domenica 5 dicembre 2010

Prima pagina

Un libro deve iniziare sotto i migliori auspici. Bisogna accarezzare un po’ la copertina, capire se è quello adatto al momento, chiedergli permesso. Devi stare al caldo, e riuscire a passare un colpo di spugna su tutti i pensieri piantati nella testa, andarli a riprendere da dove sono sparsi, premere annulla. La maggior parte delle volte, è il libro che sceglie te: ti ha visto da tempo, ti stava aspettando, se potesse ti chiamerebbe per non farti perdere quel momento, quello in cui è lui, nessun altro.
Mi capita sempre una cosa strana aprendo una prima pagina, come se smettessi di saper leggere: gli occhi si spostano sulle prime righe senza ordine, senza capire, sembra che mi suoni strano l’italiano. Cerco di ricordarmi che non è una lingua straniera, il mio smarrimento non è comprensibile, torno alla parole iniziali, riprendo più piano. È una specie di bisticcio tra bambini, un tiro alla fune, una gara a chi ha più ragione. È la vista che si dibatte tra la mia lingua e quella dello scrittore. Perché anche se ho preso il libro per scelta, c’è un altro passo che devo fare verso di lui: lasciare la mia musica ed entrare nella sua, cercare il filo che l’autore mi ha lasciato per adattarmi al suo modo, essere in qualche misura nella sua testa. Se c’è una musica il libro parte, la prima pagina corre, il racconto partorisce immagini. Senza, sono costretta a usare il cervello e soffermarmi, ed è molto più faticoso.
Tradurre è più o meno la stessa cosa. Il testo è il mio esempio e il mio rivale, perché qualcuno ha saputo far meglio, o ci siamo capiti al primo sguardo. Davanti alla prima pagina cerco la mia musica, la porto avanti, se non sono certa leggo ad alta voce. Le parole stridono, rimbalzano, accarezzano, spesso sanno già dove andare. Non è che sia sempre contenta; ma provo a trattarla bene, la mia lingua, perché ho imparato che il rispetto reciproco è la base dei rapporti più duraturi.
E poi anche quando lo odio, quando mi pone mille problemi e mi fa girare a vuoto, non posso fare a meno di voler bene a un testo. Ogni cosa per me passa dal cuore, ogni frase detta, ogni parte della giornata: è così che leggo e traduco. E non vuol dire sempre rose e fiori, ma è il solo modo di vivere che conosco.



"Le mie parole son capriole, palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare
piccoli divieti a cui disobbedire
Sono andate a dormire, sorprese da un dolore profondo
che non mi riesce di spiegare
fanno come gli pare, si perdono al buio
per poi ritornare..."

mercoledì 17 novembre 2010

In-sociability

Viviamo a velocità diverse, tanto da lasciarmi senza una parola da scrivere. Ci oltrepassiamo senza esserci neanche scambiati uno sguardo. Mi pulsa il cervello a fine giornata, non trovo un modo per acquietarlo.
Me ne vado in libreria a sfogare il mio non saper che fare, in pomeriggi simili, che alle cinque già sembra notte. Porto a rimorchio questa rabbia immotivata di non sentirci e non parlarci più, porto la voglia di stare da sola, i denti serrati. E mi dirigo tra i libri sconosciuti: quelli non letti, che non voglio comprare, con autori mai sentiti e che non so di che parlano. Mi trasformo in commessa e metto in ordine le pile, allineo le copertine, evito che l’ultimo romanzo rosa copra quello geniale che conosco da tempo. Oppure li guardo con le mani in tasca. Non hanno la soluzione, ma ne sanno certamente più di me. Di fronte alla diversità e disponibilità delle loro storie, mi ridimensiono.
Vorrei poter scrivere per compensare la nostra mancanza di tempo, come se si potesse recuperare in qualche modo un contatto trovando le parole giuste. Mi riporto a casa la voglia di chiudermi la porta alle spalle e non sentire nessuno. Non aprire bocca. Far finta di niente e lasciar perdere il ritardo.

sabato 23 ottobre 2010

Trieste tre volte

Trieste è la vita che poteva essere. È l’altro lato di Genova, più freddo ma così vicino, così probabile. La guardo con una qualche memoria delle sue strade, ci sono stata tre anni fa per meno di due giorni, ma mi dà una sensazione familiare. Ho paura e voglia di restarci. Le cose qui dovrebbero essere diverse.
Cammino in mezzo a tantissima luce, una giornata tersa e tiepida, è pieno di gente per strada e la piazza si apre come un abbraccio, Trieste ha palazzi beige e grigio chiaro, chiese ortodosse. Mi sfiora il sottile desiderio di conoscere quei bar, acquisire il passo deciso e mirato di chi in un posto ci vive. Ogni persona mi incuriosisce, vorrei fermarmi a parlare, sedermi da qualche parte e darle una chance, a questa città che se ne sta nascosta. Mi frega l’orologio, e l’ennesima corsa verso una valutazione.
Poi c’è solo un lungo viaggio di ritorno, trecento chilometri, di nuovo. Mi mancano i colori della Liguria come una fitta, il mugugno così familiare, mi assale la voglia irresistibile di correre a Genova come alla madre che ti culla quando ti agiti. E mi accorgo di colpo che anche qui c’è lo specchio blu del mare, e c'è un treno che ci passa accanto in mezzo ai cespugli. Questo treno. Attacco le mani al finestrino a volermela prendere, tutta la scena, larga e imprevista com’è.
Trieste mi offre la sua ultima carta, dice che è disposta a darmi ogni cura e consolazione, col suo golfo inondato di arancio. Io sto bene dove sto e per nulla al mondo me ne andrei, ho voluto e scelto questo posto. Sono solo passata a vedere dove tutto avrebbe potuto essere. Ed è stato più difficile del previsto voltare le spalle.


“Siete azules, tres verdes, un dorado: todo cabía en el mar. La plata que nadie podría llevarse del país: entera bajo una tarde nublada. La noche desafiando el valor de las barcas, la tranquila conciencia de quienes la gobiernan. La mañana como un sueño de cristal, el mediodía brillante como los deseos.
Ahí, pensó ella, hasta los hombres debían ser distintos.”

sabato 18 settembre 2010

Trenonotte

Quindi per colpa di una canzone siamo romantiche, stanotte. Siamo silenziose e sornione come i gatti, con gli occhi stretti al buio. Nessuno può indovinare attorno a cosa mi aggroviglio.
Ognuno si calma a modo suo, nei treni, soprattutto dalle dieci e mezza in poi. Le signore spesso attaccano bottone, quelle conversazioni che iniziano col viaggio in questione e finiscono con i racconti dell’infanzia, poi “sa, io ho imparato a prendere il treno a sessant’anni per andare a trovare mia figlia”. Gli studenti leggono, i bambini si sdraiano addosso alle mamme senza un pensiero al mondo, tengono a bada con fatica l’eccitazione e la noia di tante ore fermi. Io non sono originale, io dormo con le canzoni. So che finché qualcosa suona tutto va bene.
When you get what you want but not what you need, when you feel so tired but you can’t sleep, stuck in reverse... erano mesi che non avevo un momento per essere sola. Nessuno mi chiede niente qui, non la sentono questa musica. Mi lascio accelerare il respiro dai ricordi, come se si gonfiassero e si imponessero, da quello che avrei potuto fare meglio, dalle parole che ho troppo misurato per paura. Perché non so mai come scriverti per farti piacere, e per quelle offese ingoiate che ogni tanto si rifanno vive, per il sopportare. Tears stream down your face, when you lose something you cannot replace, tears stream... Basta resistere, basta dimostrare. C’è un sapore così inaspettato mentre mi lascio piangere, da chiedermi perché ho aspettato tanto, perché me ne faccio ogni volta una colpa. È senza dolore, scorre, finisce, mi riempie di pensieri troppo dolci per condividerli con i loro destinatari. È come rivedere la parte di me che avevo perso, ma da lontano. Come una foto.
Perché non ci si può concedere troppo romanticismo senza mettersi a rischio. La signora seduta di fronte non si è accorta di nulla. Allora decido di poggiare la testa e scivolare silenziosa nel sonno. Lights will guide you home, and ignite your bones...

domenica 8 agosto 2010

Lievito

Adoro che in casa mia ci sia sempre il necessario per fare un dolce. E mi piacciono gli impasti fatti con le mani, quelli in cui ogni cosa all’inizio sembra stare per conto suo, sulle tavole di legno. Le uova, lo zucchero e la farina che non si riescono a unire, mi ricorda sempre la maionese impazzita, senza averla mai fatta. Mi prendo tempo per pensare e intanto impasto, con movimenti curvi e senza strattoni, perché la pasta sente e si innervosisce. La vedo modellarsi dal centro, sento il burro sciogliersi al calore delle mani, avvolgere tutto: è una sensazione di potere, ma anche di benevolenza. A me fa pensare alle carezze, agli sguardi senza parole.
Conosco bene la pars destruens dell’amore, ne ho vissuto il decorso come una malattia, non ti lascia mai sola. Mi manca tutto quello che è lanciarsi e costruire, sentire dall'altra parte una presenza stabile e non sfuggente. Evitare di pregare.
Dicono che le sfortune ti capitano se pensi in negativo. Stronzate, ti capitano in qualunque momento, puoi anche vedere la vita in rosa; per questo trovo irritante costringersi all’ottimismo quando sei pieno di rabbia, o trovare per forza il lato infelice quando non avresti di che lamentarti. Del resto, anche le belle sorprese amano presentarsi mentre pensi a tutt’altro.
La vita è un insieme di cose che non sappiamo se chiamare caso o destino. Io alla fortuna credo poco, scappa come gli amori confessati in anticipo. Mi fido delle persone, della musica, della buona letteratura e del cibo, tutto il resto può venire o non venire, può essere un premio o un’altra prova. La polvere del lievito è amarissima, ma è sempre l’ingrediente indispensabile.

lunedì 26 luglio 2010

Motivi

Il motivo per tagliarsi i capelli al limite dell’irriconoscibile è dimenticare.
Il dolore cambia la faccia. Dilata gli occhi, assottiglia le mani. Ogni volta che torna si prende qualcosa del tuo prima, e lascia almeno un paio di domande.
Stavano traslocando nella casa di fronte, mentre la terra mi sfuggiva sotto i piedi. Era me che portavano via, i miei ricordi archiviati negli scatoloni, ordinati e per colore. Mi vedevo come da un balcone di casa, occhi bassi e pugni stretti, cercando di trattenere tutto. Sembra una scena così lontana e innocua, vista da qui, è solo l’ultimo dei danni che ho fatto. È solo da lì che la storia è finita, da quel marciapiede ho preso congedo.
Ho desiderato così forte di non essere ciò che ero, da lasciarmi dei graffi sulla schiena, di quei segni che non puoi mettere via. Non qualcosa che spacca tutto in una botta sola, non uno di quei colpi che vedi esplodere e ti mozzano il respiro: un rastrello, un lavoro tenace di eliminazione, di negazione e pentimento. Il dolore taglia le vite in due, cos’eri senza conoscerlo, cosa diventi per non provarlo più.
Anche l’astinenza d’amore cambia la faccia. A volte impregna così tanto le cose da scordare e inumidire il corpo, e si confonde facilmente col ricordo che ho di te, il nostro inizio, la mia ostinazione. Altre volte, proprio per la sua qualità di assenza, sottrae le parti tenere di me un pezzo dopo l’altro. Si porta via lettere e l’apertura di certi sorrisi, le parole che pronuncio con più fatica.
Il motivo per tagliarmi i capelli con la frangia così corta è vedermi la fronte. Giulia diceva che magari ero abituata diversamente, ma sarei stata molto meglio ad averla sgombra, pulita, come le piaceva vederla nelle persone. Al di là della facile psicologia di queste cose, le ho dato retta con anni di distanza perché ho risposto a un’esigenza. Vedere la mia vita chiara e facile, staccando per quanto possibile dall’immagine di me più facile da accettare, ma schiacciata dal passato; cercare quello che è rimasto. Adesso allo specchio vedo la cicatrice verticale al centro e i pensieri esposti sulla fronte, su quella che senza più schermi laterali è la mia faccia.
Non ricordo più da quanto non avevo un aspetto così onesto.

sabato 8 maggio 2010

E intanto mi sorprendo

C’è una parte di me così sensibile alla bellezza che essere un po’ maschio è il solo modo per difendermi. È come un nucleo di burro, chiaro e muto, ma se lo lasciassi un minimo esposto mi esploderebbe addosso. Raccoglie la bellezza pura e rotonda di certe cose, per cui si risveglia, l’odore di salsedine su un paesaggio di riviera, o i movimenti delle mani dei bambini. Si riempie di un tono di voce perfetto e di tutto un insieme di prime volte. Come quando un sapore nuovo ti si scioglie in bocca, ed è solo dopo un attimo che realizzi e chiudi gli occhi.
A volte si poggia sulla bellezza di certe persone, e allora mi fa paura. Unisce curve e gesti, e toni scuri, e lo guardo impotente mentre si gonfia e si esalta, così pieno di euforia da trascinarmi a qualunque cosa. Si ferma con stupore su un vestito, sui giri dei capelli, si ricorda le sue spalle, le vene del suo collo e quasi tutto il corpo. Ha preso l’urlo profondo che divampa sotto il suo petto, le giravolte immense delle sue braccia, quella meraviglia così indiscutibile e netta che forse ancora si porta addosso, evidente, irresistibile. Che mi precipita dentro e affonda come una lama nella mia tranquillità. È quello che mi affretto a coprire, a far finta di no, che anzi, tutto il contrario.
C’è una parte di me così sensibile alla bellezza, da farmi chinare lo sguardo e modulare la voce, e stare attenta a limitare un complimento. Sono la sola che se ne accorge, l’unica che non può avvicinarsi. Così mi tengo composta e lucida. Per non rischiare, davanti a tutti, di sciogliermi in lacrime di commozione.

"Sai che chi si ferma è perduto
ma si perde tutto chi non si ferma mai
Sai che è ben poca certezza
ma spesso consola e rischiara
è profumo e candela... la bellezza"

domenica 7 marzo 2010

Estupideces

"Non hai mai sentito dire
che la bellezza delle cose
ama nascondersi
Ed è forte quello che ho dentro
distante dalla mediocrità
ho rischiato di perdere tutto per non subirla."


Bicipiti, pettorali, addominali. 15 kg per 20 ripetizioni per 3 volte. E quanto puoi resistere sul rematore.
Quello che mi ha sempre spaventata è ascoltare il mio corpo da fuori oltre che da dentro. Abbiamo interrotto i contatti nove anni fa, ma ci siamo separati pacificamente, l’ho lasciato che vinceva tutte le sfide e si prendeva i complimenti. L’ho lasciato che gli piaceva muoversi, ma doveva smettere.
Ho immerso antenne, mani e testa in tutto ciò che mi si spostava dentro. Nella precisa e molteplice definizione dei suoi dolori, contando e differenziando le sfumature, fitta, morso, punta, bruciore, crampo, rush, amore, delusione, impotenza, formicolio, nausea, tremore. Mi sono impegnata per anni a capire come stare meno male, quali sono i rimedi migliori, come spiegare ai medici l’esatta sensazione di quel dolore mai sentito. Ascoltandomi, attenta ai piccoli scricchiolii, dentro di me.
I muscoli si sono prosciugati, restando l’indispensabile, ed io sono diventata paurosa. Dopo un certo tempo, ho capito che il corpo non mi rispondeva più, che non mi avrebbe difesa da nulla: capogiri al solo tentare una corsa, un movimento più azzardato, un salto troppo alto. Non ce la facevo più con niente, e la mia sola risposta – costretta per anni, ma non del tutto – è stata tentare di proteggermi alla meglio, evitando ogni possibile contatto con qualcosa di più forte e più solido di me. Per tenere a bada la paura dei lividi, smettere coi sogni sul cadere e non sentirmi minacciata dalla maggior parte delle cose più normali, da una bicicletta o da un cane. Perché ero convinta, come in uno di quei telefilm di avventura, che sarei stata io a cedere.
In molto, lo so bene, ho ceduto. Rese che mi fanno male e di cui non scrivo. Ma in tutto questo il corpo mi ha solo accompagnato silenzioso, restando pieno di cicatrici e smagliature. A considerarlo debole, ininfluente, ci fai l'abitudine.

Ho messo piede in una palestra dopo secoli. In quelle stanze grandi, con poche finestre e il pavimento di un colore che non ti ricordi mai. Ciò che mi frenava era il confronto, l’imbarazzo di non ricordarsi neanche più cos’è una tessera di iscrizione. Il disagio di entrare mentre gli altri sanno benissimo cosa fare e al limite ti squadrano per capire da dove arrivi. Ho avuto rabbia e stomaco contorto, e immagini che sono state il mio pungolo, per risolvere i primi 4 minuti di movimento. Senso del ridicolo e un certo orgoglio della mia totale inesperienza, mentre mi facevo spiegare tutti gli attrezzi come ai bambini. Quelle leve e contrappesi che un tempo padroneggiavo così bene, e che per un tempo altrettanto lungo sono sembrati strumenti spaventosi, da evitare, costruiti per farmi male quando ero fragile.
Fa uno strano effetto vedere che, una volta seduta, sono io che posso avere il controllo. Mi colpisce, come se non me l’aspettassi, vedere che qualcosa riesco a superarla. Sentirmi supportata dalle amiche, anche se le mie sono quantità irrisorie, e anche se loro sono anni luce più esperte di me. Potermi esporre e potermi ridere, con loro. È una parte molto piccola della strada per non avere paura, che ha i suoi tempi e i miei tempi. E mi distrae. Adesso che ho bisogno di essere distratta, perché molte cose attorno a me franano, e può andare bene ogni tipo di sciocchezza.

"Abbiamo vagato a lungo
in quei discorsi preziosi e contorti
senza concludere
Ed è forte quello che ho dentro
distante dalla mediocrità
ho inseguito il rumore assordante per non sentirla"

giovedì 4 febbraio 2010

Dieci secondi

È la possibilità che non ho mai chiesto, è ciò che può essere frainteso e messo in ridicolo, per cui mi fermo sempre prima di bussare: per dieci secondi. Un pugno di colpi di lancette. Me li farei bastare, sono una persona piccola e veloce. Passo sempre, in tutti, veloce. Ma riempirei ogni millesimo di questo tempo minuscolo per dirti un’infinità di cose, senza mai aprire bocca.
Dieci secondi per accarezzarti le guance, con una mano sola, scorrendo il pollice al lato dei tuoi occhi, in cerca di nascosto di una scossa elettrica, e appena un’esitazione prima di abbracciarti, un respiro profondissimo, e poi spingere le mani sulla tua schiena, sentire il tuo contatto, e se si può non temere che scappi. Stringerti ad occhi chiusi senza un pensiero al mondo, con forza e senza far male, muovendo piano i palmi perché tu senta il calore, appena due secondi, alla fine, per posarti un bacio sul collo, sulla spalla, non conta.
Dieci secondi per placare questo bisogno fisico di sentire che esisti, da qualche parte, che non eri solo un sogno e che non mi hai lasciata. Per non darti il tempo di fare domande, perché non pensi di nuovo che sia eccessiva e non ti senta in dovere di nulla. Puoi rispondere alla stretta, potrei restarti così avvinghiata per minuti, si potrebbe giocare o farsi prendere come se ancora. O posso andarmene, senza che ti dispiaccia.
Dieci secondi perché non ci ho messo una pietra sopra. Anche sapendo che in quell’abbraccio, potrei non trovarti più.


"Attraversami il cuore
il peso della solitudine è variabile
l'amore si può mancare per un attimo
Attraversami il cuore,
perché arriva troppo presto
o troppo tardi si fa ricordare
e ritrovare i momenti perduti non è facile"

venerdì 15 gennaio 2010

Nevicare

"L’estate appassisce silenziosa
foglie dorate gocciolano giù
Apro le braccia al suo declinare stanco
e lascia la tua luce in me
Stelle cadenti incrociano i pensieri
i desideri scivolano giù..."


La neve a Granada, un arrivo inatteso. La guardo scendere un po’ incerta, quel bianco così leggero e pieno d’aria, sembra che non sappia come comportarsi. Mi attraversa con un vagone di domande, ognuna singola come i suoi fiocchi, ognuna diversa. E in-spiegabile.
Iniziamo a fare i conti sui mesi scorsi, su quello che non faremo in tempo a fare e vedere, sui palazzi in costruzione. Aria di neve sul tuo viso, sulla tua pelle tutt’altro che chiara. Aria di nient’altro da aggiungere. È gennaio, corro verso un anno fa. E me lo porto dietro, senza poterlo evitare. Neve, diventata così estranea e imprevedibile, capace di imbiancare la campagna in aprile.
La neve adesso è l’entusiasmo non voluto, infantile, deriso, il naso appiccicato alla finestra, e la nostalgia di poter meravigliarsi e correre fuori con Gloria, con il primo cappello tirato fuori dall’armadio. Pensare che oggi non si va a scuola. Nevica come se tutto volesse farmi ridere. Tante ore di musica e di riconciliazione.
Neve è il nome che ho dato al mio dolore, quando non trovo vie d’uscita dall’inverno della mancanza, dell’impossibilità. Lieve, paziente, che blocca tutto sotto di sé. Quella tristezza ormai quasi familiare che mi hai lasciato quando abbiamo smesso di parlare, è stata la mia neve, la mia incredulità di fronte alla tua schiena. Le tue promesse disattese, la mia neve. La foto in cui ridevi, la sensazione di non esserci mai, di non esserci mai stata. La lettera in cui ti ho scritto che, su di te, avrei voluto nevicare.
Ora se sono debole chiudo la porta, per non farmi scoprire dalla tua fronte corrugata, dalle parole con cui mi rimetti al mio posto. Neve, un telefilm di interventi chirurgici, bisogno di scollegare il cervello un’ora.
Oggi mi chiedo perché non ho rancore per come copre tutto, perché la difendo guardando fuori ogni cinque minuti, mentre spero come i bambini che non smetta, che si posi. Perché mi fa tenerezza. Sarà che ho così tanta capacità di perdonare, che scapperei fuori, e a questo ghiaccio dall’odore sconosciuto chiederei di dissetarmi.


"Something always brings me back to you
it never takes too long
no matter what I say or do
I'll still feel you here 'til the moment I'm gone

You hold me without touch
you keep me without chains
I never wanted anything so much
than to drown in your love and not feel your rain

Set me free, leave me be
I don't want to fall another moment into your gravity
Here I am and I stand so tall
just the way I'm supposed to be
But you're on to me, and all over me..."