martedì 1 dicembre 2009

Prospettiva Nevsky

Non so se ti ricordi il mare. Il mare, prima che il mondo si voltasse a guardarti, e ti fermasse. Se credi che un pittore e un cavalletto possano interrompere la sua perfezione. O se può farlo un bacio, con la tua.


“Un vento a trenta gradi sottozero
incontrastato sulle piazze vuote contro i campanili
a tratti come raffiche di mitra
disintegrava i cumuli di neve”


Scrivo con la musica, la musica mi cura. Perché se uso la scrittura come disinfettante brucia un po’. Mi riporta sulla tua fronte la voce fredda e profonda di Alice, il suo inverno di canzone. Ho bloccato le mani per tanto tempo, sempre indecisa o timorosa, così adesso che provo a tirar fuori qualche riga, senza rabbia, senza niente, lo trovo difficile. Lei canta, con i bassi di un uomo, una delle poche voci che a quest’ora non mi danno fastidio. Volevo scriverti tanti fogli fitti, una cascata di frasi certe, con un punto alla fine. Che fosse solo un insieme di cose che non sai, una mano di carta che poteva restarti in qualche modo, farti piacere, una striscia rosso pallido su una tela bianca, o anche per niente. Per niente, soprattutto. Invece neanche so come andare avanti, vedi, senza che ti sembri una richiesta di qualcosa, senza che ti senta neanche coinvolta. La verità è che scrivo per me, per tenere in piedi il pomeriggio.
Faccio fatica a sorridere oggi, per quanto mi sforzi. Non sono stata ferma sul letto tutto il giorno, ho fatto all’incirca quanto dovevo, eppure appena posso rimetto questa faccia, piatta e opaca. Il ciuffo sull’occhio destro, mi schermo. Mi costa parlare e muovermi, ho freddo, eppure non vorrei altro che parole, o essere la destinataria di una di quelle mail lunghissime, o che mi facessi ombra sulla porta, dieci secondi scarsi, e potere ringraziarti per ogni cosa, una risposta che mi perdonasse di tutto, persino di piangere. Intanto resto in una stanza in cui il massimo della tenerezza consentita è una sigaretta o un plaid arancione. Il messaggio di un bacio perugina, così per ricordarmi che ho dimenticato l’amore. La canzone prende il volo.

“… Per la notte e un film
di Eisenstein sulla Rivoluzione
E studiavamo chiusi in una stanza,
la luce fioca di candele, lampade a petrolio”



Mi manca casa mia e l’odore della brace del camino, mia sorella. La sensazione di non doversi necessariamente sforzare per ogni cosa, i lavori di gruppo, quelli da sola, la laurea i test i viaggi i pranzi le discoteche dormire senza sognare niente. I miei genitori, e un sacco di persone. Poter essere lontana, e forse, perfino mancarti.
A volte per questo torno alle canzoni, che aumentano incessantemente ma non ho ancora capito come è possibile che tutte mi abbiano per una parte. I miei classici, le mie indiscutibili, i colpi di fulmine tutti nuovi. Dove una mi ha capito e mi ha tenuto ma poi mi lascia e mi fa cambiare umore, o mandare tutto al diavolo. O scappare. Sono nuda davanti alle canzoni, bassa, coi miei chili di troppo. Due piccoli calli sulle mani, lo sguardo sperso che ti ho regalato troppe volte, inutili volte. Certe canzoni mi fanno vergognare.
Mi guardate, ma io ho una musica che mi sta assorbendo. Assieme alla parte della mia vita che si porta incollata, che a volte viene fuori come un respiro soffocato. Di quelli che non senti più. Ho i suoi occhi marroni sulla porta, le sue mani timide, le sue mani decise. Tre baci sul collo. Il marciapiede di via Zanchini, quando ha piovuto, e tutti i treni che mi hanno lasciata sola, dentro o fuori dai vagoni. La Fuente de Las Batallas.
Cerco di far sì che qualcosa succeda. Provo a non fermarmi e aguzzare la vista, sempre, perché cerco un segno, un indizio, una freccia messa a caso per la strada giusta. La cosa giusta da fare. Il posto in cui andare perché ci si sblocchi. Per smettere di avere come obiettivo nella vita il benessere degli altri, la serenità degli altri, la loro comodità. Risento continuamente le mie parole, bianche come ovatta, inservibili, scusami, scusami, scusami. Delle cose di cui non mi scuseranno mai.
A volte non ne sai niente. Non sai delle canzoni come per fortuna non riconosci la riga storta sulla mia schiena, le mie gambe, mentre te ne vai a letto. In fondo non importa troppo neanche a me, stasera, dopo risate e castagne. Metto su le cuffie, e mi addormento. Tú, por favó, cuídate muxo.

“E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”

domenica 11 ottobre 2009

Come una lettera

"Sono io quella che aspetta
e ogni volta rimane in silenzio
sono io quella che ascolta
e che porge l'altra guancia
Sono io quella che sogna
e si sveglia sognando ancora
una carezza che non sia menzogna
un istante da sognare ancora"


Ciao,
sono passati alcuni giorni e avevo tanta voglia di scriverti, ma quando ho cominciato mi si sono affollati i pensieri in modo troppo confuso, e le poche righe che sono venute fuori si sono ingarbugliate. Allora vengo a cercarti nel modo meno invadente, come un ritorno ai vecchi tempi, sperando che ti riconosca. Che mi riconosca.
Sono a Granada da tre settimane ormai, spinta da un vento così forte che se mi bastassero le gambe correrei per ogni strada. Avevo paura di questo posto come di ogni scommessa al buio, ma sapessi com’è bello non perdersi dopo pochi giorni, e non sentire nessuna barriera davanti... mi sento al contempo facilitata e messa alla prova, ma ho calma sufficiente per sentire con chiarezza entrambe le cose.
E se la vedessi! Ti innamoreresti di questa città nel tuo modo immediato e positivo, ne sono sicura così come so che pian piano sta conquistando me. Non cammineresti da una via all’altra solo per doverti spostare, ma proveresti a gustare ogni cosa, allo stesso tempo vorace e attentissima. Chiederesti informazioni e tireresti fuori, da uno dei tuoi cassetti della memoria, qualche storia interessante su questa parte di mondo.
Una delle cose che preferisco in questi pomeriggi di tarda estate è camminare per la Calderería, quando salendo da Plaza Nueva di pochi passi non sai più dove sei. Non posso mandarti in una busta i profumi diversi e intensi che si sprigionano da ogni porta, le varietà di infusi e incenso, i frullati e la musica, tutto quel miscuglio di note e voci sconosciute, i sorrisi mulatti, le lettere arabe. Vedessi come ci gioca la luce, sui palazzi di questo angolo di Spagna che ha nostalgia dell’Africa. E che buon sapore hanno i fiori nel tè...
Quando vado in giro, sai, leggo quasi ogni cartello o scritta e penso che c’è gente per cui non sono comprensibili: per molti queste parole racchiudono un loro mistero indecifrabile, mentre la mia testa ora non ha più bisogno di tradurre per capire. Li dovresti sentir parlare poi, e te ne accorgeresti anche tu che gli andalusi hanno questo accento stupendo e musicale, di lettere aspirate e scivolate, un po’ di corsa e un po’ di comodo. Ti farei sentire le differenze, le percepiresti in mezzo minuto. Diresti che la prossima cosa da fare è imparare lo spagnolo, perché ti piace un sacco...
Vicino casa mia danno lezioni di flamenco, o danze regionali, non so bene, passandoci davanti la sera ho sempre la tentazione di spiare dalla finestra come un’intrusa. Perché battono i piedi da far tremare la strada, e se ci fossi e se ascoltassi, anche tu vorresti saper ballare! Oh, ameresti questa città, perché agli angoli delle strade in coni di carta vendono le tue caldarroste. E anche quelle, come il resto, hanno il gusto dello sperimentarsi continuo, dell’esplorazione, delle prove. Hanno il gusto di imparare a camminare, ad un ritmo che non conoscevo. Così a volte mi sfiora un pensiero semi abbandonato, che si mette il vestito nuovo, e dice che finché ci sono posti come questo è utile continuare a credere in qualcosa, a scalciare e arrabbiarsi, è utile avere una qualche speranza.

Ho imparato molte cose in questi tre anni, non tutte mi hanno fatto bene. Mi sono scontrata con teste nuove ed ho ascoltato racconti e spiegazioni. Così lentamente ho visto che ci sono persone per cui puoi cambiare, sforzandoti di andar loro incontro nel modo migliore che ti riesce, che non lo vedranno mai. Ed hanno dolcezza e sfumature e riescono ad essere vere esplosioni, ma in fondo sono sensibili solo a sé stesse, ai propri problemi dal più stupido al più grave, e totalmente cieche verso gli altri. Ci sono persone davanti a cui ti scopri disposta a dimenticare, ammorbidire, perdonare l’imperdonabile, per le quali hai sempre le braccia aperte nei momenti di tristezza, e che di tutto questo non si accorgono affatto. Eppure per un tempo incalcolabile, continui a tenere la porta aperta per loro, facendoti coinvolgere dal più piccolo turbamento. Quando gli parli, nessuna frase ti sembra eccessiva, superi il timore reverenziale di definire un sentimento, di confidare una debolezza. E ti ritrovi a scrivere lettere lunghissime, di cui poi ti penti perché anche se è così assurdo da pensare, ci sono persone che di una lettera non se ne fanno niente. E se decidono di farlo, ti rispondono come fosse un dovere.
Conosci quanto me il sapore delle delusioni inghiottite, delle attese spasmodiche, cercando il senso dietro alle parole, ai silenzi e alle cose lasciate a mezzo, quando non sempre quello che ci vedi è la verità. Nei labirinti, sui grovigli dei sentimenti e sugli intrecci. Hai scavato così a fondo nei tuoi mesi di nulla, da non sapere immaginare un male più insaziabile. Il dolore in portoghese è femminile.
Ho imparato da te che il pianto è sacro e prezioso, non importa quanto sia frequente. Che non è noioso, banale, ma nel suo vincere ogni resistenza è una delle cose più intime e rare di una persona, e si dovrebbe stare coi guanti bianchi al cospetto di un pianto, cercare di rimediare ciò che l’ha provocato. Questo non lo capiscono mai.
A volte, come me, sei eccessiva. E lo sai, succede perché gli altri non sanno cosa vuol dire vedere il mondo con questi occhi, quanto può essere difficile alcune volte, in un preciso quarto d’ora o un minuto a caso della giornata, sentirsi una minoranza. Tanto che vorrei anche solo per pochissimo che tutto andasse al contrario, così che la mia normalità fosse visibile a tutti. A chi certe domande non se le è fatte mai, a chi non ha voluto rispondere. A chi continua a non vedere.
Avrei voglia di continuare, ma come vedi non sono organizzata, e non so scrivere più. Ti mando tutto questo come una lettera, perché hai festeggiato i tuoi anni da poco, e pensandoti mi sono accorta di quanto è davvero importante averti (ancora) nella mia vita. Quanto conta per me. Senza dir niente, o quasi niente, su quello che stai vivendo. Perché il tuo dolore mi riguarda così da vicino che non ho parole per consolarlo, nessuna idea brillante, nessun antidoto da spedirti in un pacchetto colorato; nonostante mi svegli ogni mattina sperando, come dicono qui, que te sea leve.
Un bacio.

giovedì 24 settembre 2009

Momenti

Non riesco più a scrivere da molto tempo. Ho cercato con costanza e chiudendo gli occhi di arrivare a questa indifferenza, quasi pensando che sarei stata meno piccola, che fosse un modo di maturare, questo nuovo gestire le emozioni senza troppo impeto, senza enfasi sciocche. Ora parlo molto meno e ancora riesco a non rompere il vetro, non ho elemosinato neanche un gesto come sono solita fare. Ad ogni situazione, per scomoda che sia, ci si abitua.
Ma a volte qualcosa si ribella ancora. Come un umore liquido e viscoso, che quando aumenta troppo esce da una ferita a taglio, e anche se sono stanca di vederlo ogni volta impossessarsi di me non posso fermarlo. Temo che sia rimasta la mia parte più vera, quella difficile da perdonare.
Allora oggi mi chiedo quando abbiamo perso la capacità di parlare, io e te, cosa ci ha bloccato a metà corsa, cosa ci ha spinto violentemente indietro. Tanto indietro che mi riprendo la libertà di scrivere proprio sapendo da quant’è che non mi leggi. Mi chiedo se ti passa mai per la testa l’idea di questa assenza di contatto, per me così prepotente, così palese, al limite del ridicolo. Se ti ricordi com’era tenersi le mani, o che felpa avevi addosso quando la prima volta mi hai detto di te. Se per caso una virgola, una sfumatura inutile, una sensazione di quello che era, ti manca. O davvero l’estate ha sbiadito e cancellato.
Guardarti è come non conoscerti affatto. Non saper più pronunciare il suono del tuo nome. Avere una paura incontrollata di sembrare ridicola solo perché avrei voglia di sapere come stai. Veramente, e là in fondo, come stai. Cosa fai mentre fingi di non pensare. Mentre sgretolo poco a poco i progetti e le scene immaginate, finché capisco che non so come muovermi, che non c’è niente che possa fare, che non dipende da me, che non l’ho scelto, che sono certa non esista, che ti sto assecondando, che ho sbagliato, che sono nel giusto. Sbattendo come una pallina in un flipper, confusa e muta, solo per essere così orgogliosa da non dirti davvero. Che tu mi manchi.
Sono solo pochi momenti prima che tutto riprenda a scorrere. Ma è questo il sapore che ha ora la mia malinconia. A base di camomilla concentrata.

"E quando si trattava di parlare
aspettavamo sempre con piacere"

domenica 9 agosto 2009

Si prepara la pioggia

Te la ricordi, questa canzone? Non so neanche più se hai le rughe attorno agli occhi, con che scarpe cammini. Sono sparite le piccole cose, una dopo l’altra le guardo passare e fare freddo sulla pelle. Ho perso quel modo di parlare che ti faceva ridere, arrossivo al telefono, mi impegnavo per te. E dopo, vedevo quanto ogni sforzo diventava man mano più invisibile ai tuoi occhi, così attenti a tutte le sfumature, tutte le sfumature di un’altra persona.
Ricordo i giorni in cui mi hai dato dell’infantile, oppure mi hai detto che erano comuni i miei difetti, normali e piccole le mie paure. Non ti stranisce il terrore di quando poso la mano sul letto accanto per sentire che c’è qualcuno, di quando per mezza giornata di silenzio mi sento in torto, non conosci la gola stretta delle sere in cui, nel dormiveglia, sono costretta ad accorgermi che le cose non cambiano. Fuori si prepara la pioggia.
Nonostante tutto, ho sempre detestato chi dissacra qualunque cosa, chi punta la sua ironia affilata in ogni situazione, come un’arma. È quasi un dolore sentir cadere l’atmosfera sospesa e delicata che hanno certi momenti, il loro respiro fermo di rivelazioni, demolito da una parola di troppo. A me, invece, piace ritrovare la magia, la cerco disperatamente come un antidoto al disamore. Il sottinteso delle parole dolci, il sorriso imbarazzato di essere sincera. Le carezze e gli occhi chiusi mentre l’abbraccio, mentre sciolgo le redini al suo odore, la libertà di scherzarci e di sapere che non fa male. Sbaglio ancora, lo so bene. Fuori si prepara la pioggia. Ci sarà un tempo per chiedere scusa.
Ci sarà il tempo in cui non chiederò di capirmi e prenderò l'affetto come viene, solo se ce n'è. E capirò come ci si sente quando non fa differenza una parola, un gesto in più o in meno, e mi sembrerà lontana tutta questa nostalgia. Adesso, ho dimenticato dettagli che credevo scolpiti nella mente. Non so più come sono fatte le tue attenzioni, le tue carezze sulla mano. Ho perso fiducia, e non è facile da dire, ho perso speranza. Ma come una redenzione che viene da lontano, come un ritorno, un perdono che non si aspetta... mi è rimasta questa canzone.


"Nonostante il vento, nonostante i passi..."

mercoledì 22 luglio 2009

Un'amica

Ci siamo conosciute un pomeriggio alle cinque e mezza e forse neanche ci siamo chieste i nomi. Poi è capitato che l’ho cercata con gli occhi e ritrovata centinaia di volte, tra le file di sedie delle aule, al settimo piano di una palazzina, tra i messaggi durante un viaggio. Grazie alla fortuna. Sono stati i mesi delle hit parade, in cui si parlava davanti al portone, i mesi in cui lei ha preso una decisione difficile e ci siamo barcamenate insieme tra le novità della vita universitaria. Invidio la sua pazienza che non mi ha mai lasciata sola.
Quando costruisci qualcosa a volte non te ne accorgi. Ti impegni per due anni a mandare avanti il gioco, saltando, ridendo o dando spallate, perché non usciamo?, ti fermi a dormire da me?... poi ad un certo punto ti volti, perplessa, e ti ritrovi un’amicizia in mano. Non lo so se me la sono meritata.
Ma so che con lei non mi vergogno, perché non mi ha mai giudicato, né gettato addosso le mie giornate nere o i miei vuoti: i difetti che mi riconosce, sono gli stessi che vedo anch’io, anche se fa sempre una gran fatica a farli notare; forse è l’unica che mi ha accettata senza fare nessuno sforzo. So che abbiamo un’ironia in comune, la necessità di sdrammatizzare in modo anche stupido, pur vedendo tutte e due l’aspetto serio di ogni cosa. So riconoscere una persona forte, nelle battute, nei silenzi, negli sguardi pieni di parole. A volte le è toccato esserlo per sé e per me. So che è stanca dei doveri, degli impegni, delle scadenze e dei miei alti e bassi, conosco il suo modo di (non) lamentarsi. Eppure tutto quello che è riuscita a fare, nel suo andare perseverante che continua senza far chiasso, supera esami, trova spazio per chiunque, mi rende enormemente fiera di lei. Cerco di imparare, di carpirle il segreto di tutta quella tolleranza, perché mi renderebbe migliore sapermi mettere da parte, somigliarle almeno un po’ .
Dividiamo film, peluche e qualche segreto importante, dividiamo ore ed ore ogni volta che una delle due lo propone: è di quelle persone generose che fanno eccezione, e che trovi sempre quando le cerchi, ha quella specie di dono senza cui ora mi sentirei smarrita. Perché quando penso a tutto questo tempo e mi chiedo cosa ho costruito, cosa mi rimane anche quando mi allontano, penso a lei. Ai suoi mille orecchini colorati, alla scrivania disorganizzata, al computer ribelle e alla sua risata. Penso ad ogni dettaglio che di me si ricorda e che conserva, attenta, al posto che ha nella mia vita e che malgrado le apparenze nessun altro può riempire.
Non ho nulla di buono da darle, ma un pomeriggio, alle cinque e mezza, l’ho fatta ridere di gusto. Non pensavo, in quel momento, di essere capace di fare una qualunque cosa, una qualunque piccola cosa, che fosse buona. Ma non mi sono trovata davanti regole o convenzioni, obblighi, tensioni: ho trovato una risata e una disponibilità infinita, un’autentica rarità. Ho trovato Fede.


Oh, mi è sfuggito un dettaglio!
Ti voglio bene chicaaaaaa :)


PS: In realtà questo post ha una maledizione voodoo...

sabato 18 luglio 2009

Soluzione

Vorrei essere stronza, così non mi farei prendere per culo. Vedrei solo una strada, la mia, e sarei bravissima a tagliare i rami che mi intralciano il cammino: le strade laterali neanche le prenderei in considerazione. Ci penserei due volte prima di farmi avvicinare da qualcuno, comunque non mi fiderei mai della prima impressione.
Vorrei essere stronza almeno ogni tanto, quando inizio a sentire male dentro, in modo da girare la testa dall’altra parte e restare brillante, sorridente, ordinata, senza sentire più nulla che non sia l'indifferenza. E per iniziare direi che metto un legaccio all’emotività eccessiva e mi preparo uno scudo davanti al cervello, un’armatura intorno al petto, e una bella faccia di circostanza.
Vorrei essere stronza almeno in parte, per fare una scelta selettiva dei pensieri, controllare i mal di testa quando sono tesa e lo stomaco che si contorce. Dovrei poter decidere cosa e chi voglio sognare, quale immagine può apparirmi davanti quando mi distraggo, cosa va lasciato da parte e possibilmente dimenticato. Ecco, dovrei imparare a dimenticare, da un giorno all’altro.
Perché in fondo uno si può accettare così com’è, con tutte le crepe e le storture della sua personalità, con gli eccessi che è costretto a tollerarsi, convivere con sé stesso. Ma sono poche le persone disposte a fare altrettanto. Quindi.
Vorrei essere stronza per stare più comoda agli altri. Quando gli altri non si meritano niente di meglio, o quando io non mi merito di star male per gli altri.

sabato 13 giugno 2009

Muovere le mani

La verità è che io non ho abbastanza per essere amata. Per favore, non statemi a consolare, non venite a farmi le prediche, tutte le giustificazioni possibili sulla sfortuna il destino e vedrai che basta aspettare e non ti fasciare la testa e non dire scemenze. So già tutto ma tutto non ha cambiato niente.
Forse mi dovrei far crescere i capelli, dovrei lasciar stare le smagliature sulle gambe e buttarmi sulle gonne corte, o dimagrire tanto che mi si veda il seno, magari aggiungere qualche paio di orecchini. E mi dovrei certo somigliare di meno, lasciar perdere tutta la strada che ho fatto per unire il fuori e il dentro, e cedere ai compromessi. Ma la cosa buffa è che so che non basta, perché io ho qualcosa, oppure ho qualcosa che mi manca, e non sarò mai a posto.
Ho aspettato che venisse il tempo con più pazienza di altre persone, ho aspettato che passasse il cortisone e la pelle delle radiazioni, che tornasse il mio passato dalla terra di nessuno in cui si era nascosto e che si riattaccasse ai miei vent’anni. Ho visto diciotto ragazzi guardarmi straniti, a tutti ho regalato le mie spiegazioni, per accorgermi alla fine che mi piaceva qualcosa di diverso, che i pezzi di quel mondo emotivo così ruvido che contengo si stavano sconvolgendo in modo sempre più evidente. Ed ho cercato, incuriosita, le mie risposte, abbattendo i miei limiti, senza che nessuno sapesse. Ho visto ogni cosa trovare una forma in qualcuno e illuminarsi ed esplodere, come impazzita, e infine ho visto quella forma schiantarsi, perché non bastava ancora, aver messo tutta me stessa in quell’altare di sabbia.
La verità è che io non ho abbastanza per essere amata, perché quando mi avvicino, l’amore si accorge che mi manca qualcosa. Non ho forse sufficiente passione, non sono così colta o curiosa, non ascolto le canzoni giuste, e qualunque cosa io possa inventare – perché ne invento, di cose – avrà sempre quel decimo di millesimo mancante per vincere la partita. Pensavo che fosse un regalo, sapere come si ama, pensavo che bastassero due o tre ingredienti per farsi brillare gli occhi, invece mi vanto di poter dire che io, signori, non ho capito niente, e che riprendo le mie quattro magliette e i miei poster alle pareti e me ne vado. Stasera scrivere è solo muovere le mani, ed era tanto che non lo facevo, da aver quasi dimenticato la sensazione.
Segreteria telefonica. Io sono stanca, non riesco a far più niente, e non rispondo più.


"Che si gioca per vincere e chi vince è perduto"

lunedì 4 maggio 2009

Barcellona in un sottopassaggio

"Teresa ha gli occhi secchi, guarda verso il mare
per lei, figlia di pirati, penso che sia normale
Teresa parla poco, ha labbra screpolate
mi indica un amore perso, a Rimini d'estate
Lei dice bruciato in piazza dalla Santa Inquisizione
forse perduto a Cuba nella rivoluzione
o nel porto di New York, nella caccia alle streghe
oppure in nessun posto ma nessuno... le crede"


Di te si raccontano molte cose. Dicono che sei andato in Spagna a combattere contro i tuoi mostri, hai inseguito la paura fino al centro della piazza e sotto quel sole, solo, l’hai guardata negli occhi. Dicono che hai avuto molte donne, forse a qualcuna hai spezzato il cuore. So che hai amato tutte, febbricitante e onesto come ti conosco, corridore instancabile, che hai nelle pupille per ognuna una forma, un polso o un ricciolo scuro, che è quanto di lei ti ha rapito. Quanto ti resta di lei, ora che rifai la valigia e non senti cosa mi dicono di te.
Ho sempre saputo quanto erano grandi le nostre differenze, quasi quanto sono diverse le dimensioni dei nostri corpi. Alto ma gentile, muscoli che non oppongono resistenza, sei sempre stato quello che rompeva il ghiaccio. Ti inserisci tra la gente in un momento, lasci che accettino la tua invadenza viva, ti fai padrone delle situazioni... come un fuoco d’artificio, reciti: sai quello che vogliono da te, non hai problemi a dispensarlo. Hai fascino, e mi ricordo quanto era difficile arrivarti al fondo e costringerti a gettare quegli orpelli, quelle vesti multicolori sotto cui neanche tu guardavi. Dicono che adesso non hai più veli, che tutto in te viene da quel fondo, so che è vero. Ed io?
Ti sono amico da un tempo lunghissimo. Avanzo con lentezza sperando ancora e davvero che tu non guardi i modi sciocchi in cui sono caduto, le mediocrità della mia vita. Eppure le avrai contate, le passioni che mi hanno avvolto e consumato, sapevi che tornavo quando tutto era andato a rotoli. Vergognoso, con la mia finta superiorità, a chiedere asilo alle tue parole benevole, mentre sentivi gli stessi nomi ripetersi all’infinito, fino a capire, fino a vedere anche tu il divario fra noi due, senza neanche sapere quanti milioni di volte e sempre ad una persona, ho detto amore. Mi sono proibito parole d’affetto, le ho tirate fuori da poco, come le lenzuola impolverate dai bauli. Non fanno più lo stesso effetto, non potrebbero mai: ho solo il ricordo di come erano, che ogni tanto si impiglia nel cuore con piccoli uncini. Ma so cosa intendo quando le do a qualcun altro. Sono l’unico a saperlo.

"E due errori ho commesso, due errori di saggezza
abortire l'America e poi guardarla con dolcezza
Ma voi che siete uomini, sotto il vento e le vele
non regalate terre promesse a chi... non le mantiene"


Dicono che sono sempre in giro, che sono lontano. Non è poi difficile vedere che non mi muovo: fa sorridere che ogni mattina, pensando a raggiungerti, mi accontenti di una Barcellona per scherzo, nel sottopasso della piazza. Mentre ordinatamente risistemo i miei fogli, spingo la vita a calci, mi chiudo nel mutismo di chi ogni tanto, ogni tanto, vorrebbe essere come te. Che ti fai prendere dalla strada come un piccolo impertinente, fai sembrare tutto possibile, ogni città vicina con due passi. Alto ma gentile, come ricordo dai tuoi abbracci, mentre il mio corpo mi prende in giro e mi ridicolizza, resta anonimo, puerile. Un giorno potrò dirti che andava bene lo stesso. Che la dolcezza prende sempre di sorpresa, che la felicità entra dalla porta lasciata aperta per sbaglio. Dicono che quel tempo viene per tutti, sono stanco di aspettare, entro ed esco dalla mia stanza.
Come spiegare cosa sappiamo insieme? Il senso di reciproca completa accettazione, il privato tra me e te? Come nella canzone di quel giorno strano, quando ci siamo ritrovati allo stesso angolo della vita e ci siamo incastrati di nuovo, finalmente sicuri di non perderci ancora (cosa importa se sono caduto, se sono lontano…). Come qualche giorno di tristezza nei mesi che sono passati, in cui sei ricomparso come da un sogno a consolare. Vorrei avere mani di ragazzo piene come le tue.

"Ma voi che siete a Rimini, tra i gelati e le bandiere
non fate più scommesse sulla figlia del droghiere"


È bello pensarti adesso, nell’odore umido dell’aurora. Pensare che resti, tra le altre, la mia persona.
Dicono che torni presto. Ripartiremo insieme.

giovedì 16 aprile 2009

Stasera (-quale allegria-)

"Quale allegria
se ti ho cercato per una vita senza trovarti
senza nemmeno avere la soddisfazione di averti
per vederti andare via... quale allegria"


Ti ho salutato molte volte, più di quanto abbia mai fatto con chiunque altro. Molte volte ti ho visto andare via, mi sono girata e ho ripreso a camminare. Ho una vita piena, sai? Casa mia scoppia di film in compagnia e libri a cui dare il tempo, ha milioni di angoli comodi e pavimenti diversi. Ho imparato a portarmene dietro delle parti, per controllare la nostalgia, ora che ci ho fatto il callo andare e venire non è più ogni volta una separazione. Sono abituata a salutare.
Anche adesso, per quanto possa parlare e tirar fuori altri argomenti, per quanto ancora ci sia luce e sembri pomeriggio, so che devi salire le tue scale, allontanarti. Ma non è come è stato molte volte. Stasera ti vedo salutarmi, e con te mi voltano le spalle tutte le persone che se ne sono andate, tutte quelle che nel tempo ho perso. Come se il tuo saluto fosse tutti i saluti, tutti gli addii, tutti gli abbandoni del mondo, e te ne andassi senza fermarti insieme a tutta la gioia di questa giornata bellissima. E’ una sensazione sconosciuta, che mi spaventa, con cui non so confrontarmi. Ho rivissuto i miei distacchi parlandone a te, che hai saputo contenermi come forse nessuno finora, ti ho affidato parole e segreti imbarazzanti. Te ne vai anche tu, adesso.
Vorrei chiederti di restare, di venire con me una sera di più. Di smettere di guardare il portone di legno come avessi fretta e non sapessi come congedarmi. Vorrei chiedertelo tanto che le frasi mi salgono dal basso fino al petto, alle spalle, alla gola. Dirti di non lasciarmi sola, non mettermi di fronte la strada di casa, non fingere che tanto ci vediamo domani. Resto zitta.
Me lo ricordo, sai? Lo so perché non posso chiederti di restare. Potrei farlo anche solo per sentirmi dire di no, non sarebbe strano da me, neanche faticoso. Ma mi sono promessa, ti ho promesso che non l’avrei più chiesto: non ne ho la dignità né riuscirei a rivedere la faccia che fai, quando ti è difficile spiegarmi che non puoi. Hai ragione, tutte le ragioni: non puoi, a causa mia. Tu le vedi, le parole dentro la mia gola, le vedi sconfinarmi nello sguardo e non sai come reagire. Vorrei aiutarti e dirti che non è niente, di girarti e non starci a pensare, vorrei che passassi una bella serata facendo le cose ai tuoi ritmi. Resto zitta. Non so essere bugiarda fino a quel punto.
Ti stringerei tanto da non ricordarmi più il mio nome, continuerei a parlarti di tutto, ti permetterei qualunque domanda. Ma ti guardo andare via, come molte altre volte. E sei tutte le schiene voltate che ho visto in tanti anni, anche se cerchi, generosamente, di guardarmi finché non giri l’angolo. Combatto con la mia sensazione sconosciuta, con la bolla vuota che mi è rimasta.
Mi fermo dopo pochi passi. Non torni. Torno io allora. A casa mia.

domenica 22 febbraio 2009

Propositi

"So, so you think you can tell
Heaven from Hell
blue skies from pain
can you tell a green field
from a cold steel rail?
A smile from a veil?
Do you think you can tell?"


Si cammina a grandi passi in questi giorni. Per cui pensa velocemente senza per forza guardarti intorno e magari - magari! - cerca di parlare meno. Nessuno ha bisogno di troppi colori forti, le parole in eccesso diventano pesanti come segni di pastelli a cera. Quindi tienile per te.
Una volta che sei ben sveglia, vestiti in fretta ed esci, non serve a niente restare a indugiare sui sogni. Certe volte non si va per amore del vento, ma solo perché si hanno le scarpe, anche con piedi piccoli come i tuoi. Ché il futuro è uomo e non ha pazienza. Uomo come lo sguardo in cui ti tufferai, prima o poi, sentendoti annegare. Adesso no.

C’è un vasto deserto di rabbia che mi sento addosso, che vorrei prendere a calci come facevo anni fa col cuscino vecchio del divano. Non posso più mettere a tacere i rumori, né quelli degli altri quando fanno chiasso per nulla, né quelli della mia testa, ultimamente tanto affezionata ad un’idea. Così arriva sempre il punto in cui sono irritata abbastanza da mettermi in riga e rimproverarmi, e capisco a cosa sono servite le distese di terra arata in mezzo a cui passavo in bicicletta, il loro odore di polvere ed erba, quella silenziosa ed efficiente produttività. A farmi smettere con questa indulgenza ridicola verso me stessa, a farmi venire in faccia la concretezza spicciola delle cose. Muoversi, studiare, organizzare. Tanto non ci sei lo stesso.
Cos’è la bellezza. Non sono mai stata d’accordo con nessuno, non conosco regole uniformi, so solo che la vedo come qualcosa che brucia, scoppia, si sprigiona nel centro di qualche parte di te e che qualche volta, più o meno spesso, ti impregna come di un colore o di un odore inconfondibile. Che da lì irradia, arriva fino all'esterno, e la avverto sotto la pelle come avessi un’antenna segreta per sentirti. La bellezza è quando passi la mano sul tavolo e non pensi che ti stia guardando, quando vedi qualcosa che ti apre un universo intero. È persino la sera che saltavi di gioia e che non ci potevo fare niente, non ci posso fare niente. Chissà se ogni tanto ti è capitato di ripensarci, o se hai preso una scorciatoia in modo da dimenticartene. Come la vedo, la bellezza. Non è importante.

C’è freddo e domattina si cambiano le lenzuola. Ci si esercita nella pronuncia e si fa ordine tra le carte, si toglie la polvere dalla scrivania e magari - magari! - si cerca di parlare meno. Muoversi, studiare, organizzare. Tanto non ci sei lo stesso.


"How I wish, how I wish you were here
We're just two lost souls swimming in a fish bowl
year after year
running over the same old ground
what have we found?
The same old fears
... wish you were here"

domenica 1 febbraio 2009

Le strade di lei

Guardati mentre sorridi nel tuo maglione a righe, in uno dei pochi momenti in cui non ti fai giudice di te stessa. Guardati quelle volte che te ne freghi se stai alzando un po’ la voce o stai parlando di cose imbarazzanti: è allora che penso di averti capita. Ti vedo come in un dipinto, sei un’aggraziata farfalla indaco e rosso: fragile e veloce, sbatti le ali in un cielo confuso muovendoti sicura, appena più a destra una rosa schiusa. E tu libera. Ma un solo secondo più tardi nel mio cervello le distanze si ristabiliscono secondo la norma, misurate nello spazio lungo tra casa mia e casa tua, due ore e mezzo di treno.
Adesso sarei curiosa di sapere cosa fai e cosa hai in testa, mentre tento di concentrarmi nello studio, provando a dimenticare che in me è iniziato un piccolo disgelo. E penso invece a com’è strano aver scoperto solo adesso la rara capacità che hai di risvegliare l’entusiasmo, di farmi dire questa è la mia canzone preferita, senti!, di farmi sostituire subito una bugia comoda con la verità. Di offrire quell’ascolto pieno di cui è persino difficile capacitarsi, di farmi credere nel modo più sincero che tutti meritano il meglio, ma più degli altri tu. Che ti intimidisci per un complimento e ti ostini a vederti inadeguata, ma senti ogni cosa come se ti travolgesse, e raramente abbassi lo sguardo. Che non ti vergogni di quello che pensi. Che ritorni.
Mi hai dato il privilegio di sollevare un velo e mi hai guidata mentre ci passavo sotto la mano, perché potessi capire. Sai meglio di me che, anche se il più pesante, è solo il primo di un cumulo di veli opachi, posati uno sull’altro, pronti a ribellarsi a qualunque intruso.
Sono una sconosciuta e lo so. Ma vengo con le intenzioni migliori, ho tolto anelli e bracciali con cui avrei potuto graffiare quella che tu chiami una corazza. Non mi interessa avere fretta né ho date di scadenza; in compenso mi conosco bene, già intuisco che mi mancheresti.
Ho forse i pregi più ridicoli e i difetti più gravi, eppure non riuscirei ad accontentarmi delle parole di cortesia. Puoi dirmele, se vuoi, me le prenderò lo stesso: ma per ora lascia che mi culli in questo senso di protezione, nella rete azzurra di poter pensare che partiremo, usciremo, ci fideremo. Per quello che era un pomeriggio in un bar, che mi ha portato a prenderti le mani, che ti ha fatto intravedere uno spiraglio. Come suggerendo una strada possibile, di cui potresti stancarti presto... o che forse sceglierai di continuare, con santa pazienza e molto stupore. Una delle tante strade che hanno svincoli e bivi e sentieri laterali, ma di cui non si vede la fine. Stringi gli occhi, guarda lontano. Dove guardo anch'io.

"Per questo avrai baci per regalo ogni Natale
e vino allungato con l’acqua delle rose
Ti daranno amore, amore, amore
e non filo spinato…”


Ti voglio bene!

martedì 13 gennaio 2009

Preghiera in gennaio

Prendere la vita tutta in due sorsi e poi sentirmene ubriaca. Ecco, lui è così: tutto quello che sono già stata, più qualcosa che non mi sarebbe mai venuto in mente, ed altro che non capisco ancora. E non è neanche una storia sola, sono milioni, eppure tutte riversate e accomodate addosso a me come un abito fatto bene: lui fa questo. Mi ha raccontato le puttane facendomele credere principesse, ha iniziato una canzone su due note che mi dilatano dentro, poi con uno scherzo perfettamente riuscito mi ha fatto ridere della morte. Mentre osservavo minuto per minuto, testarda come le onde, l’istante esatto in cui andava via, mi ha detto: respira pure, ritornerà. Respira piano, ritornerà.
Ho ascoltato De Andrè a piccole dosi oppure a cascate, ho preso una canzone e mi ci sono legata tanto, ne ho imparate venti nuove tutte in un giorno. Alcune le ho regalate, altre ho dovuto raccattarle dal pavimento quando le ho riavute indietro. Ed ogni volta quella percezione che torna: quella di essere in navigazione su un fiume ampio, tortuoso e limpido, e di andare veloce verso un luogo che non ha nome né coordinate, che non saprei come indicare agli altri ma che so di conoscere. Seguita quasi sempre dal completo spalancarsi dell’anima quando si finisce, come sempre si finisce, al mare. Un mare qualunque, l’unico mare.
Lui mi ha detto per primo, diretto come uno schiaffo e senza inutili preamboli, quanto è breve la vita delle più belle cose. Perché forse dopotutto non l’ho ancora imparato, e dire che me ne hanno date di possibilità. Di corsie d’ospedale, di cuscini bagnati, di semiparalisi. Di una mancanza che mi chiedo ancora adesso come faccio a non sentire incolmabile, e dello svanire dei sogni. Quanti anni ci vogliono, sapresti dirmelo, per capire come prenderla? Ma di nuovo eccoti che mi precipiti nel fango, nelle volute di strade che non avrei mai visto, con quell’assurda profondità della voce a cui non ci si può negare. Nel marciume maleodorante di un porto come nel candore dell’infanzia, nei muscoli e nei capelli, eccoti che mi riprendi. Eccoti.
Cosa lascio nel mio testamento, Fabrizio? Cosa troverebbero di me se domani sparissi per tutti? Se morissi e potessi guardare lo stesso. Forse le persone più importanti sarebbero le ultime a sapere. Forse avrei dovuto finirla e mandarla, quella lettera, perché avevo tante bellissime parole da dire rimaste mute, e avrei dovuto buttare a qualcuno di più la verità in faccia, rovinare gli oggetti, mettere spesso la mia felpa preferita. Magari nessuna delle tracce che lascerei parlerebbe davvero di me.
Ho la terra che mi ricorda chi sono, la memoria che tiene uniti i fili. Però, a te almeno posso dirlo, io ho tantissima paura. Non della morte, no, la signora viene quando è deciso: della mia vita. Tornerà mai il respiro accelerato al suono di una voce, torneranno i brividi, e lo scoppiare dell’universo intero nel tenere una mano? Io l’ho perso, ma dimmi che non è per sempre, con umana pietà, consolami. Raccontami che con gli occhi di un altro colore mi riempiranno delle stesse cose.
Raccontami che esiste un futuro felicissimo, che mi prenderà interamente, mi lancerà per il mondo. Un futuro che avrà mani e viso di ragazza ma un cuore di uomo, e braccia forti in cui cadere non sarà che lasciarsi prendere, non ci sarà l’ansia di smarrirsi, si potrà anche non vedere. Si potrà saltare giù dalla finestra e iniziare un volo bianco. E tutto sarà solo, tutto sarà allora finalmente, assoluto come certe tue canzoni. Totalizzante e pieno, come la sensazione di un bacio.

P.S.: Perdonami per non saper scrivere di te. E ridi pure, come ti vedo sempre da là in alto, ridere.


"In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità
a me ricordava la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa
Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore


Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati
a cielo e denaro, a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato
Libertà l'ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze a un ballo
per un compagno ubriaco

E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare
suonare ti tocca per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare

Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco, e ricordi tanti
... e nemmeno un rimpianto"