sabato 31 maggio 2008

Piano. Forte.

Dove sarai adesso, ragazza della foto? Con quegli occhi così grandi, cosa starai guardando? Una città non troppo lontana, forse, di là dalle montagne o da una ferrovia. Quasi non posso ricordare il tuo viso. Come va piano, lo vedi?, il tempo. Come i treni regionali.
E’ tutto un miraggio, è quello che mi sembra, ragazza della foto, mentre cammino a piedi scalzi sul pavimento freddo come facevo da bambina. Che se fosse una stanza grande si potrebbe ballare, da matte e senza ritmo, senza lezioni né coordinazione, così per gioco. Basterebbe una musica allegra e forte. Mica sappiamo ballare, noi due!
Lo sai, anche col tuo fantasma si parlava. Anche di te si sognava, in modo strano, di una stretta di mano e della luce sul comodino spenta, senza sapere come sono fatte le tue mani, solo per ridere. Sei un miraggio persino tu, ragazza della foto? – mi chiedo. Perché forse, come questo tempo indeciso, passerai anche tu. Sempre solo addosso a me, come l’ennesima punizione, passerai anche tu. Sei un miraggio? Me lo dirai domani, o forse un’altra volta, chi lo sa. Se me lo dirai piano. Per ora c’è la lamina lucida di questa fotografia, che ho paura di rovinare, a fare da testimone al mio ennesimo pomeriggio di studio, mentre fuori ancora piove, e smette, e piove, forte.
Non si sogna più da domani, ragazza della foto, o meglio da stanotte stessa: con giornate intere da gettare in pasto all’immaginazione, ed ore che a volte non accennano ad arrivare, tutto quel tempo sprecato a non stringere e non toccare niente, senza neanche che mi ricordi più un abbraccio, com’è fatto un abbraccio. E’ proprio una condanna nascere così, lo sai meglio di me, ogni cosa che si sfiora è sempre tanto fragile. Ogni cosa che ci sfiora è sempre tanto forte.
Promettimi, se puoi, promettimi che mi dirai sempre quello che pensi. Conosco già troppi silenzi difficili da tradurre, ragazza della foto, non darmene anche tu. Promettimi che se un giorno sparirai, e di te non farai sapere più nulla, mi darai un buon motivo per cui lo fai. Ma se puoi, non farlo.
Avevamo fatto un gioco, chissà se ti ricordi, su questa musica. Il suo andare e venire che per me era un abbraccio, e per te un addio. Piano. Forte. Tanto che vorrei portarla qui da quel tempo lontano, quella stretta, e potermela tenere in un cassetto per giornate come oggi. E avrei voluto. Ora non conta.
Non si sogna più da domani, se i sogni si controllano, ragazza della foto. Ma per stanotte, non ancora.


[Ludovico Einaudi - Le onde]

mercoledì 28 maggio 2008

"Il via vai della strada"

Quando guardo questa città, da un suo angolo a caso, vorrei non cambiasse mai. Fino ad ora, la sola cosa che si è modificata col tempo è la mia familiarità con lei e coi suoi marciapiedi, il nostro reciproco riconoscerci. Uno sguardo d’intesa, appena arrivata, con le tessere colorate.
Mi affaccio in tutti negozi e mi chiedo, nell’ordine: che serietà possa ispirare una ditta che produce bagnoschiuma di un’inquietante rosso-bacca-dei-puffi o viola-venerdì-santo, per di più orgogliosamente in bella vista in confezioni trasparenti; cosa mai possa spingere una persona sana di mente (che non abbia bauli di denaro da buttare dalla finestra) a comprare una penna Mont Blanc con brillantino incastonato e nome inciso sul tappo; perché la Feltrinelli abbia sempre quelle promozioni in bella vista, a causa delle quali devo ammanettarmi se voglio evitare acquisti inconsulti ed attacchi di libridine. Che poi, io e le librerie abbiamo una nostra convenzione privata per cui, appena compro un libro, due-tre giorni dopo lo si trova almeno col 30% di sconto.
In questo posto, a consumarmi le suole delle scarpe, non esiste più niente. È andata via ogni cosa, come le macchie dai vestiti, e l’unico alone rimasto è da qualche parte nella memoria, ma non si vede troppo. Stare qui ferma, seduta, potrebbe essere qualcosa di eterno, con le gambe di piombo e una sensazione di pietra nel resto del corpo. Sembra impossibile alzarsi dal muretto. Mi rendo conto dopo che sto sorridendo da sola, pensando ad un accento, una frase, una battuta di chissà quando, e rido così senza motivo, e lascio che il funzionario delle FS mi guardi perplesso, e non ho spiegazioni da dare.
Il modo di parlare delle persone mi rapisce, accade spessissimo. Posso sentire un racconto, un richiamo, un’invettiva, mi attira quella virgola di dialetto, il modo di pronunciare una lettera, l’ascesa o la discesa della frase. La parlata, come si dice da me, il regionalismo che rende uniche le persone. Rubo le espressioni in giro e me le conservo gelosa, sottolineo i loro svolazzi e le volute che fanno, le spirali che descrive qualche parola messa insieme, che se si potessero scrivere me le appunterei ma non renderebbero. Seduta sul muretto, continuo a prendermi le frasi degli altri, guardando le nuvole nere che arrivano... meglio qui che altrove, si potrebbe restare per sempre. In mezzo al rosso del laterizi e all’odore di autunno perenne.
Ma siamo in Emilia, e Bologna si affretta a ricordarmelo... soccmel, ho scordato l’OMBRELLO!


"É o projeto da casa, é o corpo na cama,
é o carro emguicado, é a lama é a lama
é um passo, é uma ponte, é um sapo, é uma ra,
é um resto de mato na luz da manha
São as aguas de março fechando o verao,
é a promessa de vida no teu coraçao"

sabato 17 maggio 2008

Il paese dei balocchi

I DIECI DIRITTI IMPRESCINDIBILI DEL LETTORE
1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente trasmissibile)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere

[Daniel Pennac]

Quando entro in libreria, dimenticate pure di avermi mai vista. Basta un passo, due al massimo, e niente di quello che succede in strada è ancora reale.
Quando entro in libreria, scompare l’orologio che seguono gli altri, affondo nella mia dimensione senza tempo in cui mi sento a mio agio e perfettamente accettata. Mi lascio rapire, condurre, ammaestrare dagli scaffali e dai banchi inondati di libri, non sono più la ragazza stanca dopo ore di lezione o con le spalle doloranti a causa dello zaino, ma mi muovo ipnotizzata da un capo all’altro della sala, senza volontà e con tutta la volontà. Annuso la polvere sulla carta, prendo qualche volume a caso, sfoglio, leggo, passo le dita sulle pagine, mi concentro su una frase quasi a volerla salvare dall’abbandono. A volte mi perdo. Giramenti di testa o un lieve malessere, simile a uno spavento annunciato, non riesco a focalizzare nulla. Quando accade, a curarmi è la libreria stessa: ho alcuni libri che forse non comprerò mai, ma che cerco con lo sguardo, in mezzo agli altri, come si cerca un amico in una folla di sconosciuti. Ad esempio, “Il bar sotto il mare” di Benni, che non so neanche di cosa parli, mi restituisce quel minimo sindacale di realtà indispensabile per stare bene.
Poi ci sono i libri che mi aspettano in prima fila, a ricordarmi la mia promessa. Si fanno vedere lì al loro posto, pazienti, pronti per il giorno in cui uscendo dalla libreria li avrò presi con me. “Memorie di Adriano” della Yourcenar è uno di questi, insieme a “Cecità” di Saramago e vari altri. Ogni tanto vado a salutarli, a prenderci un tè, e non accetterei mai che qualcuno me li prestasse, perché loro ci contano, sono già miei, e sarebbe un tradimento. Sono le uniche creature che possa andare a trovare con la certezza che vedermi gli farà piacere.
Quando entro il libreria, ho tentazioni più forti che davanti a un bancone di dolci, mi ci tuffo provando ancora lo stupore ingenuo di vedere un mondo che si rinnova senza perdere il suo passato. E si muove, e cambia, ha spazio per tutti, ma non lascia nessuno da parte. Una volta, sedute su due poltroncine della Feltrinelli di Bologna, Giulia mi disse: “Te lo immagini? Avere una casa così…”, ed io me lo sono immaginato. Ho guardato le pareti coperte dai volumi, il mare multicolore delle copertine, e ho chiuso gli occhi per lasciarmi trapassare da tutte quelle storie, idee, spiegazioni: “Sì, sarebbe bellissimo”. Sarebbe poter scegliere ogni volta qualcosa di nuovo e sconosciuto, avere la libertà di non saziarsi mai. Sarebbe, soprattutto, prendere un giorno un libro, e prestarlo a qualcuno. Regalarlo, se è una storia che amiamo, affidarlo alle cure di un altro, provare a metà con lui la gioia di averlo letto.
Perché è vero che la lettura è vigliacca: offre il riparo sicuro di non dover dire in chi ci siamo immedesimati, cosa avremmo voluto fare, la lettura è il confessore che non tradirà mai la lacrima che abbiamo versato o il sogno erotico che ci ha provocato. Una volta chiuso, il libro resterà in silenzio, e manterrà per sé quel filo che ci lega, il segreto che si svela solo se siamo noi ad aprirlo. Ma è vero altrettanto che dietro questa codardia di nascondersi nelle parole di uno sconosciuto, c’è anche la voglia irrefrenabile di essere scoperti, prima o poi. Di trovare qualcuno che abbia più coraggio di noi e ci riveli il segreto che divide con quel libro. E se è il nostro stesso segreto, eccola lì: la sensazione di aver trovato una bella persona, non solo una bella storia.
Buona lettura!



"La filosofia sembra che si occupi della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi di fantasie, ma forse dice la verità" [A. Tabucchi]

lunedì 12 maggio 2008

Uno stupido incubo

"Se mai hai avuto quindici anni sai
cos'è quel sogno detto America
l'hai marcato al tuo viso, nello sguardo deciso"


Non ho mai voluto andare in America. Cioè, in tutta quella parte di continente che va dalla Groenlandia alla Florida, che comunemente si chiama America. Così immisurabile, votata allo sperdimento, per me che già scompaio in una città di centomila persone. Sapere che c’è l’America, lo sconfinato fazzoletto di terra di là dal mare, mi fa sentire più stabile anche se non più protetta: mi fa paura il suo grigio da grattacielo, tanto quanto mi rassicura l’idea che tutta quella gente non sprofondi inghiottita dall’acqua. La mia America non ha un volto né un punto d’arrivo preciso, non è bianca né nera, è quella sorta di accadere indistinto di cui posso dimenticare, senza neanche assicurarmi che esista.
Le mamme forlivesi portano i bambini al parco. Leggono i giornali, si scambiano ricette e li sgridano se spingono gli altri giù dallo scivolo, come fanno le mamme che portano i bambini al parco. Io vorrei andare in Messico. Perù, Cile, Brasile, Nicaragua. Esserci nata, conoscere già le consuetudini, averne il colore sulla pelle. Per arrivare lì non mi basta certo un metro e cinquantacinque. Posso al massimo prendere una nave e aspettare per giorni, e vedere la terra all’orizzonte, prima di riaprire gli occhi. Come fa tutta quella gente ad esserci già stata, e come ha fatto poi a tornare indietro?
Stanotte ho sognato di essere inseguita. Non è la prima volta, anche se forse è meglio che sognare di cadere, com’è stato finora. Un inseguimento infinito, giù da un trampolino in una piscina che prima era vuota su un autobus tra i vestiti appesi in un mercatino da un bar all’altro con una bacchetta magica che non segue le mie formule di spalle davanti a una vetrina in un cantiere col pavimento sterrato su una strada senza curve in un centro storico su un cavallo scivolando sui sampietrini. Non arrivavo mai, né sapevo da cosa esattamente scappassi. Un uomo, credo. Una paura. Non lo so, certe cose nei sogni si danno per scontate.
Mi sono svegliata stanca e angosciata, con un sapore di sconfitta che ci è voluta mezza giornata a mandar via. Mi inseguono, chi mi prende per mano? Mi sparano addosso, chi mi avverte perché schivi i colpi? Chi mi fa cenno di entrare in casa, se mi vede passare trafelata? Nessuna sorpresa, neanche nei sogni. Non posso permettermi di guardare indietro. Indietro non c’è più niente. Corro. Quello che penso, non ho alcun diritto di dirglielo. Uno stupido incubo, era solo uno stupido incubo. Corro.
Domani butterò le lenzuola in lavatrice e per l’ennesima volta penserò che sto bene. Basta dimenticarsi, è lì la chiave di tutto, basta saper dimenticare e sapersi mentire. Prendersi per culo. Avere la faccia tosta di guardarsi allo specchio e dire che “comunque va tutto bene”. In realtà corro, ma non so neanche com’è fatta la salvezza alla fine della strada, se somiglia a un salto su una nave. Quasi certamente, dovessi passarci accanto, non la riconoscerò.
Ma poi a tutte le domande che ho sempre in testa, non è importante trovare una risposta: io so di essere così. Una che si segna sul calendario i compleanni, i posti in cui è stata, le ultime lezioni di ogni materia. Una che dall’indecisione ci mette una settimana a separare roba estiva e roba invernale. Una che puoi anche non rispondere, tanto poi ti cerca lei. Io sono una persona così: che ci pensi il giorno dopo e poi basta.


"Ho sognato una strada
che si ferma su un ponte
e che di là da un muro alto
corre l'orizzonte
Mi ci vorrebbe una scala
mi ci vorrebbe una luce
mi ci vorrebbe il coraggio
di dare una voce"


(E vi dico che aspetto l'angelo dall'orizzonte. Io sì.)