante, porta troppo con sé. E’ piacevole e divertente, è una panacea per i cattivi pensieri, toglie l’aria nel dispiacere del rimpianto, uccide, fa ridere, guarisce, tortura. Lascia increduli. Perdona. Squarcia.
Quanto vorrei essere priva di memoria, non vedere niente. Quanto vorrei moltiplicarla all’infinito, e raddoppiarne la nitidezza, che abbia più spazio e più musica.

Buonanotte tesoro, resta lì senza pensarci. Chiudi gli occhi e prenditi il riposo di un sonno senza preoccupazioni, prima di tornare a muoverti aspetta che sia martedì.
Sogni d’oro.


“Campane di domenica e non io
che resto muto
nel cigolio
come un bambino
che questo amore...
è mio”