venerdì 26 dicembre 2008

Pensieri in gocce

"Conosco un posto nel mio cuore
dove tira sempre il vento
per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento
non c'è niente da capire, basta sedersi ed ascoltare
Perché ho scritto una canzone per ogni pentimento
e devo stare attento a non cadere nel vino
o finir dentro ai tuoi occhi, se mi vieni più vicino

La notte ha il suo profumo e puoi cascarci dentro
che non ti vede nessuno
ma per uno come me, poveretto, che voleva
prenderti per mano e cascare dentro un letto
che pena... che nostalgia
non guardarti negli occhi e dirti un'altra bugia
Ah, almeno non ti avessi incontrato
io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato"




Il tempo di Forlì è inospitale. È ostinatamente nuvoloso, e se accoglie qualcuno con un po’ di luce l’illusione dura poco. Piove per giorni interi e non ci si asciuga mai del tutto, anche se alla fine ci si abitua e si vedono persino i colori. Anch’io devo essere una persona inospitale. Per di più, credo di avere moltissime porte dentro di me, da cui la gente si affretta a scappare. C’è di buono, comunque, che io non trattengo nessuno se decide di non restare.
Scrivo in uno di quei rarissimi momenti di silenzio, in cui non bisogna parlare con nessuno. E non mi devo preoccupare di sembrare calma, non devo temere domande: scrivo in un miracoloso minuto di pace in questo andirivieni continuo. Solo tornando qui mi accorgo di quanto davvero mi mancasse il cielo dei miei posti, così inspiegabilmente più vicino ed umano. Mi mancava poter guardare dritto al confine del mare e sentirmi sollevata all’idea di vederne la fine: ecco, lì, su quella linea, dove le chiazze di rosso e viola di colpo si interrompono, in quel punto tutto inizia e va a morire. E poi il cielo qui è così buono e leggero, che se anche non avesse argini sarebbe un privilegio, perché il suo lasciarsi toccare è casa mia.

Alcuni ricordi che conservo di te sono come ferite sulle dita. Si mettono lì, minuscoli in un punto nascosto, e tornano a pungere mentre faccio la cosa più semplice, la più quotidiana. Molti sono già guariti, con la saliva e in mezzo al bruciore, altri lo faranno presto; sono di quei tagli per cui non esistono cicatrici. Io non voglio che mai più niente, mai più niente mi ferisca così. Che niente e nessuno arrivi a prendermi allo stesso modo, perché senza le mie armi sono perduta. Io non voglio più fidarmi così.
Sei la persona con cui ho commesso gli errori più sciocchi, a cui ho mostrato tutte le ingenuità e tutte le paure, con te ho pensato che bastasse abbandonarsi, con te sono stata cieca ed ostinata, spaventata, presuntuosa. Ed ho difeso il mio amore tanto debolmente, credendolo insignificante, da farlo sembrare anche a te poco più di niente. Ho avuto bisogno che 102 messaggi cancellati fossero testimoni del fatto che non avevo sognato, che per quanto fervida la mia fantasia non sarebbe stata capace di tanto. Perché per te ho pregato e pianto, per te ho desiderato con tutte le forze di essere un’altra persona, di avere le sue sembianze e la sua voce, perché per un istante solo mi amassi. Ho desiderato di aver fatto tutto il contrario di quanto in realtà ho fatto, anche quando si trattava di perderti con un po’ più di dignità. E tenere a bada tanti pentimenti finora mi ha preso un tempo enorme... non riuscirei a spiegarlo, né tu ad immaginare.
Ora che ti vedo entusiasmarti e ridere per altre persone ogni tanto mi chiedo, ma con leggerezza, se sarebbe stato mai possibile vederti ridere così, per me. Con lo stesso brillare del viso. E ogni volta mi rispondo di no. Per punire qualche impulso di immodestia, sicuramente, ma soprattutto perché è la mia conquista poter dire che adesso non mi importa più. Così quel no definitivo resta bloccato nel suo angolo di stanza e non osa fiatare dal momento che io, finalmente io sono più forte.
Sono gli ultimi giorni di dicembre, l’epilogo dell’anno più difficile della mia vita. Ed ho viaggi in programma, risate e bisogno di attenzioni, lettere mai ricevute, amici da cui tornare, il mio più bel regalo che viene a trovarmi domenica alle nove. Ho tanta famiglia a cui piace scambiarsi regali e biglietti spiritosi la mattina di Natale, nella quale ognuno è tanto importante che in mezzo a trenta persone un’assenza si nota, si cerca di rimediare.
Ho altre pagine bianche. E se una resta per sempre scritta a metà, ho un intero quaderno su cui continuare.


"Lascia stare tutto quello che non vedi
e togliti quei guanti
Finché non c’è una legge che te lo vieti
appoggiati ai miei palmi
Se vuoi ragione hai ragione
a proseguire col tuo istinto
ma non cambiare direzione, vai
avanti sempre dritto"

venerdì 5 dicembre 2008

Era speciale

Inizio a guardarti senza darlo a vedere, per non farti provare imbarazzo. Mi ipnotizzano le tue mani, i gomiti poggiati sul tavolo in modo leggero, come fai tu, per non essere di peso. E quel punto indefinito tra il collo, la spalla e il braccio, dove mi sorprendo a pensarti più debole. Non parli con me, questa è una fortuna, perché sarebbe difficile ascoltarti e ancora di più cercare di non farti scorgere niente, sul mio viso, niente che ti faccia capire come ti sto guardando.
Io non ti osservo: non voglio carpirti nessun segreto, intuire nulla che non arrivi spontaneamente. Non ti rubo niente e neanche te lo chiedo, non ti scruto, non ti esamino, non cerco il nervosismo nei tuoi gesti né mi aspetto di capire quella piega amara della bocca. Però mentre non lo sai, sto cercando di avvolgerti, di fare mia l’aria intorno a te. Per scaldarla, perché non ti senta sola.
Quanto tempo è che non ti vedo, quante volte avrai pianto e quante scoperte avrai fatto lontano da me, un mondo intero che non so neanche immaginare... quante scarpe hai consumato, per tornare ancora qui e sederti a questo tavolo, come se nulla fosse. Parli poco, io lo so che non hai avuto la vita facile. Mi chiedo se da tutto quel dolore riuscirò mai a consolarti.
Sento salire un piccolo blocco in gola, per me così familiare: non farmi parlare adesso, non voltarti ancora, aspetta che passi. Finisce presto e va giù, respiro. So che tocca a me, che è tutto pronto, loro se ne andranno e resteremo tu ed io, sulle sedie attorno al tavolo, a giocare prima e a parlare poi. Guardami ora, voglio prendermi i tuoi occhi.
Lascia che senta cosa posso fare, fammi vedere cosa sei diventata. Non aver paura, non agitarti: capiremo tutto. Se puoi abbracciami forte.


"Guardavo le sue mani
che stuzzicavano insolenti una rosa finta
ed era così dolce
il modo in cui nascondeva l'imbarazzo
Mentre parlava sorrideva ironicamente
delle proprie sventure
Teneva gli occhi bassi

Guardavo le sue mani che si intrecciavano
tra i ricami di una tovaglia
Riuscivo a stento a trattenere
la voglia di afferrarle
di aggredire il suo dolore

Misto all'incenso il sapore di un pasto
frugale e i ricordi storditi dal tempo
Pur essendo simile a tante e tante altre
persone era speciale... speciale."

domenica 23 novembre 2008

Attese

L’attesa è un mestiere che si affina come molti altri. Prevede la capacità di restar fermi senza fare altro che, per l’appunto, aspettare, assumendo magari le sembianze di chi assolve mille impegni e si muove. L’attesa è in realtà un’immobilità mentale, che impedisce qualunque azione che non sia a breve termine e condiziona ad un solo posto, ad un momento: il momento in cui essa si compie.
Rinunciare ad un'attesa è qualcosa di peggiore del classico gettare la spugna, ha molto poco a che vedere anche col verbo rassegnarsi. Non si abbandona il campo durante un incontro e non si prova l’infamia (o la gloria) di voltare le spalle nell’impeto di un evento tangibile che accade. No, rinunciare ad aspettare è più grave. Dover rinnegare il lavoro silenzioso e paziente con cui si è cercato, dritto o storto, di far procedere ogni cosa per bene, senza mai realmente scollegare il cervello dal fine più importante, il luogo, il momento, il compimento dell’attesa. Smettere di aspettare è veder morire qualcosa, malgrado tutto. Ti resta addosso.
Ho smesso di aspettare te almeno due volte. Non perché abbia smesso e poi ripreso ad aspettare la stessa cosa, tutt’altro: sono state due attese diverse, ognuna con le sue giornate, una più invadente, l’altra silenziosa e con pochi moti d’orgoglio. Ho avuto tempo di rimirare le mie attese, di limarne bene i contorni, ho avuto necessità di odiarle quando diventavano spasmodiche e modo di metterle da parte, dopo molti mesi. Tanto che adesso quasi non le ricordo, se non voglio. Mi dirai che non avrei mai dovuto aspettarti, a rigor di logica. Ti rispondo che era impossibile farne a meno, in tutta semplicità.
Ormai ti sorprenderesti di quanto io non mi aspetti più, stupisce anche me. Io che ho sempre atteso tanto, come i bambini, con la stessa irriducibile resistenza, ora il massimo che mi concedo è un rinvio di due giorni prima di comprare un disco. Avverto solo raramente qualche piccolo morso in quella zona atrofizzata, nei periodi peggiori, per il resto molto nulla. Ma vado al cinema e al ristorante, mi offendo, leggo, prendo il cornetto caldo alle due di notte in Piazza Saffi. Tutto questo c’era mentre ti aspettavo.
Certi giorni perdo i contorni della mia normalità, questo mi spaventa, arriva con una specie di tremore allo stomaco. Porta con sé la voglia di stendermi ancora sotto quella coperta, nascondermi e aspettare che scompaia ogni pericolo (come se quella coperta contro il mondo non fosse un rischio anche maggiore). Eppure non sono una fanatica della parola normalità: è impressionante vedere quante diversità mi porto dentro. E come da certe apatie mi risveglio con qualcosa di piccolissimo... una telefonata, una frase inaspettata e gentile, una musica così bella che passando nel parco ci si potrebbe improvvisare una danza. Con attorno le foglie che cadono, spargendo per aria il loro autunno, ridere.
A volte non avere da aspettare mi rende triste, altre mi sembra il modo migliore di vivere. Tutto quello che c’era dietro l’angolo mentre pensavo a te è ciò che ora mi riempie le giornate. Un po' pesa, un po' solleva. È il meglio che mi posso permettere. È ciò che mi fa dire adesso sto bene.

mercoledì 12 novembre 2008

Misurata preghiera

Sono entrata qui perché vagavo per la strada e mi stavo inzuppando i jeans sotto il diluvio. Oppure perché in realtà l’avevo deciso da un po’.
Casa tua non sembra mai vuota, anche quando non dicono messa, ci dev’essere qualcosa dietro a questa immobilità apparente. Allora siccome sto diventando sfrontata, mi sono invitata da sola, la piccola testolina chiusa alle tue leggi che viene a sedersi sulle tue panche di legno. Non è una sfida, Dio, al contrario è un segno di resa dopo una giornata faticosa, in cui mi sono sentita giudicata e sminuita. Sarebbe facile, lo sai, venire qui a lamentarmi, ma non è questo il motivo che mi ha spinto questo pomeriggio: è che io non voglio parlarti. Non ho intenzione di spiegarti niente.
Però lascio che tu guardi, come raccontare senza muovere le labbra, lascio che tu entri nei miei edifici interiori: vedi la stanza in cui ho messo le sue parole, quella dei programmi, quella di tutti i giorni in cui ho rifiutato di pensarti. Guarda che gran disordine, in quanti angoli manca luce ancora, senti che vento lieve soffia quando non c’è temporale. Chissà cosa te ne sembra, di tanto lavoro costruito e demolito.
Mi hai mandato in quest’isola del mondo, ma anch’io ho una mia piccola arte, lo sai Dio? Sto imparando. Io prendo parole che la gente non capisce, le guardo e mi sono chiarissime, tanto evidenti da essere quasi materiali; le prendo e inizio a plasmarle, ne smusso gli angoli e le rigiro, le trasformo, finché non diventano completamente familiari per tutti. E mentre lo faccio, poiché le amo, cerco di non privare quelle parole della loro bellezza originaria, della loro delicatezza o ambiguità, o della violenza, così che restino in ogni forma esattamente quello che sono. La mia piccola arte è un po’ come questa pioggia: incessante e ostinata, che cade sulla pietra e scava piccoli solchi. Io traduco. Traduco come erodere le rocce, levigare, inventare, e a tratti tirarsi indietro per evitare l’invadenza. Traduco come se ogni istante mi inchinassi, con profondo rispetto. Traduco come se mi muovessi su una musica.

Forse è solo un caso, Dio, se Fiorella ha questa voce che si fa bere, che ha le sue curve, le indecisioni e i voli. La sua voce che non inganna né si atteggia a seduttrice, ma porta il mio cuore ad accasciarsi e sciogliersi.
Forse è solo un caso se circa un anno fa, sul treno di ritorno da Bologna, ho incontrato Alessandro a salvarmi dall’ansia della SSLiMIT, Alessandro con cui ora sì e no ci salutiamo per strada, ma che mi accompagnò a casa e mi disse che la migliore sopravvivenza è, in effetti, non starci a pensare su. E da allora la facoltà mi sta meno stretta, a volte direi quasi comoda.
Forse è solo un caso, se Giulia ha quella scrittura terrena e morbida, tanto più coinvolgente perché concreta e tanto più viva perché priva di menzogne. Se ha quella scrittura ruvida come un silenzio e dolce come una carezza, timida solo per gioco, in realtà più solida di tutto. O forse è solo percorrendosi in verticale, passando la mano sulla linea ondulata delle ferite, portando fiera gli sbagli e tutto ciò che non doveva succedere, che scrive così. Sarà magari un caso, ma nel caso, tu dalle molta fortuna, per favore.

Ed io pensandoti così indulgente, senza chiedermi se realmente ti ho pregato, invece di dire amen ti dico arrivederci.

mercoledì 22 ottobre 2008

Tracce

Ti vedo, ogni sera, arrivare ed andar via. Ci sono moltissime cose che avrei voluto dirti, in tutte le occasioni, invece mi accontento di immaginare la tua vita in un posto che non conosco, quasi mi sembra di guardarti, e basta questo. Riconoscerti mentre scendi di corsa a prendere un autobus. Fingere di vedere i bicchieri e il tavolo della tua cucina, dove ogni tanto dimentichi qualcosa. La sedia e uno o due jeans, qualche maglione blu. Io non ci sono mai.
Volevo dire a Pier che ogni tanto metto un paio di suoi calzini neri, li ha lasciati a casa mia chissà quando; ormai li ho consumati, ma vengono con me come il guscio delle chiocciole, un segnale di casa. Metto anche una sua maglietta, d’estate, quella col 46 pieno di brillantini. Che trovo bello avere qualcosa di suo. E' bello avere una lettera di Silvia, anche se è “stringata”, perché me l’ha scritta con la sua penna ed è la prima cosa che ricevo qui. La prima in assoluto, qui.
Era tanto tempo che qualcuno non mi teneva la mano, che non mi si chiedeva a cosa stessi pensando, ho perso le risposte su un marciapiede mentre camminavo, le ho lasciate cadere. Ho lasciato che mi frugassero nelle tasche e se le portassero. Chi se ne importa, sai? Chi se ne importa di spiegare.
Sono qui che ti vedo, ogni sera, arrivare ed andar via. Ed è triste, certe sere.

mercoledì 8 ottobre 2008

Siccità

Ho paura per te. Hai risvegliato per un attimo il mio istinto infantile, per cui appena ti ho sentito avrei voluto prenderti tra le braccia e poterti stringere finché tutto non fosse passato. E dire che tu non ci resteresti neanche un minuto intero. Ti rifugeresti tra le tue commissioni, mentre se potessi allungarti una mano o farti scudo in qualche modo, io lo farei. Così come, quando la vidi, avrei voluto proteggere la tua felpa bianca bellissima. Avevo aspettato troppo per vederti così, in mezzo alla strada, sapere che non era scontato. Avrei voluto salvare il senso di te. E no.
Un pomeriggio che ero sola in camera, una donna giovane mi ha chiamata dalla finestra mentre cantavo ad alta voce. Mi chiedeva aiuto perché una signora nell’appartamento di fronte era caduta e non riusciva a rialzarsi, così mi sono precipitata da lei e l’abbiamo tirata su a viva forza, messa a sedere sulla poltrona. La donna giovane continuava a rimproverarla per la caduta con una tale insolenza che l’avrei zittita io stessa se avessi potuto, gridando più di lei; la signora, al contrario, era una di quelle persone anziane con una certa nobiltà nei modi, che mentre la aiutavo mi chiedeva cosa studiavo, dove abitavo, di tornare a trovarla, “sono la madre del dottor Remo, lo conosce?”. Mi commuove la gentilezza buona di certe persone, e gli anziani, tante di quelle volte.

Invece io non riesco più a guardare i film, quando c’è un bacio. Non posso più sentire moltissime canzoni perché non mi basta la tranquillità. Non riesco ad essere ottimista con me stessa la metà di quanto lo sono con gli altri. Sono l’unica a ricordare quasi tutte le cose più importanti della mia vita, quando magari neanche vorrei averle vissute.
Non ho passato mesi d’inferno per sentirmi dire ancora ‘piccola’. Neanche per ricaricare le batterie ed essere pronta per un’altra storia o un’altra persona. (Né per credermi grande). La sola cosa che desidero è diventare immobile e seria, il più possibile impermeabile, non aver più bisogno di essere abbracciata e consolata, mai. Non chiedere niente, andare dritta per la mia strada e togliermi dalla testa quelle possibilità intraviste, fuori dalla mia portata. E prendere il sole come la terra quando non piove per tre mesi, restando solida.
Oggi sono molto nervosa. Forse non rispondo.


"Non sempre rispondo, dipende dai giorni,
dall'aria che tira tra me e i miei ricordi
Per cui se succede che qualche argomento
rimane silente, o qualche risposta sia un poco sfuggente
Sappi che a volte nella mia testa
cade una grandine molto violenta
Forse è passeggera, ma poi ritornerà
tu non aspettarmi, preparati pure un sandwich

E non c'è logica per la mia testa quando
cade una grandine troppo violenta
So che è passeggera, ma poi ritornerà
e se faccio tardi regalami dei confetti
Forse è passeggera e quando tornerà
tu non aspettarmi, ricordati di pagare il gas"

martedì 23 settembre 2008

A la recherche du temps perdu

Mi piacerebbe poterti pregare. Sì, come quando avevo 13 anni e ti venivo a cercare ogni sera, mi piacerebbe unire le mani e usare un po’ di quelle parole formali, per iniziare a parlarti. Mi piacerebbe tantissimo chiudere gli occhi e affidarmi a te, come quando da piccola mi sentivo in pericolo per aver perso un giocattolo o aver rotto un soprammobile, e non riuscivo a fare altro se non chiederti per favore, per questa volta, pensaci tu. Vorrei tanto sentire che riempi il vuoto, il silenzio innaturale di ore come queste, in cui ancora non ho sonno, avvertire la tua sorveglianza continua e non sentirmi indifesa. Vorrei non sentirmi disarmata.
Invece un giorno mio padre stava per cadere in un pozzo. Era sera e faceva freddo, uscii con la vestaglia da notte rossa e correndo a chiedere aiuto dai vicini stavo per rompere le pantofole, e non arrivavo mai, e i sassi della strada facevano male ai piedi. Era una corsa troppo piccola la mia, di otto o nove anni, che strascicava e non sapeva spiegare bene le cose. Mio padre fu tirato su, poco dopo.
Mi sono allenata tanto in ogni senso. Ero forte, correvo come un ragazzo e nuotavo sfiorando la sabbia del fondo, mi lanciavo con la bicicletta, o sul campo di pallavolo, mi piaceva. Sono uscita da quel reparto e ci sono rientrata, un pomeriggio ho camminato dal day hospital all’alloggio senza fermarmi, perché c’era il primo sole di primavera, e volevo vedere se contavo ancora qualcosa per le mie gambe. Ed ero esausta e dolorante ma ho vinto io, ero forte.
Come hai potuto lasciare che mi abbattessero le parole? Perché quando qualunque appiglio sarebbe servito, non ti sei affacciato un attimo a tirarmi su da quel letto, da quel cuscino bagnato? Ma non è colpa tua: sono stata io a lasciarmi andare. Non è neanche colpa tua se è tanto tempo che non so cercarti più. Sono stata piena, vuota, ma sono stati pochi gli istanti in cui ho pensato di riuscire a dirti grazie o chiederti aiutami, e credimi avrei voluto, voluto, voluto sentirti. Voluto urlarti la mia gioia quando l’ho provata, voluto chiudere gli occhi e pensare che avrei lasciato fare a te, che avresti sistemato tutto e non dovevo che sperare, doveva pur esserci una giustizia, me l’avresti resa. Perdonami, ma non ci sono riuscita.
Sistemando un cassetto dello studio ho trovato una cannuccia inutilizzata, oggi. Una cannuccia verde del Mc Donald’s della stazione, di quando non è servita perché ne bastava una sola. L’ho scartata, ho gettato l’involucro nella raccolta carta, l’ho piegata, stretta in mano e buttata, nella plastica, accuratamente. Mi sono detta che non è il primo piccolo omicidio che commetto. Mi ha fatto effetto, sì, non sono caduta in ginocchio, neanche ho pianto, no. Allora forse, dopo tanto tempo, penso che hai voluto tu che non facesse male: hai capito che bastava ed hai mostrato misericordia. Non dirò niente neanche adesso, in mezzo a tanto disordine, non ancora. Mi rimetterò in piedi, magari, piano. Ho un anno intero davanti. Intanto, per quello che vale, buonanotte caro Dio.


"O Capitano mio Capitano anche se il viaggio è finito
sento ancora tempesta annunciare
e le donne esultare, le campane suonare
e altre inutili parole d'amore


Capitano mio Capitano è che non posso lasciare
che nemmeno un sogno scivoli via
Sotto nuove bandiere ancora giorni e sere
per il tempo che ha l'anima mia
... e per me"

domenica 14 settembre 2008

Post scriptum (-grazie-)

Se fossi stata zucchero, ieri sera, mi sarei sciolta ai tuoi piedi senza remore, Signora. Sotto le nuvole grigie che ci hanno fatto preoccupare, sarebbe stato un inchino a mio modo. Hai un potere, tu, incantevole Signora, di cui non ti rendi conto o che dispensi con tale generosità da non approfittarne mai, ed il mio petto così vuoto si è inondato di tutto ciò che arrivava dal tuo palco. Non credo che riuscirò mai a spiegarmi cosa possiedi, come puoi ancora farmi credere, dopo un anno così, semplicemente allargando le braccia e sollevando un po’ le spalle, con le mani schiuse, come puoi farmi credere ancora che il dolore passerà. Eppure te lo urlo e me ne convinco, senza ragione, come se tu mi ubriacassi.
Signora, giù il cappello al tuo cospetto, quando mi fai riascoltare quella canzone cercando di non farmi piangere, quando ti metti in ginocchio e diventi romantica, quando fai crescere le ali e spalanchi un volo leggerissimo. Sorridi. A testa bassa e con le gambe piegate, giù il cappello, Signora, in segno di gratitudine e di pentimento per non averti più creduta capace dei tuoi miracoli. Per averti resistito con ostinazione, dalla scorsa estate in poi.
Grazie per quello sguardo che non era per me, grazie per i salti di gioia, per i pochi singhiozzi, per Endrigo, Battisti e De Andrè. Grazie, umilmente, per la Musica, mia Signora gentilissima.

sabato 13 settembre 2008

Un poco di zucchero

"Scendi lentamente, portale i miei saluti più sinceri,
batti piano sui vetri e sciogli i dispiaceri
Scendi piano piano, che ti senta arrivare da lontano,
che abbia tempo per riparare, rifiatare"


Vorrei essere di zucchero, bianca ed utile, polverizzata. Non ci sarebbe niente di male. Vorrei essere di zucchero ed uscire sotto la pioggia, per sciogliermi velocemente e senza rumore sotto il battere incessante delle gocce. Sarebbe liberatorio vedere disfarsi ogni singolo atomo delle mie spalle, dei capelli, vedere i piedi già malfermi abbandonarmi del tutto. Persino i miei ricordi, questo sì sarebbe bello, si allontanerebbero assorbiti dall’acqua. Scorrendo fuori dalla mia vista. Alla fine del temporale, sotto un semicerchio a colori, magari arriverebbero i gatti di mia zia a portarmi via per sempre, bevendomi sorso a sorso. Magari sì, ecco: a loro risulterei gradevole. Giù pezzo a pezzo sulla lingua ruvida di un gatto, saltellando senza farmi male sui muscoli della sua bocca.
Allora di me non resterebbero che pochi granelli, qualche minuscola parte del corpo, e se così fosse, vorrei restassero le mani. Quelle che battono sui tasti in tre lingue diverse, e che una volta ti sono affondate nei capelli, le mie piccole mani mai protette dai guanti. Sui mattoncini del piazzale di casa, con le mie dita di zucchero, afferrerei le scarpe sportive di mio padre, i tacchi di mia madre, me ne andrei con loro a scuola o a fare la spesa; mi aggrapperei alla ruota della bici di mia sorella, e il vento mi disperderebbe prima ancora di uscire sulla strada grande. Non saprei comunque darmi l’affetto, lo so già, quel briciolo di tenerezza semplicissima che vado così maldestramente elemosinando. Neanche essendo zucchero saprei essere meno angosciante. Ma mi si potrebbe portare – basterebbe una goccia di me – in un angolo deserto e inutilizzato, dove resterei a guardare le foglie d’ulivo asciugarsi. Ad aspettare una formica che mi scambierebbe per la sua riserva dell’inverno.
Se di me restassero le mani, non potrei più arrivarti in nessun modo. Se mi facessi zucchero, neppure avrei il privilegio di addolcirti il cappuccino. Pensarti da lontano sarebbe più pacifico, del tutto normale aver smesso di conoscerti. Non pensarmi più sarebbe finalmente lecito. Stesa lì sul pavimento, a compiacermi di soddisfare i gatti. A sorridere di essermi sgretolata. Non pensando, in effetti, che a quell’ora potrei essere zucchero filato nelle mani entusiaste di una bambina, e chissà se anche lei lo direbbe, di avere una nuvola in mano… o zucchero a velo su una torta alle mele. Vedi, io mi fermo a molto meno, ma potrebbe diventare una cosa proprio concreta, essere zucchero.
Se di me restassero le mani, senza poter parlare né più scrivere, con sollievo mio prima di tutto, mi piacerebbe chiedere a gesti a un qualcuno là in alto: come si compensa un dolore così onesto? Come ci si salva da un amore? E dalla pioggia?

"Scendi lentamente, portale i miei saluti gentilmente,
lascia che si riposi e non le manchi niente
Scendi piano piano, gocciolando sul viso e sulla mano,
vai dovunque per rinfrescare, dissetare"

mercoledì 6 agosto 2008

Una notte di mezza estate

Mi addormento con la voglia di parlarti, come ogni sera ultimamente. Mi pare di ospitare nella gola una corrente indistinta di parole, un garbuglio di fatti, di idee, senza un soggetto e un verbo, che trattengo a fatica. Sogno spesso ad occhi aperti di me che ti parlo e ti racconto tutto, senza i veli dell’imbarazzo e della distanza, senza i freni della gelosia. A volte ti stringo a me, mentre dico qualcosa di molto intimo, oppure mi volto dall’altra parte, se descriverti un ricordo doloroso (proprio quello, il più nero che ho) mi fa tremare la voce o piangere. Mi vergogno di piangere. Eppure di spalle e chiusa a tutto con le frasi che mi si spezzano, spero comunque di sentire il tuo calore; un abbraccio magari, sì, un abbraccio tenero come quello che desideravo nel sonno, quando mi svegliavo con le braccia attorno al corpo. Quando mi cadevano le lacrime già nel caffè della colazione.
Sogno ad occhi aperti che mi ascolti e rispondi con frasi semplicissime, a voce bassa, ed accetti le mie verità senza scandalizzartene. Non ho paura di svelartele, persino quelle che mi vedono infantile e sciocca, quelle che ti portano a capire le mie viltà più radicate, so che non ci sarà freddezza nel tuo giudizio. Ho stranamente superato il mio terrore costante di perderti, è una libertà che non mi sono mai presa con nessuno; ma non c’è nulla di coraggioso nel silenzio, nulla di eroico, io voglio che tu lo sappia. Naturalmente non pretendo che ti esponga con me allo stesso modo, conosco le tue confidenze altalenanti, la difficoltà che a volte hai (ancora?) a lasciarti andare: non è mancanza di fiducia in me, non credo, piuttosto è di te che ti fidi poco. Nonostante tutto capita che inizi a parlare, poche parole all’inizio e veri aneddoti lunghi e circostanziati poi, ti vedo schiuderti lentamente e me ne accorgo, io mi accorgo: è qualcosa di così effimero e fragile che trattengo il respiro. E’ quello che mi ha attratto subito in te, quella piccola luce bianca che tieni così ben nascosta con le tue risate. Un regalo per me, il tuo, di lasciarla uscire: so già di non saper rispondere, non poter renderti giustizia. Un attimo soltanto, dimmi ancora di te, lasciati accogliere. E più tardi il sonno, che ci trova così, quasi dispiaciuto di disturbare cerca di posarsi silenziosamente, si offre da riposo.
Quanto sogno ancora, lo vedi? Ad occhi aperti addirittura. Una delle due cose che non ti ho detto è che questa è l’unica vera consolazione che ho, anche se lo vedi già da te. Riguardo alle cose che tu non mi hai detto... adesso ridi pure, ho già capito.

«Sì, hai visto giusto: un bambino piccolo e magrissimo, con il volto amareggiato. Un bambino sempre teso, insofferente come un vecchio, e irrequieto, terribilmente agitato. Come se dovesse sempre dimostrare qualcosa e lottare per la vita. Come facevi a saperlo? Come può una persona conoscerne un’altra? Un cospiratore, hai scritto. Ma uno di quelli che agiscono in casa, in famiglia. Sì, sì! Persino la cosa tremenda che hai detto sulla solitudine, diversa da quella degli altri bambini. Ogni tua parola è caduta esattamente dove era attesa da anni. Non la solitudine di un bambino, ma quella che prova una persona affetta da una malattia infamante (come mai non hai avuto paura di scrivere questa parola?). E’ vero, è vero, un bambino che sta attento a non indebolirsi, a non cullarsi nell’illusione che sia possibile concedersi, che esiste, da qualche parte, la possibilità di lasciarsi andare...»

[David Grossman]

mercoledì 9 luglio 2008

Pensieri nascosti

Fa più freddo, quando il termometro supera i trenta. A volte riesce ancora a fare più freddo.
Non faccio che andare al mare, nuotare cercando di ridere di quella paura stupida di pestare un qualche animale strano, leggere all’ombra tra le racchette e il pallone. Mi si è bruciata la pelle sulle spalle, quasi un rito, mi lamento del troppo caldo, quasi un obbligo. Mi innervosisce lo scirocco, un classico.
Eppure succede che fa freddo, di nascosto, all’inizio della notte o mentre gli altri parlano. La sensazione di sorpresa dolorosa di quando ho riconosciuto la tua sagoma seduta, solo dalla schiena. E ricordare che la prova più difficile che l’inverno mi abbia chiesto è stata quella di rispettare il suo silenzio, rispettare il suo disamore. Il tentativo patetico di imporre il mio tacere era simile a lanciare di traverso la tavoletta contro le onde, leggerissima, per vedere quanto si può resistere alla furia del mare. Vorrei tanto mi s’indurisse il cuore. Non dovrebbe volerci chissà cosa.
Non sono diventata più alta, né più tollerante, non mi si sono imbelliti gli occhi, non sono neanche un poco meno irritante. Ma i miei capelli sono così castani, e arresi, che spero tu possa perdonarmi per sempre.
O almeno fino a quando non ti finisce la dolcezza. Non ti sfinisco io.


"E un giorno io saprò
d'essere un piccolo pensiero
nella più grande immensità
di quel cielo"

domenica 29 giugno 2008

Saturday night's fever

Lo sai anche tu che ci ho pensato. Ho continuato a pensarci per un’ora o due, masticando ogni informazione, girandoci intorno, guardandomela bene. Una cosa così improvvisa.
Ci ho pensato – assurdo – con una specie di tristezza preventiva, di chi sa già come finisce la serata. In fondo la stavo aspettando, come te, potevo quasi vederla spuntare dietro l’angolo, col suo volto così familiare. Aspettavo la gelosia come si aspetta una vecchia amica, pronta a stringerle la mano e intavolare nuove conversazioni con lei, preparata alle sue domande insistenti, alla sua invadenza e a qualche lacrima. E’ fatta così, lei, cocciuta e maliziosa, abile a intrufolarsi nelle pieghe più sottili. Tanto tempo siamo state insieme che abbiamo stilato i nostri accordi segreti, e così io attendevo che si presentasse, puntuale come sempre, a riscuotere il suo piccolo tributo. E mi riascoltavo le frasi e me le torturavo. Una cosa così improvvisa. Così caldo sulle guance, e già tardi sull’orologio. Alla sua ora preferita, giacché io la conosco, ho fatto in modo di accoglierla sveglia. Pronta, sorridente.
Ma lei non è arrivata.
E allora qualcosa è cambiato davvero.


PS: Non è che adesso non si ripresenti più, è tanto cortese, non farà finta di non conoscermi. Anzi, educata com'è, è già passata per un saluto... un gesto col braccio, da lontano, solo per avvisarmi che ha cambiato residenza!


"Quando me chamou, eu vim
quando dei por mim, tava aqui
quando lhe achei, me perdi
quando vi você, me apaixonei..."

sabato 21 giugno 2008

Senza parole

Ho bruciato quei fogli per impedirmi di rileggerli. Li ho bruciati per non continuare a stringere in mano i miei errori. Ho bruciato quei fogli perché nulla di ciò che contenevano si è rivelato vero, ed ho cercato di placare l’ennesimo rigurgito di tristezza guardando con gli occhi cinici quel piccolo falò consumarsi sul davanzale della finestra. Capita spesso che mi accorga di quante cose avevo pronte, o avrei potuto fare prima.
È la terza volta che provo a scriverti, la terza che mi rendo conto di non sapere cosa dirti. Di non poterti dire. Mi ero ripromessa che sarebbe stato diverso. Io che ci provo ancora a ripromettermi, e so tacere adesso, e so quanto possano essere vane e dannose le parole, rovinare tutto. Esercito la mia prudenza col silenzio, tornando contro i miei propositi ad inghiottirle e distruggerle a poco a poco, pezzo a pezzo, le parole, finché l’impulso irrefrenabile di dirtele non svanisce del tutto. Quanto allenamento e quanta pena per imparare a fare a meno di ciò in cui credo di più... E tu forse dovresti sapere. Forse mi perdoneresti, magari non avresti fastidio. Ma per rispetto, tuo e di me stessa, per paura delle nostre distanze, per quei pochi mattoni che ho posato grazie a te sulle rovine che prima stavo immobile a guardare, non ti dico nulla. Il fumo ha un odore acre che mi aiuta a schiarire la gola, chiudere il telefono, gli occhi, le mani, ed evitarti le mie parole.
Riposa e passa un buon pomeriggio.

martedì 17 giugno 2008

Collezione (-it's not easy-)

La carta ce l’ho, la voglia mi manca.
I lacci alle scarpe ce li ho, la pazienza mi manca.
La polvere sotto il letto ce l’ho, un rifugio mi manca.
La coperta ce l’ho, il calore mi manca.
Un rifiuto ce l’ho, le briglie mi mancano.
I colori ce li ho, la fantasia mi manca.


Siamo a metà giugno, ma vago ancora per casa in pantaloni e maniche lunghe: fuori fa un freddo invernale e quanto agli esami, siamo a meno due ma la stanchezza è già arrivata. Diverse cose, in questi giorni, mi parlano di casa. Un incontro casuale con un ragno che tenta la scalata dello specchio del bagno, uno di quei ragni con gli arti lunghissimi e sottili, con cui sono abituata a convivere nel seminterrato. E la signora Fletcher ogni mattina, se non fosse che al posto del divano del soggiorno la guardo su una sedia di legno, con i suoi occhi rotondi e la sua voce rilassante. Mi sono accusata spesso della mia mancata nostalgia in questi mesi, ma forse ho solo imparato a gestirla. Ho due vite adesso, come tutti, ed una è qui in mezzo al temporale e alla grandine, nel quarto d’ora di strada tra questa stanza e la facoltà. Non voglio rinnegare nulla di questa né di quella, ma posso esserci solo in una per volta. E non è vero che non voglio tornare.
Ho paura di casa mia per la differenza palese tra una stanza coi miei ritmi e 200 metriquadri con un proprio orologio, ma non è detto che non mi ci adatti nel modo più naturale. Ho molta più paura della distanza tra casa mia e qui, per tutti i posti in cui posso arrivare più facilmente per trovare ciò di cui ho bisogno. Ma non è detto che effettivamente, senza un invito, da qui io possa arrivarci. Torno a casa i primi di luglio, armi bagagli e non so quante altre borse, da lì vedo se è possibile reggere con sole due mani le fila di due persone, e nel frattempo leggere qualche saggio sul libro Cuore per la tesina di settembre.
Non è vero che non voglio tornare, ma prima vorrei partire ancora, ininterrottamente, e penso a tanti posti o forse ad uno solo. Penso a molte persone o forse ad una sola. Quanti treni avrei voluto prendere, quanto mi è stato impedito, quanto è stato inutile o consolatorio, in questi mesi di tristezza distillata. Quanti i giorni passati senza significato. Eppure quante cartoline e quanta vivacità colorano le pareti di questa stanza, vieni a vederla? Lo lasci solo a me, il risultato di tanto impegno? Puoi riempirlo di una risata, e farmi dimenticare il dolore? Vuoi?
Non è vero che non voglio tornare: nessun dubbio al mondo che dopo gli ultimi sforzi di concentrazione, qualunque sia il loro frutto, riempirò quei 668 km, e sarò di nuovo a casa.

Le cicatrici ce le ho, il fisico mi manca.
La pioggia ce l’ho, il mare mi manca.
La bicicletta ce l’ho, il compagno di viaggio mi manca.
I lividi ce li ho. La dolcezza mi manca.



"I can't stand to fly
I'm not that naive
I'm just out to find
The better part of me

I'm more than a bird
I'm more than a plane
More than some pretty face beside a train
and it's not easy to be me"

martedì 10 giugno 2008

Souvenir (ovvero... RESOCONT!)

Sono le otto e trentatré, la sveglia del cellulare squilla puntuale. In realtà ho aperto gli occhi già mezzora fa, così chiedo a Silvia se ha dormito bene come me, che per una volta non ho sognato. Prendiamo un treno stamattina, ma non sappiamo ancora quale, visto che anziché aiutarla ad alzarsi preferisco anch’io restare ancora un po’. Si sta così bene, mica ci vuole tanto.
Incredibile ma vero, anche se siamo uscite dal letto alle nove e mezza riusciamo ad essere sul binario alle 10.02, dopo un paio di curve su due ruote e un mega parcheggio in retromarcia, un biglietto al volo ed una corsa per il sottopassaggio: via sull’intercity, destinazione Piazza Principe! Tra un cruciverba e l’altro, le mamme si affrettano a dispensare le previsioni per la giornata: “Vedrai che oggi a Genova ci sarà il sole” (mamma di Silvia, per gli amici CP); “Oggi lì al nord è previsto un tempo catastrofico!” (mia madre, per gli amici gatto nero). Manco a dirlo, ci becchiamo il diluvio universale per quasi tutto il pomeriggio, mentre tentiamo di scansare le pozzanghere e di non perdere gli ombrelli per strada, quando non siamo impegnate a “cavalcare leoni di pietra” (cit. Fiorella)! Nella galleria di negozi sotto ai pesci, mi trattengo a malapena dal comprare una fantastica rete da pesca ornamentale, un telefono peloso fucsia e una maglia con su scritto battitene u belin, e così si va, parlando ininterrottamente. Silvia ha i polsi piccoli e gli occhi grandi, molti gatti, molte timidezze; ha un ciuffo di capelli sulla fronte e tutta quella pazienza, con me e col suo ginocchio sifulo. Silvia è stata in tanti posti, sa due parole in ogni lingua ed ha conosciuto gente che ha avuto mille cose, ha delle passioni che non diresti mai, e delle debolezze che mai le scopriresti. Le manca l’ultimo libro della Cornwell. Qualche altro affetto che non so come procurarle. Silvia tra una giornata di lavoro e l’altra mi ha comprato dei pasticcini, e se io servissi a qualcosa mi saprei sdebitare.
Genova, pur con tutti i negozi chiusi e il suo tempo inospitale, è sempre la mia preferita: camminiamo senza una meta e senza un pensiero, per me rivederla con qualcuno accanto ne raddoppia l’intensità. Silvia la conosce già, ma che importa? E’ la mia città che sta guardando, non quella in cui è già stata. Cerchiamo di catturare l’unico raggio di sole su una panchina, scappiamo poi dall’ondeggiare della chiatta, e non ci si crede a come va via un pomeriggio. Le mie dita piccole che sono utili a intrufolarsi nelle fessure del pavimento, le sue poco più lunghe che reggono un sacchetto di plastica per togliermi qualche peso. Ci sarebbero ancora due vite da raccontare, si potrebbe fare un giro sull’autoscontro, o sparare alle lattine col fucile ad aria compressa... ma siamo di nuovo sedute alla stazione, e vorrei solo chiederle di restare. Oggi che era ieri, tutto sembra già irreale.
Mi sono ritrovata sul treno del ritorno senza essermene accorta, stordita perché non ho ancora realizzato di aver trovato una persona da poter abbracciare, con cui ridere tantissimo e passare un sacco di tempo in una libreria. Una persona nuova, gentile, così rara. Che non sa molte cose di me, di cui non conosco molte cose a mia volta, a cui non posso spiegare come mi sento. E che alla fine di due giorni come questi mi lascia un sapore dolceamaro di sorpresa.
E adesso, ci si rivede presto, Silvia? Non lo so, prudenzialmente mi sono fatta un infinito pianto in treno. Non lo so, se i momenti così belli hanno il potere di ripetersi. Non mi è successo mai. Ma come un’ingenua, come la piccola sciocca che sono, con le ultime due lacrime, io lo spero tanto.
… sper!


"Ma ogni volta che vedo il mare
sono abbagliata mi devo fermare,
non capisco e mi metto a pensare
a chi di notte non riesco a vedere
Ed ogni volta che vedo il mare
è impossibile bluffare
con questo straccio d'anima dentro
è molto strano che io sia contenta adesso
Ogni volta che vedo il mare..."

sabato 31 maggio 2008

Piano. Forte.

Dove sarai adesso, ragazza della foto? Con quegli occhi così grandi, cosa starai guardando? Una città non troppo lontana, forse, di là dalle montagne o da una ferrovia. Quasi non posso ricordare il tuo viso. Come va piano, lo vedi?, il tempo. Come i treni regionali.
E’ tutto un miraggio, è quello che mi sembra, ragazza della foto, mentre cammino a piedi scalzi sul pavimento freddo come facevo da bambina. Che se fosse una stanza grande si potrebbe ballare, da matte e senza ritmo, senza lezioni né coordinazione, così per gioco. Basterebbe una musica allegra e forte. Mica sappiamo ballare, noi due!
Lo sai, anche col tuo fantasma si parlava. Anche di te si sognava, in modo strano, di una stretta di mano e della luce sul comodino spenta, senza sapere come sono fatte le tue mani, solo per ridere. Sei un miraggio persino tu, ragazza della foto? – mi chiedo. Perché forse, come questo tempo indeciso, passerai anche tu. Sempre solo addosso a me, come l’ennesima punizione, passerai anche tu. Sei un miraggio? Me lo dirai domani, o forse un’altra volta, chi lo sa. Se me lo dirai piano. Per ora c’è la lamina lucida di questa fotografia, che ho paura di rovinare, a fare da testimone al mio ennesimo pomeriggio di studio, mentre fuori ancora piove, e smette, e piove, forte.
Non si sogna più da domani, ragazza della foto, o meglio da stanotte stessa: con giornate intere da gettare in pasto all’immaginazione, ed ore che a volte non accennano ad arrivare, tutto quel tempo sprecato a non stringere e non toccare niente, senza neanche che mi ricordi più un abbraccio, com’è fatto un abbraccio. E’ proprio una condanna nascere così, lo sai meglio di me, ogni cosa che si sfiora è sempre tanto fragile. Ogni cosa che ci sfiora è sempre tanto forte.
Promettimi, se puoi, promettimi che mi dirai sempre quello che pensi. Conosco già troppi silenzi difficili da tradurre, ragazza della foto, non darmene anche tu. Promettimi che se un giorno sparirai, e di te non farai sapere più nulla, mi darai un buon motivo per cui lo fai. Ma se puoi, non farlo.
Avevamo fatto un gioco, chissà se ti ricordi, su questa musica. Il suo andare e venire che per me era un abbraccio, e per te un addio. Piano. Forte. Tanto che vorrei portarla qui da quel tempo lontano, quella stretta, e potermela tenere in un cassetto per giornate come oggi. E avrei voluto. Ora non conta.
Non si sogna più da domani, se i sogni si controllano, ragazza della foto. Ma per stanotte, non ancora.


[Ludovico Einaudi - Le onde]

mercoledì 28 maggio 2008

"Il via vai della strada"

Quando guardo questa città, da un suo angolo a caso, vorrei non cambiasse mai. Fino ad ora, la sola cosa che si è modificata col tempo è la mia familiarità con lei e coi suoi marciapiedi, il nostro reciproco riconoscerci. Uno sguardo d’intesa, appena arrivata, con le tessere colorate.
Mi affaccio in tutti negozi e mi chiedo, nell’ordine: che serietà possa ispirare una ditta che produce bagnoschiuma di un’inquietante rosso-bacca-dei-puffi o viola-venerdì-santo, per di più orgogliosamente in bella vista in confezioni trasparenti; cosa mai possa spingere una persona sana di mente (che non abbia bauli di denaro da buttare dalla finestra) a comprare una penna Mont Blanc con brillantino incastonato e nome inciso sul tappo; perché la Feltrinelli abbia sempre quelle promozioni in bella vista, a causa delle quali devo ammanettarmi se voglio evitare acquisti inconsulti ed attacchi di libridine. Che poi, io e le librerie abbiamo una nostra convenzione privata per cui, appena compro un libro, due-tre giorni dopo lo si trova almeno col 30% di sconto.
In questo posto, a consumarmi le suole delle scarpe, non esiste più niente. È andata via ogni cosa, come le macchie dai vestiti, e l’unico alone rimasto è da qualche parte nella memoria, ma non si vede troppo. Stare qui ferma, seduta, potrebbe essere qualcosa di eterno, con le gambe di piombo e una sensazione di pietra nel resto del corpo. Sembra impossibile alzarsi dal muretto. Mi rendo conto dopo che sto sorridendo da sola, pensando ad un accento, una frase, una battuta di chissà quando, e rido così senza motivo, e lascio che il funzionario delle FS mi guardi perplesso, e non ho spiegazioni da dare.
Il modo di parlare delle persone mi rapisce, accade spessissimo. Posso sentire un racconto, un richiamo, un’invettiva, mi attira quella virgola di dialetto, il modo di pronunciare una lettera, l’ascesa o la discesa della frase. La parlata, come si dice da me, il regionalismo che rende uniche le persone. Rubo le espressioni in giro e me le conservo gelosa, sottolineo i loro svolazzi e le volute che fanno, le spirali che descrive qualche parola messa insieme, che se si potessero scrivere me le appunterei ma non renderebbero. Seduta sul muretto, continuo a prendermi le frasi degli altri, guardando le nuvole nere che arrivano... meglio qui che altrove, si potrebbe restare per sempre. In mezzo al rosso del laterizi e all’odore di autunno perenne.
Ma siamo in Emilia, e Bologna si affretta a ricordarmelo... soccmel, ho scordato l’OMBRELLO!


"É o projeto da casa, é o corpo na cama,
é o carro emguicado, é a lama é a lama
é um passo, é uma ponte, é um sapo, é uma ra,
é um resto de mato na luz da manha
São as aguas de março fechando o verao,
é a promessa de vida no teu coraçao"

sabato 17 maggio 2008

Il paese dei balocchi

I DIECI DIRITTI IMPRESCINDIBILI DEL LETTORE
1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente trasmissibile)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere

[Daniel Pennac]

Quando entro in libreria, dimenticate pure di avermi mai vista. Basta un passo, due al massimo, e niente di quello che succede in strada è ancora reale.
Quando entro in libreria, scompare l’orologio che seguono gli altri, affondo nella mia dimensione senza tempo in cui mi sento a mio agio e perfettamente accettata. Mi lascio rapire, condurre, ammaestrare dagli scaffali e dai banchi inondati di libri, non sono più la ragazza stanca dopo ore di lezione o con le spalle doloranti a causa dello zaino, ma mi muovo ipnotizzata da un capo all’altro della sala, senza volontà e con tutta la volontà. Annuso la polvere sulla carta, prendo qualche volume a caso, sfoglio, leggo, passo le dita sulle pagine, mi concentro su una frase quasi a volerla salvare dall’abbandono. A volte mi perdo. Giramenti di testa o un lieve malessere, simile a uno spavento annunciato, non riesco a focalizzare nulla. Quando accade, a curarmi è la libreria stessa: ho alcuni libri che forse non comprerò mai, ma che cerco con lo sguardo, in mezzo agli altri, come si cerca un amico in una folla di sconosciuti. Ad esempio, “Il bar sotto il mare” di Benni, che non so neanche di cosa parli, mi restituisce quel minimo sindacale di realtà indispensabile per stare bene.
Poi ci sono i libri che mi aspettano in prima fila, a ricordarmi la mia promessa. Si fanno vedere lì al loro posto, pazienti, pronti per il giorno in cui uscendo dalla libreria li avrò presi con me. “Memorie di Adriano” della Yourcenar è uno di questi, insieme a “Cecità” di Saramago e vari altri. Ogni tanto vado a salutarli, a prenderci un tè, e non accetterei mai che qualcuno me li prestasse, perché loro ci contano, sono già miei, e sarebbe un tradimento. Sono le uniche creature che possa andare a trovare con la certezza che vedermi gli farà piacere.
Quando entro il libreria, ho tentazioni più forti che davanti a un bancone di dolci, mi ci tuffo provando ancora lo stupore ingenuo di vedere un mondo che si rinnova senza perdere il suo passato. E si muove, e cambia, ha spazio per tutti, ma non lascia nessuno da parte. Una volta, sedute su due poltroncine della Feltrinelli di Bologna, Giulia mi disse: “Te lo immagini? Avere una casa così…”, ed io me lo sono immaginato. Ho guardato le pareti coperte dai volumi, il mare multicolore delle copertine, e ho chiuso gli occhi per lasciarmi trapassare da tutte quelle storie, idee, spiegazioni: “Sì, sarebbe bellissimo”. Sarebbe poter scegliere ogni volta qualcosa di nuovo e sconosciuto, avere la libertà di non saziarsi mai. Sarebbe, soprattutto, prendere un giorno un libro, e prestarlo a qualcuno. Regalarlo, se è una storia che amiamo, affidarlo alle cure di un altro, provare a metà con lui la gioia di averlo letto.
Perché è vero che la lettura è vigliacca: offre il riparo sicuro di non dover dire in chi ci siamo immedesimati, cosa avremmo voluto fare, la lettura è il confessore che non tradirà mai la lacrima che abbiamo versato o il sogno erotico che ci ha provocato. Una volta chiuso, il libro resterà in silenzio, e manterrà per sé quel filo che ci lega, il segreto che si svela solo se siamo noi ad aprirlo. Ma è vero altrettanto che dietro questa codardia di nascondersi nelle parole di uno sconosciuto, c’è anche la voglia irrefrenabile di essere scoperti, prima o poi. Di trovare qualcuno che abbia più coraggio di noi e ci riveli il segreto che divide con quel libro. E se è il nostro stesso segreto, eccola lì: la sensazione di aver trovato una bella persona, non solo una bella storia.
Buona lettura!



"La filosofia sembra che si occupi della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi di fantasie, ma forse dice la verità" [A. Tabucchi]

lunedì 12 maggio 2008

Uno stupido incubo

"Se mai hai avuto quindici anni sai
cos'è quel sogno detto America
l'hai marcato al tuo viso, nello sguardo deciso"


Non ho mai voluto andare in America. Cioè, in tutta quella parte di continente che va dalla Groenlandia alla Florida, che comunemente si chiama America. Così immisurabile, votata allo sperdimento, per me che già scompaio in una città di centomila persone. Sapere che c’è l’America, lo sconfinato fazzoletto di terra di là dal mare, mi fa sentire più stabile anche se non più protetta: mi fa paura il suo grigio da grattacielo, tanto quanto mi rassicura l’idea che tutta quella gente non sprofondi inghiottita dall’acqua. La mia America non ha un volto né un punto d’arrivo preciso, non è bianca né nera, è quella sorta di accadere indistinto di cui posso dimenticare, senza neanche assicurarmi che esista.
Le mamme forlivesi portano i bambini al parco. Leggono i giornali, si scambiano ricette e li sgridano se spingono gli altri giù dallo scivolo, come fanno le mamme che portano i bambini al parco. Io vorrei andare in Messico. Perù, Cile, Brasile, Nicaragua. Esserci nata, conoscere già le consuetudini, averne il colore sulla pelle. Per arrivare lì non mi basta certo un metro e cinquantacinque. Posso al massimo prendere una nave e aspettare per giorni, e vedere la terra all’orizzonte, prima di riaprire gli occhi. Come fa tutta quella gente ad esserci già stata, e come ha fatto poi a tornare indietro?
Stanotte ho sognato di essere inseguita. Non è la prima volta, anche se forse è meglio che sognare di cadere, com’è stato finora. Un inseguimento infinito, giù da un trampolino in una piscina che prima era vuota su un autobus tra i vestiti appesi in un mercatino da un bar all’altro con una bacchetta magica che non segue le mie formule di spalle davanti a una vetrina in un cantiere col pavimento sterrato su una strada senza curve in un centro storico su un cavallo scivolando sui sampietrini. Non arrivavo mai, né sapevo da cosa esattamente scappassi. Un uomo, credo. Una paura. Non lo so, certe cose nei sogni si danno per scontate.
Mi sono svegliata stanca e angosciata, con un sapore di sconfitta che ci è voluta mezza giornata a mandar via. Mi inseguono, chi mi prende per mano? Mi sparano addosso, chi mi avverte perché schivi i colpi? Chi mi fa cenno di entrare in casa, se mi vede passare trafelata? Nessuna sorpresa, neanche nei sogni. Non posso permettermi di guardare indietro. Indietro non c’è più niente. Corro. Quello che penso, non ho alcun diritto di dirglielo. Uno stupido incubo, era solo uno stupido incubo. Corro.
Domani butterò le lenzuola in lavatrice e per l’ennesima volta penserò che sto bene. Basta dimenticarsi, è lì la chiave di tutto, basta saper dimenticare e sapersi mentire. Prendersi per culo. Avere la faccia tosta di guardarsi allo specchio e dire che “comunque va tutto bene”. In realtà corro, ma non so neanche com’è fatta la salvezza alla fine della strada, se somiglia a un salto su una nave. Quasi certamente, dovessi passarci accanto, non la riconoscerò.
Ma poi a tutte le domande che ho sempre in testa, non è importante trovare una risposta: io so di essere così. Una che si segna sul calendario i compleanni, i posti in cui è stata, le ultime lezioni di ogni materia. Una che dall’indecisione ci mette una settimana a separare roba estiva e roba invernale. Una che puoi anche non rispondere, tanto poi ti cerca lei. Io sono una persona così: che ci pensi il giorno dopo e poi basta.


"Ho sognato una strada
che si ferma su un ponte
e che di là da un muro alto
corre l'orizzonte
Mi ci vorrebbe una scala
mi ci vorrebbe una luce
mi ci vorrebbe il coraggio
di dare una voce"


(E vi dico che aspetto l'angelo dall'orizzonte. Io sì.)

domenica 27 aprile 2008

"Fare tanta strada e arrivare qua"

Sono di ritorno, ancora. Sono stata fuori altri tre giorni, dopo i precedenti tre, e via dicendo, tanto che sopporto malvolentieri l’idea di dover restare qui per un po’. Ho sempre creduto che viaggiare fosse un muoversi momentaneo, che inizia con l’idea di dover finire, e che la cosa più importante fosse sempre avere una casa, da qualche parte, pronta ad accoglierci al ritorno. Mi sono resa conto invece, negli ultimi tempi, di quanto poco mi basti per stare bene in un posto. Non ho bisogno di appigli né di rifugi, non è necessario che abbia la certezza di un posto dove tornare. Mi basta solo passare il tempo con qualcuno con cui sto bene, ridere, guardarmi intorno, mi basta chiacchierare e scrivere e ascoltare musica. E per ognuna di queste cose, ovunque è perfetto. Non chiedo poi molto. Eppure non l’avrei mai detto, e mi stupisce accorgermene, mi lascia interdetta. Ho sempre amato stare comoda. Chissà se sono davvero cambiata, o sono solo leggermente più cosciente.
Penso a tutto questo con la testa affondata nell’acqua della vasca da bagno, nell’isolamento acustico e visivo completo. Mentre resto così, con il viso rivolto verso il fondo, la superficie liscia della vasca si sfrega contro le mie labbra e la punta del naso. Mi accarezza, muta. E mi fa pensare a tutti i difetti che si vedeva addosso, le tante imperfezioni che era capace di scovarsi, di cui ero così stupidamente innamorata. Le infinite meraviglie a cui ho confessato, per l’unica volta nella mia vita, che mi facevano impazzire. Io, ti rendi conto? Sono stata io. Così mi dondolo un po’ fra le immagini, con un mezzo sorriso, correggendo in ritardo ciò che avrei voluto dire. Aggiungo alle mie frasi quell’incisività e quella dolcezza che spesso l’emozione non è riuscita a rendere. Mi sembra quasi di poterglielo dire, piano in un orecchio, che non saprei immaginare una felicità più bella. E di non lasciarmi sola.
Ho letto un libro, da poco. L'ho fatto per metà con i miei occhi e per metà con i suoi, senza volerlo. Mi è sembrato migliorare ad ogni parola, e credo di aver pianto a pagine alterne, tanto da prolungare la lettura ripetendola infinite volte, con la scusa di aver visto le frasi appannate. A metà del libro, mi sono spaventata. Tutto ciò che vedevo in quelle righe mi sembrava troppo grande, troppo forte, troppo grave, come un mantello scuro che mi cadesse addosso fino a soffocarmi. Temevo di essere destinata alla vita che leggevo, ma soprattutto mi sovrastava tutto quello che imparavo dall'autrice, che tante volte avevo intravisto nel suo sguardo. Troppe volte, nel suo sguardo, come avevo fatto a non capire. Quando il libro è finito, non bastavano neanche più le lacrime. Sono tornata indietro, a quella pagina che conoscevo molto prima di leggerla da sola. Non bastava piangere, quando il libro è finito, non l'ho più dimenticato.
Poi il bordo della vasca mi ricorda quanto sia ingenuo da parte mia perdere tempo a rispolverare queste cose. L’acqua calda mi provoca sempre una specie di languore, e intorpidisce i miei pensieri, ma ora sono quasi brava a vederli da lontano. Come l’ultima parola che ho sentito, e l’ultimo gesto d’affetto. Sono quasi brava a guardarli come sono, piccole cicatrici che non hanno mai avuto una possibilità di espiazione.
Mi metto in piedi, e aspetto ferma finché quasi tutta l’acqua sparisce nello scolo. Dopo questa sorta di rito pomeridiano, giacché è la prima volta che - come dice Verena - “prendo una vasca”, ho tantissime cose a cui dedicarmi. E mi passerà presto di mente la sensazione ovattata di stare con la testa immersa nel calore, con i pensieri immersi nella testa, e tutta la pelle rapita dai pensieri.

"Troppo cerebrale per capire che si può star bene
senza complicare il pane
ci si spalma sopra un bel giretto di parole
vuote ma doppiate
Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo
e quando dormo taglia bene l'aquilone,
togli la ragione e lasciami sognare
lasciami sognare in pace"

martedì 22 aprile 2008

Aprile, pensieri

Ho canzoni come non le ha nessuno. La musica, tutte le sfumature. Sentire la musica.
C’è quella canzone che, quando inizia, io ho paura. Lo so già dalle prime note che basterà poco, un secondo mio di distrazione, e lei mi prenderà alle spalle. Mi scoprirà nel punto che fa più male, e userà le parole che io so e che non voglio vedere. Le parole che io so e che sono così enormi, e meravigliose, così infinitamente preziose. Una musica che inizia portandosi dentro tutti i miei segreti, e che mi piacerebbe se li tenesse per sé e li cancellasse da ogni altro luogo in cui li custodisco. Li conservi lei, glieli affido.
Ho quella canzone che è rimasta sotto la pelle perché da sola non l’avrei trovata mai. E l’altra, ancora, lasciata ad aspettarmi tanti di quegli anni, paziente come solo una musica può esserlo, con tutta l’eternità davanti. Ho una canzone che lo sapevo che ti amavo, ed una che ho dedicato a bassa voce, ne ho tante di persone che non lo sapranno mai. Tante che sono contenta che nessuno lo sappia.
Una canzone, una volta, trovata lì per caso quando nessuno la sentiva, che mi ha fatto capire. O mi ha lasciata in mezzo all’oceano come una donna bianca, fuori da una miniera, su una nave, mi ha dato una vita nomade, su un balcone di gerani. Mi ha lasciato in mano qualcosa, e sempre niente.
Ho canzoni (molto poche) che m’immobilizzano e mi chiudono gli occhi, che mi rendono l’aria leggera e faticoso il respiro, canzoni che accarezzano l’anima del mondo. Che non posso ascoltare troppo spesso, perché m’indeboliscono ogni slancio. Che hanno un colore tutto per sé ed ogni tanto poi, ogni tanto, sono loro e nient’altro. Mi fido della musica. Anche se ho paura.
Ho canzoni del partire, che spingono lo sguardo in avanti assieme a una chitarra o un motivo di percussioni; musiche del ritorno, malinconiche e dolci, prive di violenza, che trasformano in ebano e avorio la strada di casa.
Ho anche di quelle canzonette allegre da pulizie di stagione, da Alice guarda i gatti e i gatti girano nel sole, senza pensare troppo, ché oggi c'è buontempo e teniamo la porta aperta davanti alla primavera! Piccole canzoni d’infanzia, io le amo perché per prime loro hanno amato me, e le ucciderei per come mi hanno cambiata, e le perderei volentieri, le riascolterei volentieri.
Ho la canzone che dopo tanti anni sono ancora io, quel ragazzo.
Ho canzoni, io, che non posso più ascoltare.
Non ho mai avuto una canzone.

PS: E a lei che mi dice che fa freddo, che si sta meglio protetti da quattro mura, mi viene da rispondere che a volte bastano poche canzoni, o una sola, a farci correre fuori.

domenica 9 marzo 2008

Qualcuno con cui correre (-lettera allo specchio-)

"Non pretendo più di aver ragione
se parlo di vestiti e di carezze
le braccia lungo i fianchi farò cadere
pregare no, che non vorrei pregare
pregare no, che non vorrei pregare"


Caro Pinko,
oggi cercavo una figura maschile a cui scrivere una lettera, e mi sono divertita a pensare di mandarla a te, visto che noi due abbiamo sempre parlato e non ci vediamo da diverso tempo.
Ti penso sotto al tuo albero, quando sogno di casa mia, con i tuoi occhi buoni e quell’invadenza da giocherellone. Scrivo a te con parole mute, che non usciranno di qui, che non sapresti leggere. Per dirti di me, per chiederti scusa, perché sei passato anche tu nei miei anni e sei andato via. Per nessuna ragione precisa, come vedi, ma questo non ti importerà: fa’ come se ti stessi parlando, tieni la testa sulle mie gambe, lasciati accarezzare e addormentati pure... io non me la prendo!
Ti sembrerà strano, Pinko, ma ho sentito tante volte la tua mancanza, non credere che ora non pensi a te solo perché le mie attenzioni erano così rare. Quando ti slacciavo il collare, combattendo con gli scossoni del tuo scodinzolare, immediatamente ti davi ad una corsa sfrenata, a perdifiato per i campi. Esploravi, annusavi, abbaiavi per l’eccitazione e ti si perdeva lo sguardo per quanto ancora c’era da scoprire. Amavo vederti correre così, era quasi liberare qualcosa anche di me, sentire che ti stavo regalando delle ore bellissime sapendo che poi, sempre, saresti tornato. Assetato, affamato, sporco, stanco, pieno di gratitudine. Se fossi stata più grande, Pinko, se avessi saputo...
Se avessi saputo quanto so ora, avrei capito che quella corsa impetuosa valeva più di tutto il resto, dei piccoli divieti e delle tue impronte sul pavimento. E ti avrei lasciato correre. Se avessi saputo quando so ora, mi sarei lanciata con te ridendo, e senza limitazioni, avremmo giocato! Sì, ho sbagliato, come in tanti altri casi, perché non ero matura abbastanza e troppe cose mi sfuggivano. Ho fatto errori a iosa, e lo sai, mi brucia ammetterlo; ma credo che capire di averli commessi sia già sintomo di un miglioramento che, con dolore o di nascosto, lentamente avviene. O forse, dovrei dire di un cambiamento: migliorare con gli anni è proprio del vino e non sono sicura di poter dire lo stesso di me e del mio carattere.
Sono stata spesso, negli ultimi tempi, quanto non ho mai amato. Se ricordi un po’ la bambina che ero, avrai presente quella piccola combattente convinta di saper affrontare ogni imprevisto, poter sollevare ogni peso, arrivare correndo ovunque desiderasse. Contavo molto su di me e sulla mia impenetrabilità, sul controllo che esercitavo in ogni situazione: pensavo che mi avrebbe portato a fare scelte giuste, come succede nei film, come Lady Oscar. Credo invece di aver paura della fragilità che mi riconosco ultimamente. Vorrei ricostruire il mio bel muro di cinta, sentirmi superiore ad ogni debolezza e andare per la mia strada, come se nulla fosse. Ma non è così semplice. Nel momento in cui mi sono detta che tutto era cambiato, che volevo cambiare anch’io, il mondo ha fatto retromarcia; ed ora sono quella che il sabato mattina resta nel letto fino a mezzogiorno. Dopo dieci ore di sonno, capisci bene, è un rifugio da vigliacchi, come una sigaretta. Non credevo che il tempo potesse portarmi tanto lontano da ciò che volevo essere, ora avrò bisogno di altro tempo per recuperare, ma sarebbe opportuno che mi dessi una mossa perché non mi aspetta nessuno.
Li riconosci? I miei pugni chiusi sul muretto. Non farei male a una mosca, anche se anni fa i maschi mi temevano perché sapevo fare a botte. Forse mi hai anche vista qualche volta, mi hai vista che cadevo e non dicevo niente, che mi vergognavo, che mi incazzavo con tutto. Mi vedi adesso: negli occhi, le stesse rigidità e morbidezze, le fissazioni, le mie esagerazioni. Me lo chiedo e me lo chiedono, “Perché devi sempre esagerare?”, ma io non ne ho idea. Mi piacerebbe trovare un equilibrio che non sia messo in discussione, non a tempo indeterminato, questo no, ma almeno un poco. Mi piacerebbe non girare così tanto attorno a pensieri semplici fino a renderli distruttivi, poi sono esausta e stufa e insofferente. E ciò di cui ho paura accade sempre, precipitevolissimevolmente.
E’ capitato in altri casi che fossi stanca di una condizione, te ne ricordi, e per scuotermi pensavo che bastasse trasformare in pochi gesti e pochi giorni un’immagine di me diventata polverosa. Adesso mi sono tagliata i capelli, per nausea della mia faccia, e seppure mi sento più a mio agio il corso delle cose prosegue identico a prima. Cosa c’era da aspettarsi, Pinko? I miracoli sono persone e non accadono mai troppo spesso.
Vorrei che mi arrivasse qualcosa di buono. Niente di bello, di nobile, di sorprendente, ma un qualunque evento spoglio, che abbia la consistenza e l’accoglienza del pane caldo, la tangibilità, la solidità. Vorrei del buono, nulla più. Alla fine, come recita il buon Salinas nella poesia che sappiamo bene, “io non sono che quello che sono”.
Ho mal di testa dal tanto piangere, Pinko, ma non voglio più scriverti niente di triste. E l’unico modo per riuscirci, tu non me ne vorrai, è smettere di scrivere.

Ancora una carezza amico mio, corri quanto desideri, non farti frenare da nulla. Ciao piccolo!


"Sarà il destino che splende e poi riscende
tutto questo rumore che si sente
acqua libera che sempre si spande..."

domenica 2 marzo 2008

Dedicato

"A chi ha cercato la maniera
e non l'ha trovata mai
alla faccia che ho stasera
dedicato a chi ha paura
e a chi sta nei guai..."


A quelli che si presentano con mezzora di ritardo agli appuntamenti, a quelli che “veramente non lo so, può darsi”, a chi ha fatto le volte di questa casa così alte. Alle lettere mai scritte, a quelle che avrebbero fatto meglio a restare nei cassetti, a quelle che invece dovevano partire. Ai collant troppo piccoli, ai maglioni che non hanno la XS, a tutta la roba che non faccio che mettere a posto per poi ritrovarla sparsa per la stanza. Agli ultimi tre mesi e mezzo che non sono ancora finiti. A quelli che ti urtano per strada senza mai chiedere scusa, come se non ti vedessero; alle biciclette che ti tagliano il percorso, al bar che ha aumentato il prezzo delle brioche, ai tacchi alti e alle scarpe strette. Ai termosifoni spenti, alle parole cattive e immeritate che sono e saranno dette, alla volontà e all’emozione che distorce le cose e impedisce di vedere. Al pavimento della cucina, che ci si mette un’ora per lavarlo ogni volta e non sembra mai pulito. Al nervosismo da sindrome premestruale. A tutte le volte che ho camminato per strada a testa bassa, alla nebbia che mi è penetrata nei vestiti, nei capelli e nei pensieri, ad ogni singolo momento in cui ho pensato che non valevo niente, che non volevo dare niente a nessuno, che non dovevo alcuna spiegazione. All’odore di candeggina sulle mani, ai messaggi senza risposta, al colore rosa antico e alla pasta che non si cuoce. A coloro che sono convinti di possedere la verità sulla vita e sull’amore, poiché non gli si darà mai torto, ma a volte si avrebbe un moto orgoglioso di rivolta. E si farebbe bene, a volte. Al silenzio che non posso gridare. A tutti i paletti che mi sono sempre stati imposti. Agli occhi gonfi, alle pretese, al mio letto nuovo che non arriva, a quello vecchio troppo scomodo.
E soprattutto: al mio stramaledetto ininterrotto pensare.
A tutto questo, il mio più cordiale e sincero VAFFANCULO.

"Ai miei pensieri
a com'ero ieri
e anche per me"

lunedì 25 febbraio 2008

"In te brasse d'unna möæ" (tra le braccia di una madre)

«Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.»

Stazione di Forlì, mercoledì 20 febbraio

Sono ripartita senza voler capire troppo. Non mi sono guardata intorno, ma col borsone in spalla sono ripartita, chiedendomi in gran segreto perché non può salvarmi un treno? Un treno. E’ un rischio, ho pensato, un azzardo davvero, tante ore in subbuglio tra un posto e l’altro senza dover camminare e con una tale libertà di guardarmi in faccia. E comunque, mi toccava andare: sono andata, tirandomi dietro la capacità di parlare come ci si tira dietro quei giocattoli con le cordicelle.

Day Hospital di Pediatria IV, Padiglione 16 o corridoio rosa, Istutito Giannina Gaslini

In sala d’attesa, mentre la dottoressa tarda a venire, sento una bimba che piagnucola stretta a sua madre, perché non sa ancora quanto sia innocua una radiografia. Non riesco a spiegarle niente, mi chiamano nell’altra stanza, così provo a lanciarle un sorriso timido, prima di chiudermi la porta alle spalle. E lei mi risponde, dall’alto dei suoi novanta centimetri, con una simpatia irrefrenabile negli occhi: l’ho vista poco dopo che sorrideva ancora entrando dal radiologo.
Hanno capito tutto, i bambini, prima di iniziare a non capire niente. Ho raccolto negli anni mille delle loro storie, a volte me le hanno raccontate al posto loro, altre volte si sono fatti capire con molto meno di una parola. A volte li ho ritrovati a distanza di tempo, altre volte non ci si è incrociati più. I genitori hanno bisogno che tu descriva, che spieghi loro cosa succede e quando, che riduca alla normalità cose che sembrano inaffrontabili, per rassicurarsi; ti danno tutti i dettagli, dall’emocromo in poi, senza sapere che presto li dimenticheranno tutti perché saranno troppi, troppi miliardi di dettagli. Ma da quegli adulti preoccupati, per quanto siano precisi nei particolari e per quante cose ti chiedano, non ricevi mai la storia vera e completa: quella ce l’hanno i bambini. Devono solo guardarti bene in viso, magari vedere se ti va di fare un gioco... e sanno benissimo chi sei, lasciandoti vedere cos’hanno (mica hanno paura, tzè). Un passo sghembo, un capriccio più del dovuto, una domanda troppo silenziosa, un leggero gonfiore, sono quello da cui li riconosci (altre cose sono fin troppo evidenti), e non devi star lì a convincerli di quanto sono bravi i medici, accoglienti i reparti, all’avanguardia la struttura: sanno perfettamente se stanno bene o male. Sono capaci persino di consolarti, loro, che li prenderesti uno per uno e li terresti a dormire tra le braccia sperando ingenuamente di guarirli. E invece ti accontenti di lasciarti stringere la mano dai più piccoli, di aiutarli a prendere un giocattolo dallo scaffale alto, e di posare di tanto in tanto un sorriso qua e là. Ma vai via con la tranquillità di chi ha dato loro il possibile, perché hanno capito tutto, i bambini. Quel sorriso lo trovano, ovunque tu lo nasconda.

Spiaggia di Boccadasse, venerdì pomeriggio
Se vivessi qui, sai? sarebbe tutto passato. Starei bene adesso, domani, altri giorni ancora. «Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano.»
C’è tutto questo mare, tanto mare, un confine adatto ad ogni cosa, una fine non definitiva ma morbida, sfumata, una possibilità. Si parte dal mare. Al mare si finisce. Qui entrambe le cose, non c’è chiarezza né disorientamento, non c’è continuità ma una confusione precisissima.
Se sfili le scarpe arrivi a toccarlo, freddo ancora nonostante la primavera intorno. E se ti addentri per i vicoli non lo vedi nemmeno, sembra scomparso col suo sollievo, come non ci fosse mai stato, eppure lo senti – tu lo senti – che c’è il mare. Non il rumore né la forma né l’odore: l’aria. C’è il mare qui, e c’è perennemente, non riposa, non si nega, resta. Aggredisce e si offre da spettacolo, ma mai esisterebbe questo posto senza le sue rive. Giurerei che questa terra non finisce mai, mentre il mio tempo qui è così ridotto. Finalmente si placano anche loro, quei pensieri insistenti e senza scopo, stanno zitti. Riesco a non ricordare più, a non immaginare. Persino, non rimpiango: sto zitta anch’io, e guardo. E se scegliessi di non partire più?
No. Non lo faccio comunque. Ciò che mi resta da sperare è che l’aria – questa precisa incomprensibile aria – me la porti dietro. Accanto. Che me la porti dentro. E che sia lei, come già è stata in un tempo antico, la mia salvezza.
«Il pazzo continuò a correre, ma verso il largo, finché non lo si vide più, reperto scientifico sfuggito alle statistiche dell’accademia medica e consegnatosi spontaneamente al ventre dell’oceano mare»

martedì 29 gennaio 2008

Playing love (-eri tu-)

Era un minuto che non finiva mai. Le mani strette, una sensazione liquida e prepotente, calda, un’invasione. La scomparsa delle domande, il buio e un leggero brivido veloce, ovunque. Non chiedermi cos’era, perché io lo ricordo così bene che userei parole a milioni, come sai. Invece non era niente. Eri tu.
Erano tue le parole non tue della tua grafia, nera, aperta, accogliente. Eri tu un passo piccolo, un abbraccio lunghissimo alla luce del sole, un pugno sulla testa perché sono ostinata e non capisco, ma ridendo. Ridere col naso arricciato, come un timido solletico su tutta la pelle.
Eri tu una corsa. Cento corse senza fiato, senza avere realmente paura di non fare in tempo, perché non contava fare in tempo dopo averti lasciato. E ancora eri una corsa per le scale, e un salto di gioia, e musica. Eri tutta la musica, che ti giocava addosso portandoti lontano o lasciandoti tra le mie braccia. Sulle tue dita svelte, sui capelli, eri la musica che “impazzisce di bellezza”. A cui non osavo avvicinarmi cantandola io.
Che non eri solo allegria, questo sì, questo lo so. Ma per me eri un unico pianto, uno solo, senza parole. Eri il pianto che la mia spalla ha provato ad arginare, che ancora mi commuove per la tenerezza di averlo potuto racchiudere intero, un pomeriggio presto, che ti avrei portato via subito, adesso, con me. (Ma come dirtelo?). E poi tutto il tempo tu sorridi. Io ti guardo spaesata, e non penso. Non ho le parole giuste.
Eri tu se ho avuto paura. Eri la parola che mi ha fatto sentire viva, d'improvviso, eri “resta, resta qui”. Ed eri quello che ho trovato, per caso, una sera, mentre già pensavo di andare a letto. Mentre capivo qualcosa di colpo per poi accorgermene mesi dopo. Ma chissà se lo sai.
Tu eri quando guardavamo in alto, senza sapere esattamente come stavamo, cosa eravamo, se stesse per nevicare. Avevo il tempo contato, pur sapendolo con anticipo. Ed alla fine di quel tempo, tu eri avvicinarsi ancora un secondo, per un bacio sulla guancia, prima di andare via l’ultima volta.

Perché non sono riuscita a fermarti un attimo di più? E se eri veramente tutto questo (e lo eri, e tantissimo altro), dove sei? Così altrove che temo di avere immaginato. Dove sei?
Non importa. Perché in ogni caso, alla fine di quel tempo troppo breve, hai scelto di andare via. Ed è una solitudine priva di senso continuare a pensare a quando eri tu. A quando ti guardavo, semplice, impazzire di bellezza.

martedì 22 gennaio 2008

Vittimismo: effetti collaterali

“Tristezza” è una parola che non ce la fa ad uscire intera. Arriva verso la “e” e si chiude in gola, si ripiega e rotola giù, si fa inghiottire. Amara.
Tristezza è l’unica cosa che mi stia cucita addosso. E’ la soluzione a qualunque domanda che abbia a che fare con un – Come stai? – anche chiesto per caso. Non ansia, né paura, desiderio, non più: tristezza desolata. E voglia di non volere niente.

Non ho ancora appeso il calendario nella stanza di Forlì. Le sue pareti sono rimaste semivuote, come fosse per me uno sforzo enorme attaccarci qualunque cosa. Era un venerdì pomeriggio, quando ho tirato tutto a lucido e messo su qualche cartolina, poi non ho avuto più il tempo, la voglia, o forse... la motivazione. Come se non fossi degna neanche di avere del colore sulle pareti. Come se questa tristezza mi rendesse colpevole, e chiunque per strada si rendesse ora conto che non sono più che uno spostamento d’aria. Niente di più di ieri.
Mi trascino dietro, camminando, una vita sgualcita e maltrattata, che non ha conosciuto tanto male, certo, ma ha saputo perfettamente come illudersi, prima di schiantarsi contro la verità. L’ho tenuta così ferma, così inquadrata e attenta ai doveri, timorosa di far male, indecisa e preoccupata di aver detto una parola di più. L’ho tenuta così salda nelle mie mani da dover scoprire solo adesso di non conoscerla bene, di non aver mai capito di cosa avesse bisogno. Un bisogno disperato. Sono stata troppo cieca, per questo tutto mi è sembrato una luce fortissima, un improvviso chiarimento. La spiegazione che stavo aspettando, da una voce che non aspettavo tanto bella. La voce migliore che esistesse.
Eppure adesso, poiché la voce tace, io non vedo l’ora di tornare alla mia cecità stropicciata. Sono vuota di luce per tutti, e vorrei non chiedere amore, non saper amare. E non leggere, e non pensare. Vorrei farmi piccola sotto le coperte e svegliarmi tra due mesi, due anni, due decenni. Non avere altri esami su cui dovermi concentrare, sono tutti così difficili, ho già fatto un miracolo per i precedenti, non ho più niente, basta per favore. Basta, fermate tutto, continuo dopo. Per favore.
Ma non posso. E mi regalo soltanto, per qualche istante almeno, la libertà di essere inadeguata, di lamentarmi, di sentirmi dimenticata da tutti e sola, debole. Voglio che il mio tempo sia debole dichiaratamente. Insignificante. Che si immerga senza freni nella tristezza che ha, perché far finta che non ci sia non serve, non viverla fino in fondo sarebbe un’occasione persa. O almeno, questa è una buona scusa. Per tutte quelle pieghe. Per essere finita vittima di me stessa.
Molte persone mi parlano, a molte io parlo, ormai priva di argini. Da ognuna di queste vorrei precipitarmi, a tutte vorrei chiedere un abbraccio, lungo, caldo, senza fretta. Qualcuna poi usa le parole giuste, so che capisce tutto, e perfettamente.
Nessuno però sa che abbaglio ho preso. Nessuno sa quanto sia stato forte. E quanto non sia esistito mai. Se non. Tutto. Dentro di me.

E lei cos’ha da guardare, signora? Non ha mai visto una persona piangere all’uscita del supermercato?


Le storie credute importanti
si sbriciolano in pochi istanti:
figure e impressioni passate
si fanno lontane e lontana così è la tua estate

E vesti la notte incombente
lasciando vagare la mente
al niente temuto e aspettato
sapendo che questo è il tuo autunno
che adesso è arrivato.

sabato 19 gennaio 2008

Dal silenzio la tua voce (Paola Turci)

“Non esitare, vieni ed abbracciami
nonostante i miei silenzi
abbracciami”


Come se avessimo un’intesa segreta, io e questa voce, che non si racconta a nessuno e non si iscrive in un fan club. Smuove qualcosa che non so di avere, al fondo del petto, solleva. Come se stesse parlandomi all’orecchio, per quanto atroci siano le parole che usa (ti aspetterò, ti prenderò come un sorriso...) le sopporto senza singhiozzare, per una volta, quasi cullata amorevolmente da chi mi dice aspetta, da chi mi dice sta’ calma, passerà.
E’ stata una giornata così. Che poteva andare meglio ma ha preferito buttarsi sul letto e pensare troppo, com’è abituata. Si è tormentata di nuovo, da sola, come sempre. E questa voce adesso, che è tardissimo e dovrei dormire da ore, viene a tendermi la sua mano estranea a tutto, delicata e violenta. Viene a dirmi che non sa niente di quello che è successo, che non le importa. Mi racconta di mesi passati, quando si cantava insieme a casa mia, io e lei, quando le ho divorato dischi e ho passato pomeriggi interi con la stessa canzone. “Non avveleniamo la dolcezza che ci resta” mi dice, non preoccuparti, lo vedi che hai ancora qualcosa che non appartiene a nessun altro? Non sa, questa voce, che è stata spedita un giorno di sorpresa perché non fosse più solo mia, perché andasse a conoscere un’altra storia e la consolasse, perché l’avvolgesse e le rimanesse in mano, come qualcosa di nostro. E non so io cos’ha fatto, questa voce con il suo tocco, quando è arrivata lì, né se ha preso la forma di quel viso e di quella storia come un giorno ha preso la mia. Se almeno una volta li ha accarezzati.
Ma oggi ci riconosciamo, noi due, senza esserci mai viste. E lei mi riporta da me, dandomi del tu, con un sorriso confidenziale. Mi parla da donna fissandomi come negli occhi, sale e lentamente discende, usa cautela e timidezza, fa piano, m’invita. Dallo scaffale e dalla scrivania, dal cioccolato con la carta rossa. Da tutte le pagine che ho lasciato bianche per non saper più scrivere. Ruvida e tenera, mi parla. Mi chiede di non pensare, di ascoltarla soltanto, non mi chiede niente e mi dà ciò che non merito. Mi cancella dalla mente un viaggio a Genova, uno a Londra, a Parigi e in giro per la Francia, vent’anni di inesistenza, gli scogli.
Viene di nascosto un giorno che non me lo aspettavo, un giorno di ascensori e pianti, che ero sicura di non meritare niente. E resto rapita dalla stessa voce che mesi fa volava come un pensiero di strada. Che adesso viene ad abbracciarmi, unica al mondo, prima che chiuda gli occhi, sperando in cuor mio che domani ci sia ancora lei a darmi la buonanotte. Sperando, in cuor mio, di dimenticare tutto, per questa notte almeno.


"Ricordami di quel profumo che tu amavi
di arance e di rose, di amore eterno
Ricordami l’ingenuità disarmante
la dolce illusione di una promessa...
Non siamo qui, noi siamo altrove
è più facile dimenticare"

domenica 13 gennaio 2008

Stelle cadenti e stelle polari (-a Dawson-)

L’ultima volta che ho scritto su di te facevo il secondo superiore, e presi otto e mezzo. Credo di aver messo nel tema una serie di stupidaggini romantiche, al mio solito, e pochi giorni dopo al telefono non sapevo neanche raccontartele (perché io al telefono non sapevo parlare, ricordi?), ma evidentemente alla prof andavano bene anche quelle.
Avrei voluto scriverti, in questi giorni, una lettera bellissima, di quelle che si rileggono mille volte e si sgualciscono a furia di portarle con sé, di aprirle e richiuderle. Avrei voluto tirar fuori la grafia migliore e la carta arancione, non far cadere neanche una frase nella banalità, regalartela con un bacio perché la tenessi in valigia, sull’aereo del 18 gennaio. Se bastasse l’intenzione, quella lettera ce l’avrei pronta in mano da tempo, ma io non sono capace di una cosa così bella. Butto solo giù qualche pensiero, che è il mio saluto per te fino a nuovo ordine.

La mia migliore amica non è mai esistita, non ho avuto questa fortuna. Ne ho avuta una molto più grande, in una pineta di Castellaneta Marina a luglio di dieci anni fa: uno scambio di indirizzi per gioco, perché ti era presa la fissa degli “amici di penna”, e cosa potevo saperne io? Che dopo quel telescopio c'era altro...
Non mi metto a raccontare tutto né a definirti nella mia vita, non renderei mai quello che è il nostro rapporto, quello che è stato, quello che è tornato ad essere, quello che era anche quando sembrava mancare. Sapresti farlo, tu, attore dei miei stivali? Linguaccia
Dawson, è stato difficile averti vicino. Ci siamo “scritti” crescere (vedere ci vediamo sempre poco, troppo poco!), ci siamo spaventati: non ho neanche bisogno di rileggere le lettere per rendermi conto di quanto ci siamo scambiati, spiegati, offesi, preoccupati. Quanto spesso ci siamo mancati. E per questo poco tempo fa, quando ho pensato di non conoscerti più e vedevo in te uno sconosciuto, ho avuto paura... non sopportavo di averti seduto accanto e non sapere più a cosa stessi pensando, cosa volessi fare e come ti sentissi. Peggio: c’era una sorta di continua sfida nello sguardo, e rabbia, per non capire, per non riuscire a tirare il fiato e parlare. Quanto devo averti irritato, quanto ero arrabbiata io! E quanto sollevata poi, e quanto tempo ci è voluto, per tornare sulle stesse corde!
Abbiamo parlato delle più svariate cose (te lo ricordi il periodo Carmen?) e ovviamente abbiamo dimenticato le più importanti. Ma anche a distanza di tempo le parole sono tornate, così che non c’è stato bisogno dei riassunti delle puntate precedenti, per quanto straordinari fossero i cambiamenti delle nostre vite: la stessa cosa è capitata ad entrambi nello stesso momento, abbiamo potuto solo restare lì sorpresi e perderci nei dettagli, svuotare i segreti, darci entusiasmo a vicenda. Quando non ne ho avuta più, di energia positiva, il pensiero di averti a due passi è stato una sorta di paracadute. E credimi, questo mi mancherà, adesso più che mai.
Mi hai giudicato raramente e capito quasi sempre, mi hai lasciata piangere a volte e fatto smettere altre, mostrato maschere, aspettata. Mi hai presa in giro, anche, sei stato insopportabile, hai ripreso a fumare e mi hai lasciata da parte. L’unico a cui ho detto delle cose, il primo per alcune, capace di ignorarmi o di darmi un’importanza che non spero mai. E poi hai avuto pazienza, molta. Quando non ti parlavo, quando una lettera si faceva aspettare mesi, da Genova; quando hai sopportato i complessi adolescenziali più paranoici della storia, le gelosie mie ed altrui; quando mi hai accompagnata alla fermata di un pullman che mi portava da qualcun altro.
Siamo legati da fili di parole, a inchiostro nero sul primo foglio trovato in giro oppure regalate a profusione dalla voce raccontando, commentando, ridendo della qualunque: il nostro parlare è parlare per dire, che non cerca niente e raramente chiede, è solo scambiarsi le rispettive vite e vedere cosa ne vien fuori. Come sul terrazzo di casa mia, in estati diverse, cercando sempre per finta una stella cadente: “Cosa sai tu? Cos’hai capito?” “Non so niente, ma vedo che c’è qualcosa e non me ne parli”. Non hai dato consigli se non sapevi darli, né li hai chiesti, e se si può definire ricchezza la conoscenza di una persona, la mia lo è sempre quando ho a che fare con te.
Molto di quanto vedo in te, vorrei averlo io. Perché ammiro la persona che sei.

A questo punto tu diresti: “Mena Lù, non è che sto partendo in guerra!”… ahò, ma volevi andartene così impunito? Fammele fà ‘ste cose ogni tanto, sennò mi sento inutile! ... Non riesco a scrivere niente di meglio, non adesso, e tu come sempre avrai pazienza e aspetterai il ritorno delle parole. Ma credo che il messaggio sia chiaro: Dawson Leery, con la presente ti ordino di restare nella mia vita e non azzardarti a sparire non appena diventi famoso! Ché io, sappilo, ho ancora delle lettere assurde in buste assurde (stelle polari e via dicendo!) con cui posso agevolmente ricattarti!
Ti voglio bene. Ti voglio bene. Ti voglio bene.
Buon viaggio, ci vediamo a Barça! Bacio.

“Era un uomo così
ma con delle possibilità
… lo so, io”

giovedì 10 gennaio 2008

Prove di volo

Ho messo insieme le mie ali di piume e cera che era estate, e il calore ingentiliva l’aria intorno. Le ho modellate con le mani piccole che ho, le mie mani da bambina, e mi sono assicurata che fossero solide: solo una volta convinta le ho messe su. Dio mio, erano stupende, e leggere! Sono loro che hanno realizzato il mio sogno di sempre, quell’ingenua aspirazione al volo... una cosa tanto stupida, ma che ho desiderato per anni, che è arrivata quando la semplicità dell’infanzia era scomparsa e mi aveva fatto rassegnare all’idea di camminare e basta. Sulla terra.
Quando il sole me le ha sciolte, subito dopo, sono caduta in acqua come tutti. Ho annaspato per giorni interi, dimenandomi ferita, senza capire dove fossero finite le mie ali, ancora accecata dalla luce che mi aveva offuscato la vista. Solo più tardi ho visto che le piume mi galleggiavano intorno, ché non avevano retto abbastanza: bello scherzo. Mi sono ricordata di saper nuotare.
In fondo non credo di annegare, anche se più volte mi fermo indecisa sul da farsi, se valga la pena, in che direzione andare. Vado sott’acqua, mi immergo nell’effetto di vuoto delle orecchie ovattate, del bagnato sulle guance... risalgo e ricomincio a spostarmi: vedo la terraferma, in lontananza, ed è lì che quasi sempre mi dirigo.
Ma quella spiaggia, tristemente, non è altro che un ritorno. Indietro. A come ero prima che l’estate scoppiasse, che il mondo girasse al contrario e decidessi di arrampicarmi sulla roccia più alta, da cui ho provato a spiccare il volo.
Passo ad occhi chiusi metà delle mie giornate: nuotare stanca il fisico e acuisce le fantasticherie. E mi volto spesso a guardare il sole lì distante che continua a regalarsi generoso, lui che rendeva vive le cose e arrossava le guance, che addolciva con le parole, illuminava gli occhi, apriva le braccia.
Quel sole, che era troppo bello per essere mio.




- ¡Claro! Yo iba como un barco temblando en sus palabras.
Los párpados del poeta se despegaron lentamente.
- «Como un barco temblando en mis palabras.»
- ¡Claro!
- ¿Sabes lo que has hecho, Mario?
- ¿Qué?
- Una metáfora.