martedì 23 settembre 2008

A la recherche du temps perdu

Mi piacerebbe poterti pregare. Sì, come quando avevo 13 anni e ti venivo a cercare ogni sera, mi piacerebbe unire le mani e usare un po’ di quelle parole formali, per iniziare a parlarti. Mi piacerebbe tantissimo chiudere gli occhi e affidarmi a te, come quando da piccola mi sentivo in pericolo per aver perso un giocattolo o aver rotto un soprammobile, e non riuscivo a fare altro se non chiederti per favore, per questa volta, pensaci tu. Vorrei tanto sentire che riempi il vuoto, il silenzio innaturale di ore come queste, in cui ancora non ho sonno, avvertire la tua sorveglianza continua e non sentirmi indifesa. Vorrei non sentirmi disarmata.
Invece un giorno mio padre stava per cadere in un pozzo. Era sera e faceva freddo, uscii con la vestaglia da notte rossa e correndo a chiedere aiuto dai vicini stavo per rompere le pantofole, e non arrivavo mai, e i sassi della strada facevano male ai piedi. Era una corsa troppo piccola la mia, di otto o nove anni, che strascicava e non sapeva spiegare bene le cose. Mio padre fu tirato su, poco dopo.
Mi sono allenata tanto in ogni senso. Ero forte, correvo come un ragazzo e nuotavo sfiorando la sabbia del fondo, mi lanciavo con la bicicletta, o sul campo di pallavolo, mi piaceva. Sono uscita da quel reparto e ci sono rientrata, un pomeriggio ho camminato dal day hospital all’alloggio senza fermarmi, perché c’era il primo sole di primavera, e volevo vedere se contavo ancora qualcosa per le mie gambe. Ed ero esausta e dolorante ma ho vinto io, ero forte.
Come hai potuto lasciare che mi abbattessero le parole? Perché quando qualunque appiglio sarebbe servito, non ti sei affacciato un attimo a tirarmi su da quel letto, da quel cuscino bagnato? Ma non è colpa tua: sono stata io a lasciarmi andare. Non è neanche colpa tua se è tanto tempo che non so cercarti più. Sono stata piena, vuota, ma sono stati pochi gli istanti in cui ho pensato di riuscire a dirti grazie o chiederti aiutami, e credimi avrei voluto, voluto, voluto sentirti. Voluto urlarti la mia gioia quando l’ho provata, voluto chiudere gli occhi e pensare che avrei lasciato fare a te, che avresti sistemato tutto e non dovevo che sperare, doveva pur esserci una giustizia, me l’avresti resa. Perdonami, ma non ci sono riuscita.
Sistemando un cassetto dello studio ho trovato una cannuccia inutilizzata, oggi. Una cannuccia verde del Mc Donald’s della stazione, di quando non è servita perché ne bastava una sola. L’ho scartata, ho gettato l’involucro nella raccolta carta, l’ho piegata, stretta in mano e buttata, nella plastica, accuratamente. Mi sono detta che non è il primo piccolo omicidio che commetto. Mi ha fatto effetto, sì, non sono caduta in ginocchio, neanche ho pianto, no. Allora forse, dopo tanto tempo, penso che hai voluto tu che non facesse male: hai capito che bastava ed hai mostrato misericordia. Non dirò niente neanche adesso, in mezzo a tanto disordine, non ancora. Mi rimetterò in piedi, magari, piano. Ho un anno intero davanti. Intanto, per quello che vale, buonanotte caro Dio.


"O Capitano mio Capitano anche se il viaggio è finito
sento ancora tempesta annunciare
e le donne esultare, le campane suonare
e altre inutili parole d'amore


Capitano mio Capitano è che non posso lasciare
che nemmeno un sogno scivoli via
Sotto nuove bandiere ancora giorni e sere
per il tempo che ha l'anima mia
... e per me"

domenica 14 settembre 2008

Post scriptum (-grazie-)

Se fossi stata zucchero, ieri sera, mi sarei sciolta ai tuoi piedi senza remore, Signora. Sotto le nuvole grigie che ci hanno fatto preoccupare, sarebbe stato un inchino a mio modo. Hai un potere, tu, incantevole Signora, di cui non ti rendi conto o che dispensi con tale generosità da non approfittarne mai, ed il mio petto così vuoto si è inondato di tutto ciò che arrivava dal tuo palco. Non credo che riuscirò mai a spiegarmi cosa possiedi, come puoi ancora farmi credere, dopo un anno così, semplicemente allargando le braccia e sollevando un po’ le spalle, con le mani schiuse, come puoi farmi credere ancora che il dolore passerà. Eppure te lo urlo e me ne convinco, senza ragione, come se tu mi ubriacassi.
Signora, giù il cappello al tuo cospetto, quando mi fai riascoltare quella canzone cercando di non farmi piangere, quando ti metti in ginocchio e diventi romantica, quando fai crescere le ali e spalanchi un volo leggerissimo. Sorridi. A testa bassa e con le gambe piegate, giù il cappello, Signora, in segno di gratitudine e di pentimento per non averti più creduta capace dei tuoi miracoli. Per averti resistito con ostinazione, dalla scorsa estate in poi.
Grazie per quello sguardo che non era per me, grazie per i salti di gioia, per i pochi singhiozzi, per Endrigo, Battisti e De Andrè. Grazie, umilmente, per la Musica, mia Signora gentilissima.

sabato 13 settembre 2008

Un poco di zucchero

"Scendi lentamente, portale i miei saluti più sinceri,
batti piano sui vetri e sciogli i dispiaceri
Scendi piano piano, che ti senta arrivare da lontano,
che abbia tempo per riparare, rifiatare"


Vorrei essere di zucchero, bianca ed utile, polverizzata. Non ci sarebbe niente di male. Vorrei essere di zucchero ed uscire sotto la pioggia, per sciogliermi velocemente e senza rumore sotto il battere incessante delle gocce. Sarebbe liberatorio vedere disfarsi ogni singolo atomo delle mie spalle, dei capelli, vedere i piedi già malfermi abbandonarmi del tutto. Persino i miei ricordi, questo sì sarebbe bello, si allontanerebbero assorbiti dall’acqua. Scorrendo fuori dalla mia vista. Alla fine del temporale, sotto un semicerchio a colori, magari arriverebbero i gatti di mia zia a portarmi via per sempre, bevendomi sorso a sorso. Magari sì, ecco: a loro risulterei gradevole. Giù pezzo a pezzo sulla lingua ruvida di un gatto, saltellando senza farmi male sui muscoli della sua bocca.
Allora di me non resterebbero che pochi granelli, qualche minuscola parte del corpo, e se così fosse, vorrei restassero le mani. Quelle che battono sui tasti in tre lingue diverse, e che una volta ti sono affondate nei capelli, le mie piccole mani mai protette dai guanti. Sui mattoncini del piazzale di casa, con le mie dita di zucchero, afferrerei le scarpe sportive di mio padre, i tacchi di mia madre, me ne andrei con loro a scuola o a fare la spesa; mi aggrapperei alla ruota della bici di mia sorella, e il vento mi disperderebbe prima ancora di uscire sulla strada grande. Non saprei comunque darmi l’affetto, lo so già, quel briciolo di tenerezza semplicissima che vado così maldestramente elemosinando. Neanche essendo zucchero saprei essere meno angosciante. Ma mi si potrebbe portare – basterebbe una goccia di me – in un angolo deserto e inutilizzato, dove resterei a guardare le foglie d’ulivo asciugarsi. Ad aspettare una formica che mi scambierebbe per la sua riserva dell’inverno.
Se di me restassero le mani, non potrei più arrivarti in nessun modo. Se mi facessi zucchero, neppure avrei il privilegio di addolcirti il cappuccino. Pensarti da lontano sarebbe più pacifico, del tutto normale aver smesso di conoscerti. Non pensarmi più sarebbe finalmente lecito. Stesa lì sul pavimento, a compiacermi di soddisfare i gatti. A sorridere di essermi sgretolata. Non pensando, in effetti, che a quell’ora potrei essere zucchero filato nelle mani entusiaste di una bambina, e chissà se anche lei lo direbbe, di avere una nuvola in mano… o zucchero a velo su una torta alle mele. Vedi, io mi fermo a molto meno, ma potrebbe diventare una cosa proprio concreta, essere zucchero.
Se di me restassero le mani, senza poter parlare né più scrivere, con sollievo mio prima di tutto, mi piacerebbe chiedere a gesti a un qualcuno là in alto: come si compensa un dolore così onesto? Come ci si salva da un amore? E dalla pioggia?

"Scendi lentamente, portale i miei saluti gentilmente,
lascia che si riposi e non le manchi niente
Scendi piano piano, gocciolando sul viso e sulla mano,
vai dovunque per rinfrescare, dissetare"