lunedì 25 febbraio 2008

"In te brasse d'unna möæ" (tra le braccia di una madre)

«Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.»

Stazione di Forlì, mercoledì 20 febbraio

Sono ripartita senza voler capire troppo. Non mi sono guardata intorno, ma col borsone in spalla sono ripartita, chiedendomi in gran segreto perché non può salvarmi un treno? Un treno. E’ un rischio, ho pensato, un azzardo davvero, tante ore in subbuglio tra un posto e l’altro senza dover camminare e con una tale libertà di guardarmi in faccia. E comunque, mi toccava andare: sono andata, tirandomi dietro la capacità di parlare come ci si tira dietro quei giocattoli con le cordicelle.

Day Hospital di Pediatria IV, Padiglione 16 o corridoio rosa, Istutito Giannina Gaslini

In sala d’attesa, mentre la dottoressa tarda a venire, sento una bimba che piagnucola stretta a sua madre, perché non sa ancora quanto sia innocua una radiografia. Non riesco a spiegarle niente, mi chiamano nell’altra stanza, così provo a lanciarle un sorriso timido, prima di chiudermi la porta alle spalle. E lei mi risponde, dall’alto dei suoi novanta centimetri, con una simpatia irrefrenabile negli occhi: l’ho vista poco dopo che sorrideva ancora entrando dal radiologo.
Hanno capito tutto, i bambini, prima di iniziare a non capire niente. Ho raccolto negli anni mille delle loro storie, a volte me le hanno raccontate al posto loro, altre volte si sono fatti capire con molto meno di una parola. A volte li ho ritrovati a distanza di tempo, altre volte non ci si è incrociati più. I genitori hanno bisogno che tu descriva, che spieghi loro cosa succede e quando, che riduca alla normalità cose che sembrano inaffrontabili, per rassicurarsi; ti danno tutti i dettagli, dall’emocromo in poi, senza sapere che presto li dimenticheranno tutti perché saranno troppi, troppi miliardi di dettagli. Ma da quegli adulti preoccupati, per quanto siano precisi nei particolari e per quante cose ti chiedano, non ricevi mai la storia vera e completa: quella ce l’hanno i bambini. Devono solo guardarti bene in viso, magari vedere se ti va di fare un gioco... e sanno benissimo chi sei, lasciandoti vedere cos’hanno (mica hanno paura, tzè). Un passo sghembo, un capriccio più del dovuto, una domanda troppo silenziosa, un leggero gonfiore, sono quello da cui li riconosci (altre cose sono fin troppo evidenti), e non devi star lì a convincerli di quanto sono bravi i medici, accoglienti i reparti, all’avanguardia la struttura: sanno perfettamente se stanno bene o male. Sono capaci persino di consolarti, loro, che li prenderesti uno per uno e li terresti a dormire tra le braccia sperando ingenuamente di guarirli. E invece ti accontenti di lasciarti stringere la mano dai più piccoli, di aiutarli a prendere un giocattolo dallo scaffale alto, e di posare di tanto in tanto un sorriso qua e là. Ma vai via con la tranquillità di chi ha dato loro il possibile, perché hanno capito tutto, i bambini. Quel sorriso lo trovano, ovunque tu lo nasconda.

Spiaggia di Boccadasse, venerdì pomeriggio
Se vivessi qui, sai? sarebbe tutto passato. Starei bene adesso, domani, altri giorni ancora. «Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano.»
C’è tutto questo mare, tanto mare, un confine adatto ad ogni cosa, una fine non definitiva ma morbida, sfumata, una possibilità. Si parte dal mare. Al mare si finisce. Qui entrambe le cose, non c’è chiarezza né disorientamento, non c’è continuità ma una confusione precisissima.
Se sfili le scarpe arrivi a toccarlo, freddo ancora nonostante la primavera intorno. E se ti addentri per i vicoli non lo vedi nemmeno, sembra scomparso col suo sollievo, come non ci fosse mai stato, eppure lo senti – tu lo senti – che c’è il mare. Non il rumore né la forma né l’odore: l’aria. C’è il mare qui, e c’è perennemente, non riposa, non si nega, resta. Aggredisce e si offre da spettacolo, ma mai esisterebbe questo posto senza le sue rive. Giurerei che questa terra non finisce mai, mentre il mio tempo qui è così ridotto. Finalmente si placano anche loro, quei pensieri insistenti e senza scopo, stanno zitti. Riesco a non ricordare più, a non immaginare. Persino, non rimpiango: sto zitta anch’io, e guardo. E se scegliessi di non partire più?
No. Non lo faccio comunque. Ciò che mi resta da sperare è che l’aria – questa precisa incomprensibile aria – me la porti dietro. Accanto. Che me la porti dentro. E che sia lei, come già è stata in un tempo antico, la mia salvezza.
«Il pazzo continuò a correre, ma verso il largo, finché non lo si vide più, reperto scientifico sfuggito alle statistiche dell’accademia medica e consegnatosi spontaneamente al ventre dell’oceano mare»