venerdì 23 dicembre 2011

Apologia di Laura Pausini

Da tempo immemore faccio parte di quelli che “musica italiana sì, ma di un certo livello”. Una delle condizioni essenziali per selezionare la cosiddetta buona musica, naturalmente, sta nel prendere in giro senza tregua e senza pietà l’onnipresente Laura Pausini, emblema del pop italiano nel mondo, l’unica romagnola che sforna più hit radiofoniche che piadine.
Non lo nego, nel mio passato ho dei precedenti oscuri. Sono stata anch’io adolescente con l’innamorato impossibile, e mi sono fatta i miei bei pomeriggi al suono di quante notti perse a piangere rileggendo quelle lettere o incancellabile oramaaaaaai... Di conseguenza, ho una discreta cultura pausiniana, che a posteriori ho demolito con gran gusto per farmi due risate (memorabili le battute con Chiara, “Pausini, trasferisciti in Sudamerica o vai a stendere la sfoglia per la lasagna!”)
E tuttavia. Mi è capitato ultimamente di vedere qualche intervista, ascoltare nuove canzoni, riconsiderare il personaggio che la Laurona nazionale rappresenta. E mi vedo costretta a ammettere che mi piace. La Pausini è una che ammira un mare di gente - pur essendo lei quella col successo planetario - ed è amica di chiunque, si trucca in modo poco visibile e si mette pantaloni di pelle nera poco dopo essere ingrassata. Tra l’altro ingrassa perché, parole sue, “quando resto a casa per un periodo, MANGIO”, e se ne frega del gossip tanto se c’è da sapere qualcosa sul suo privato lo dice lei per prima. Sembra priva di invidie, la Pausini, rivendica di essere una terrona del nord e in tempo di crisi, anziché scegliere il pezzo d’amore di sicuro impatto, decide di uscire con la canzone più allegra dell’album. Insomma, una super famosa super tranquilla.
Come se non bastasse, questa donna è stata in grado di organizzare un concerto benefico da sessantamilapersone e piùdicentodonnecantanti, il tutto a San Siro, facendo cosa? Svegliandosi un giorno col pallino del girl power e ammazzando il suo computer di e-mail. Oltre a chiedersi quanto è lunga la mailing list di Laurona, la domanda che è rimasta sospesa nell’aria per tutto il concerto, attaccata a ogni mano tesa e nelle risate d’emozione di molte cantanti, è stata “come è possibile?”. È possibile se dietro c’è una persona priva di supponenza, che duetta con chiunque con la stessa gratitudine, che sembra stupita di ogni successo che ha, e non si fa problemi complicati di stile o di (im)possibilità. Ha chiesto, si è offerta in prima persona, le hanno risposto. Con una semplicità molto poco europea, verrebbe da dire.
Capiamoci, questa donna canta ascolta il tuo cuore, fai quel che dice anche se fa soffrire (versi degni di Fabio Volo) e si è macchiata di crimini imperdonabili, come rifare Spaccacuore di Samuele Bersani. Ergo, non inizierò a cantare l’ultimo singolo per strada né improvvisamente me ne andrò in giro per concerti pausiniani, a sgolarmi sulla solitudine o a dividermi tra lei e il mare... continuiamo ad essere su due strade musicali diverse. Apprezzo la sua notevole potenza vocale e il suo fare deliziosamente romagnolo, ne apprezzo la trasparenza così poco scontata, e persino gli ideali. La trovo il simbolo di un’Italia che è bello esportare, perché si dà poche arie e dice quello che pensa (un po’ come la Mannoia). Ma continuerò a sfotterla finché disco non ci separi.
Quindi Laura, “non vivo più, non sogno più”... ma NON CANTO PIU’ no eh?!

giovedì 24 novembre 2011

Non ti muovere

Lo sai cosa succede se ti avvicini?
Corri un rischio che neanche ti immagini.
La conversazione potrebbe deviare dai libri o dai vestiti, potresti smettere la tua perenne aria di fuga. La prossemica si studia per teatro, tecniche di comunicazione, differenze culturali. Da persone disciplinate, abbiamo studiato a lungo a quale distanza stare.
Invece mettiamo che ti avvicini. Potrebbe succedere che i nostri occhi si fermino alla stessa altezza, gli uni di fronte agli altri, e in un incastro del genere ci potresti anche cadere. Potresti vedere giornate intere in cui non avevo affatto voglia di fare ciò che dovevo, e serate che invece mi hanno dato il meglio, tirandomi fuori. Potresti vedermi certe mattine, quando ho fatto sogni così violenti che uscendo di casa mi tasto addosso e mi guardo i piedi, per controllare di non essere nuda.
Se ci mettiamo di mezzo le mani, poi, potresti dimenticarti di tutti i motivi per cui il mio affetto ha smesso di mancarti. O magari ti tornerebbe su la rabbia, come succede a me ogni tanto, l’impotenza di fronte alle risposte deludenti, lo sguardo accigliato con cui finora ho evitato certe scelte e certi gesti. E tagliato le parole. Le mani sono la cosa più pericolosa ci che potrebbe succedere. Ma forse le nostre sono diventate due sconosciute.
A volte mi davi piccoli calci sulle scarpe, come i bambini quando dicono e dai. Avevo ancora più voglia di abbracciarti, ma è stato sempre così difficile. Col tempo, è diventata la fatica di doversi guadagnare ogni singola tenerezza, ogni ora in più del tuo tempo. Ho collezionato ritagli di te. Dopo, ho cercato di selezionarli come si fa con i poster dell’adolescenza, che tieni solo quelli a cui sei affezionata, o che ti fanno vergognare di meno.
Ma mettiamo sempre che ti avvicini. Mi sono ricordata di quando mi poggiavi il mento sulla spalla, è stato così strano che mi sono chiesta se davvero eri tu. Nel frattempo sono stata talmente tante persone. Però adesso, se muovi un braccio a toccarmi, nell’immediato potresti innescare una sospensione delle difese. Potrei guardarti con una domanda scritta in faccia, o persino arrivare a chiederti come stai. Peggio, potrei venirti incontro a mia volta.
Allora lo vedi, tenere sempre un metro vuoto in mezzo ci serve eccome. Non ti avvicinare, resta dove sei. Non ti muovere.



We'll fast forward to a few years later
And no one knows except the both of us
I've more than honored your request for silence
And you've washed your hands clean of this

What part of our history's reinvented and under rug swept?
What part of your memory is selective and tends to forget?
What with this distance it seems so obvious?

sabato 5 novembre 2011

Post scriptum - Su Genova



Svanito il sapore del vino dolce e della ginja, in bocca sento solo il fango, la marea nera che ha sconvolto e annegato la mia città. Ieri è stata ansia, rabbia, tristezza.
Ma stamattina mi ha telefonato una mia cara amica, che le ore dell’alluvione se le è passate fra quelli che nuotavano in un metro e mezzo d’acqua. Niente panico nella voce, niente voglia di polemica: mi ha parlato dei fiumi, del vecchietto che le ha spiegato che bisognava picconarli, dei capotreno che hanno dovuto fare il turno doppio perché quelli di Quezzi non uscivano di casa e i telefoni erano in preda a una strana sindrome. La macchina spostata cento volte per salvarla dalla fiumana, la strana inquietudine mai sentita prima, ma poi alla mamma “va tutto bene, figurati!” e le risate con la compagna d’ufficio. Non siamo nati mica ieri, capataz.
Cristina, quando l’ho sentita, si sentiva impotente come me; e incredula, mentre le sue colleghe in ospedale dal pomeriggio si fermavano anche la notte “finché qualcuno non arriva a dare il cambio”. Ho sentito l’amarezza sua e delle altre infermiere mentre arrivavano le notizie dei bambini morti, a colpirle come una perdita personale, come tutti i bambini, o tutte le vittime.
Allora mi sono ricordata che le catastrofi che piombano addosso a una parte o l’altra del mondo non somigliano agli speciali tv, ai primi piani degli occhi per beccare la lacrima, alle interviste con domande brillanti tipo “hai avuto paura?”. Che le parole disastro o tragedia o dramma hanno un significato profondo e terribile che il loro uso sconsiderato rischia di farci dimenticare. Sono come questa gente, a cui l’acqua che conoscono da una vita si è rivoltata contro dal lato opposto del mare. Sono come chi stamattina ha fatto il conto dei danni che ha subito, ringraziando che non gli sia andata peggio, e riprende a mugugnare ripulendo le sue cose; ma hanno anche il colore del lutto e del pianto, che con le risposte scocciate del sindaco non ha niente a che spartire. Ogni anno di pioggia ne arriva troppa, la città è stata costruita con criteri che non ne tengono conto, che hanno intrappolato i corsi d’acqua. Le strade in cui amo passeggiare sono diventate un fiume pericoloso.
La telefonata di stamattina mi ha svegliato dall’anestesia dell’enfasi mediatica che mette tutto sotto il microscopio, nell’immediato, e di colpo dimentica: mi ha riportato fra la polvere e la dignità della terra, in tutto il tempo che servirà per farla tornare come prima. Amìala cum'â l'arìa amìa cum'â l'è, cum'â l'é.

Appunti di viaggio

Porto

Che strana urbanistica ha il Portogallo. Guardo la cartina cento volte e non so mai di sicuro se ho azzeccato la strada. Andiamo un po’ a caso per questa città deserta, di domenica pomeriggio, c’era scritto sulla cartina che i portuenses non vanno in giro. Ci prendono in contropiede le salite così ripide per la cattedrale di pietra grigia, e poi un numero imprecisato di scalini per scendere, finché non arriviamo a ciò che da subito volevamo vedere: il Douro intorno a cui tutto sembra affollarsi. Sulla Ribeira la città ha una metamorfosi. Si dirada la nebbia, si arricchiscono le case con gli azulejos che proteggono dall’umidità, la gente guarda i gabbiani e il fiume bevendo vino su enormi pouf colorati. Mi sembra di essere in una Genova popolata di granadini, vedere delle teterías sparse sul Porto Antico, ascoltare il dialetto di De Andrè mischiato allo spagnolo. C’è quell’aria umida e decadente delle vecchie città di mare (perché appena più in fondo si apre, il mare), un po’ più abituata ad essere ammirata, ma con lo stesso orgoglio suscettibile. È facile dimenticare dove mi trovo, camminare come su una nuvola fino al gigante di ferro Dom Luis I. Porto è la città dei ponti. A vederla da qua in alto la cosa più naturale è fermarsi a metà, fissarsi sul sole arancione che sfuma l’acqua e gli edifici. “In Portogallo non abbiamo albe, solo tramonti”: sono tra i più belli che abbia mai visto.




Lisboa

Le salite e discese stavolta non ci stupiscono più. Ci stupisce invece il sole limpido e caldo, da manica corta, mentre picchia sui tetti rossi di una città che non somiglia a nessun’altra. Bianca, marrone, asciutta e chiara, Lisboa si può guardare dall’alto o dal basso. Dalle onde del Rossio, dalla cattedrale dei treni, dalla praça do Comercio che si tuffa in acqua. Oppure da Santa Luzia, dove scopri che il Tejo è immenso, dall’elevador de Santa Justa su cui l’amico della guida ti fa salire a scrocco. Puoi guardare nelle case dalle finestre senza vetri del tram 28, prendere freddo la sera se non stai attento. Lisboa ha il sapore dolcissimo della ginjinha mescolato con l’aspro delle ciliegie, morbido come il pane delle bifanas. Ha il potere di farti scordare la stanchezza delle ore di cammino col rumore delle onde sotto la torre di Belém, con i pescatori immobili per ore e con la cannella sui divini pastéis de nata. Tornando in ostello, la sera, mi lasciava la sensazione di giornate complete, piene di attività; nonostante la mia tendenza a tormentarmi di pensieri, Lisboa mi saziava la mente e mi regalava il modo di staccare da quello che restava, in un altro mondo, tutto il resto della mia vita.
Quando poi iniziavamo a pensare di orientarci, Sintra ci ha sbalzato nella foresta delle favole. Era davvero matto il miliardario che si è fatto un giardino che sembra un labirinto. Devono esserci andati dei bambini, a colorare il Palacio da Pena in quel modo strampalato, devono esserci stati orchi e gnomi che hanno lasciato ai massi quelle forme tonde. Ci sono volute gambe volenterose e una buona sciarpa, per non fermarsi a metà strada e salire fino in cima. Ma la vista da lassù ha ripagato ogni stanchezza.







Cabo da Roca - Onde a terra se acaba e o mar começa

Qualsiasi cosa dovrebbe essere vista sotto questa luce. Circonda e schiarisce, fa arrossire, e penso che tutto, chiunque, qui apparirebbe bellissimo. Il vento entra nel cervello e disperde tutti i pensieri maligni che ci restavano attaccati con piccoli uncini. Senti soltanto il suo soffiare, non sei più nessuno per il resto del mondo, se non un metro e cinquantaqualcosa a un passo dallo strapiombo. Non c’è bisogno di avere una vita, basta questo turbine e le montagne e il mare intorno che ti fanno vedere di cosa sono capaci. Si dovrebbe poter tornare qui, ogni tanto, per smettere di sentirsi in trappola, di avere un carattere, di litigare, di preoccuparsi del futuro. Si dovrebbe vedere questa luce, questo vento. Chissà se basta ricordare.

lunedì 26 settembre 2011

Forma mentis

Sono cresciuta in un paese piccolo, in cui conosciamo il benzinaio, la fornaia e la salumiera del supermercato. La signora dell’edicola sa esattamente a che punto sei della tua vita e come stanno i tuoi parenti, il barista ti dà i biglietti del pullman senza neanche chiedere. Ci si presenta per soprannome di famiglia, in dialetto, quando si cerca qualcosa si sa sempre dove andare.
Da piccola, abitavamo in un condominio al primo piano, affianco a zio Pierino. Al piano di sotto, nonna nonno e zia Pina, al piano di sopra zia Caterina. Tenevamo le chiavi sempre attaccate alle porte, a pensarci ora, altro che ladri. Mi ricordo la resina degli abeti che non si staccava dalle dita, i legnetti per fare zattere legate male, il tavoliere di nonna sempre su due sedie. Sentirsi grande quando ti davano il permesso di sbucciare le mandorle col martello. Il cancello come rete da pallavolo, il fracasso del portone della rimessa quando giocavamo ai dieci fratelli con le cugine.
Siamo andati a casa nuova in campagna che avevo una decina d’anni, ma siamo stati soli per poco. Adesso nelle case accanto ci sono zio Pierino, zia Pina e zia Caterina. Siamo una specie di villaggio vacanze in cui le porte d’ingresso non le usa nessuno: si passa dalla cucina, dalla veranda, dalle porte finestre sempre aperte. Se zia Annamaria ti invita per il caffè, è scontato che possa apparire Andrea, Elena o zio Piero, se ti bevi qualcosa sul divanetto la sera d’estate puoi ritrovarti in dieci dopo mezzora. È una sorta di paese in miniatura, una rete di risate e chiacchiere, che ha i suoi momenti di invadenza così come quelli geniali. Ma nessuno sente il bisogno di chiedere permesso.
Io sono della stessa forma. Si arriva facilmente, senza superare prove. Si entra a far parte di un via vai in cui si può scegliere quanto fermarsi: in una casa non entrano solo gli ospiti più desiderati, sarebbe tutto troppo distillato. Chiaro, alcuni vorrei farli restare più tempo, preparo da mangiare e da bere, moltiplico l’accoglienza, con altri è tutto più veloce. Alcuni vanno via sempre quando la conversazione stava entrando nel vivo. Ma sono una persona poco abituata alle distanze e alle formalità, permesso scusa per piacere non ti offendere posso? Le ho imparate dopo, e non sono la cosa che mi riesce più naturale. Sono un po’ ruvida, lancio frasi mal presentate, penso sempre un attimo in ritardo che potevo dare fastidio. Per i miei pochi chiavistelli le chiavi le do io stessa. Ma il microcosmo che mi ha cresciuta mi ha insegnato che spesso le cose più oneste, le migliori, non passano per un lento tastarsi e annusarsi per stabilire una compatibilità molecolare. Sono estemporanee, a volte terra terra, sono risate fragorose e parole a profusione. Entrano senza problemi, ma vanno via tranquille se capiscono di disturbare. Portano con sé inviti, racconti da riraccontare, qualche libro, odori e gusti sconosciuti. Sono porte aperte a qualunque ora, senza passare per l’ingresso.

"Non parlarmi di sociologia
non fermarmi mentre scivolo via,
nei salotti bene che piacciono a te
si fuma e si parla di polvere...
Spesso stando fermi si viaggia di più
dillo agli imbecilli con cui viaggi tu
Salgo su una stella la mia ideologia
è un altro universo,
è casa mia
è un luogo diverso,
è un'utopia..."


domenica 24 luglio 2011

Un guanto

Un guanto precipitò da una mano desiderata
a toccare il pavimento del mondo in una pista affollata
Un gentiluomo, un infedele lo seguì con lo sguardo
e stava quasi per raggiungerlo, ma già troppo in ritardo,
e stava quasi per raggiungerlo, ma troppo in ritardo
Era scomparsa quella mano e tutta la compagnia
e chissà se era mai esistita
Era scomparsa quella mano e restava la nostalgia
e il guanto e la sua padrona scivolavano via


Guardo le lunghe file di libri che alternano i colori sulla libreria. Ci ho messo una settimana a buttarli a terra e rimetterli in riga, uno dietro l’altro, uno accanto all’altro. Quanti ne salverei se dovessi scegliere? Ho un’allergia alle liste limitate, dimmi i primi dieci, i quindici libri della tua vita... tanto lo sappiamo io e loro, cosa ci ha legati. Con alcuni una storia passeggera, una decina di giorni estivi e poi amici come prima, con altri lunghe nottate di passione in cui solo l’orologio ci imponeva di fermarci. Alcuni mi sono stati genitori, altri amici d’infanzia, solo pochi prolungavano il mio braccio così naturalmente da potersi chiamare amanti. Precisi e caldi come un guanto, per le mie mani sempre gelate. Nella familiare sensazione di deserto che provo ogni anno tornando a casa, dove mancano le reti delle uscite e a provare attrazione per me sono solo le zanzare, sento più distintamente le voci di ognuno, e ognuno nella sua voce.

Siamo state insieme Gemma, te lo ricordi Margaret? Abbiamo sofferto il suo abbandono e l’abbiamo scossa per le spalle quando aveva perso tutto. Imparato che è meglio aver costruito basi solide, quando il passato riappare. Sono stata il desiderio di somigliare a Clarice, al suo fisico allenato e al suo sprezzo del pericolo, oppure la fiducia immotivata di Assaf che corre verso una sconosciuta, la cecità rassicurante di Emilia, la fatica di romperla. Adesso che sono padrona della casa, guardo di lato Modesta: è stata asciutta e veloce nella sua piccola distruzione, quella dei limiti imposti e dell’idea che esista qualcosa di assoluto, perché l’amore prende forme sesso e natura diverse senza che qualcuno per forza ne soffra. Sono la scarsa delicatezza di Magda e le figuracce di Bridget, i silenzi ostinati di Clara, sono Darrell stretto nelle corde che lascia indietro il corpo quando vaga fuori di sé, sono Margherita che in fondo mica ci ha mai creduto veramente di poter essere amata gratis, e poi Idgie di infinita tenacia ammaliata da una chioma bruna, un maschiaccio in mezzo alla polvere. E Alda, Jane, Italia, e Michele, Lizzie. Davanti agli scaffali come Reneé, in questa stanza tutta per me, in cui ho imparato da Alexis che restare troppo a lungo è un errore peggiore che andarsene. Sono cresciuta con la fantasia di Eva, ma prendendo lezioni di guerra e di bellezza da Adriano. E mi sento finalmente padrona delle mie possibilità.

Allora basta con tutti questi “non essere scorbutica, chiudi bene le porte, vai a mangiare da zia”, con tutte le raccomandazioni che odio perché mi fanno ancora sentire la ragazzina che non si sa comportare. È con una certa soddisfazione, cari miei, che io vi sollevo tutti dalla responsabilità di me. La casa mi ubbidisce, in testa finalmente mi si fa spazio. E come vedete, sono in ottima compagnia.

Oltre la pista di pattinaggio, e le passioni al dì di festa
e le onde di tutti i mari
e il trionfo nella tempesta e le rose nella schiuma
Il guanto era volato più alto della luna
il guanto era volato più leggero di una piuma
Oltre al luogo e all'azione e al tempo consentito,
e all'amore e le sue pene
Il guanto si era già posato in quel quadro infinito
dove Psiche e Cupido governano insieme
dove Psiche e Cupido sorridono insieme.


mercoledì 18 maggio 2011

Guardami forte

Non so se sono l’unica a cui capita, non è neanche la prima volta. Quando vedi un film che tocca qualche corda di te, qualcosa anche di piccolo in cui inspiegabilmente ti riconosci, e ci sei immersa con tutte le scarpe quando arriva la fine tragica. Ed è come se per ore, anche giorni dopo, cercassi consolazione per quello che è successo al tuo personaggio in quella trama, provassi a tornare al momento in cui tutto andava bene. Oggi vorrei quella consolazione, delle più difficili da trovare.
La musica in certi casi è una così grande alleata. Trova quasi sempre le parole che servono alla tua bocca chiusa, incapace di articolare, coi sorrisi tristi. Nei film in fondo basta premere il rewind, e dopo un po’ l’effetto svanisce. E poi, pensandoci bene, con me è la memoria che crea le trame peggiori, che in qualche occasione supera le attrici. Sono i nostri gli errori quelli che bruciano di più, mai quelli degli altri. Nonostante il lavoro perenne su me stessa, so che non sono stata brava nelle scene madri, e ce ne ho messo a far pace con questa consapevolezza. E con te.
È stato un lungo contorcersi in un rapporto senza nome, a metà fra amicizia e amore, fra amicizia e nulla, sbagliando quasi ogni passo e sfruttando sempre troppo poco la discesa dei desideri. Avremmo passato anni a parlare senza sosta, ma non abbiamo fatto altro che regalarci silenzi lunghissimi, fino a che evitarsi è diventata la scelta migliore. Era come il tempo di due mesi fa, grigio e un po’ arrabbiato, così pieno di chiasso da essere senza parole. Tutto era sommerso da un'acqua che copriva le voci, inghiottiva gli umori, tutto era un guardarsi negli occhi senza farsi più domande. Eppure da così lontano, diventa quasi evidente che la causa era solo un affetto appassionato, matto e disperatissimo, un tenerci ostinatamente vicino, che abbiamo lasciato sfumare.
Ho riconosciuto ancora la tua voce ridotta a una flebile eco, dopo tanto tempo e in un mondo capovolto, senza morsi né abbracci abbandonati. Nel lieve imbarazzo che forse segue i finali tragici, ma non ci hanno mai fatto vedere. Hanno lanciato una sfida alla nostra fantasia, ci chiedono se sappiamo far crescere una trama nuova, un sequel degno del cinema. Me lo chiedo anch’io. Sono pronta, potrei dirti, guardami forte. Ma per adesso, mi basta riuscire a consolarmi per il film.

Mi stringo nella giacca
chiudo un bottone di più
un altro buco alla cinghia
giù il passamontagna
Sulle mie spalle strette
la vita scivola via
piccole ali di cera su una candela

Meglio le spalle strette
pochi ricordi si posano addosso
meglio le spalle strette
stringiti forte che scivoli via



giovedì 21 aprile 2011

Col piede sinistro

"Però (cosa vuol dire però)
Mi sveglio col piede sinistro
quello giusto"


Da un paio di settimane, il mio piede sinistro ha deciso di salutare la primavera con dei simpatici dolori ossei. Sì, quelli che non dovrei avere più, amen. Sono strani dolori, per cui non ho definizioni possibili. Tensioni, fitte, morsi, punte, storte, niente ci si adatta: è una specie di male interno che i muscoli non saprebbero mai dare, che non mi lascia poggiare il piede a terra, mi fa cedere la gamba e rischia di farmi cadere ogni volta che lo risveglio. Tutto quello che ho dentro e fuori in questo periodo somiglia a quelle necrosi, è netto, pulito e senza scampo, è nato da una lunga storia passata che ricordo, ma che mi sono buttata alle spalle.
Il mio piede sinistro, ho scoperto, mi serviva per stare in piedi, fare il letto, andare da un’aula all’altra, cucinare e fare shopping. Come quando un’indigestione ti fa contorcere gli addominali, e scopri tutti i muscoli che non sapevi di avere. Non me ne sto curando troppo, se mai ci fosse un modo di curarsi. Il vero risultato della sua recrudescenza però, curiosamente, è stato quello di farmi rallentare. Vado piano in casa, dove la necessità di stare seduta mi ha portato a riascoltare qualche bel disco, a scappare un po’ meno dai miei doveri. Cammino storta e piano da un punto all’altro della città, mettendoci il doppio del normale, con le fermate come gli autobus. Così mi sono accorta dei colori che sono cambiati, di quanto si apre la vista quando c’è sole e dei merli, che ho visto per la prima volta nei giardini di Quarto e ritrovato in via Zanchini. Non ho fretta, non più: aspetto senza l’ansia di dare un nome ai rapporti, di sapere, di finire i compiti, di rispondere. Sembra che l’importanza delle cose non ricada più su di me.
Mi piace credere nel destino ogni tanto, a piccole dosi, perché dà una spiegazione ai disastri irrimediabili. Nel caso, credo che il mio sia un destino di merda. E che in realtà non mi interessa, perché ho creato qualcosa attorno a me e non faccio del male a nessuno. Perché a volte ho uno di quei pensieri universali e ridicoli, affacciandomi sul lungomare: possiamo costruire strade dritte e misurate, ma avranno sempre una salita e una discesa. La linea perfetta ce l’ha solo dio.


"Ho deciso di perdermi nel mondo
anche se sprofondo
Lascio che le cose
mi portino altrove...
non importa dove"


giovedì 7 aprile 2011

A metà strada

"Una sola volta nella mia vita, nella realtà e non nell'anemia cerebrale del sonno, una porta si spalancò davanti a me, la porta di una persona che voleva difendere a ogni costo la propria solitudine e la propria misera impotenza, che non avrebbe mai aperto nemmeno se le fosse crollato addosso il tetto in fiamme. Solo io avevo il potere di vincere quella serratura: la donna che girò la chiave aveva più fede in me che in Dio, e io stessa, in quell'istante, credetti di essere saggia, riflessiva, buona, razionale, come Dio. Ci sbagliammo entrambe, lei che si fidò di me, io che confidai troppo in me stessa. Ma ormai poco importa, perché ciò che è accaduto non si può rimediare." [Magda Szabò]


Sono state le mattine in cui andare in facoltà era un sollievo. Sono stati i saldi venuti il giorno dopo aver comprato qualcosa, la voglia di cioccolato senza averne in dispensa, o le mail in cui mi hai scritto che non potevi più di così. Sono state le ossa doloranti e la musica, le vene troppo strette sulle tempie che non mi portano ossigeno al cervello. È stato il giorno in cui ho capito di essere una traditrice. Sono state le pagine bianche dell’agenda, i treni in ritardo. O forse, il semplice gesto di mettermi in discussione: la convinzione di aver sbagliato strada, obiettivi, approcci, e dover rifare tutto di sana pianta. Una specie di scattino nella mente, un click.
Mi sono sempre richiesta un’estrema precisione. Indicare gli oggetti con esattezza, e parlare combinando i termini giusti, sfogliando la mente, sforzandomi. Per tutto il tempo, era diventato come camminare sulle uova, perché non ti puoi rimangiare le cose una volta dette, non è concesso, e allora attenta. Finché non mi sono detta che non ero costretta a usarle, le parole. Nessuno mi obbligava a spiegare, a esprimere, non era poi necessario che rendessi pubblici aspetti di me che mi portavano a descrizioni contorte, slanci incontrollati. Magari per colpa delle cose date per scontate, mentre quelle dette per intero sono cento volte più utili. Ho relegato il mio amore per il linguaggio ai testi degli altri, mi sono sollevata da questa responsabilità.
E dopo aver voluto e cercato per mesi di essere qualcun altro, sono diventata una persona che non mi piace affatto. Una persona che sente commozione senza saperla accettare, che ha smesso di avere sempre una canzone sulle dita. Torna indietro, uno direbbe. Ma quello che ho alle spalle mi fa ancora paura.
Lo so che ogni cosa tornerà al suo posto. Dovrà farlo, prima o poi, forse spero ancora che qualcuno lo faccia per me. Ma nel frattempo resto a metà strada in silenzio, in disordine, e in ascolto.

sabato 19 febbraio 2011

Parigi ad occhi aperti

I turisti li riconosci perché guardano. Come se si potesse passare a occhi bassi davanti a questa grandezza.

Parigi si sveglia e si sentono già le campane a Notre-Dame
il pane è già caldo e c’è gente che va per le vie della città
Le campane dai forti rintocchi
come canti risuonano in ciel
e tutti lo sanno, il segreto è nel lento pulsar…


Parigi è una canzone della Disney. Quella che non riesco a smettere di canticchiare mentre mi fermo a metà su un ponte e guardo la rivière, i gabbiani sparsi: Clopin che spiega con le marionette chi è il vero mostro a Notre-Dame. Per certe cose non crescerò mai, e quando sollevo gli occhi sulla guglia vedo Quasimodo arrampicarsi, senza far finta che le storie sentite e risentite non vadano più di moda. Vorrei essere un animale e salire, troppe colonne, tetti, punte e ricami di pietra sono alti e inaccessibili, ma è lì che sta tutta l’immaginazione dei poeti, l’intera ragione per cui scegliere questo posto come centro di così tanti mondi. Dal basso non posso che fermarmi ammirata di fronte a un mare di spazio, altezze libere e colorate di vetri, sorridendo a ciò che sognavo di vedere da forse dieci anni. Le figure scolpite sulla facciata assistono al nostro piccolo vagare scoordinato ogni giorno, dai loro ranghi serrati, e passare qui sotto è come acquisire di colpo una realtà fisica sulla terra. Lo sguardo dell’immortalità ti sfiora la testa.
Parigi è il silenzio, un silenzio che dura ore. Si ferma tutto il resto finché sono qui, per lasciarmi pensare in pace o per togliermi il bisogno di farlo. Per farmi spalancare gli occhi e non dover neanche sorridere senza voglia, perché nella mia mente c’è posto per i percorsi, le distanze, i colori e i sensi, poco altro. Mi faccio spazio in ogni strada quasi scavando l’aria, creando una direzione mia, non importa quanto giusta o efficiente. Ascolto le voci enfatiche dei bambini, e nel frattempo cammino sopra al semestre appena finito, allo stress accumulato, alle rassegnazioni, scaccio via tutto senza una sola parola di rabbia. Per questo il silenzio di Parigi assomiglia alla libertà, al rispetto per gli altri, e amplifica la meraviglia nelle chiese e nei quartieri di domenica mattina.
Parigi è un museo con un grande orologio dorato. Il posto dove gli ultimi si prendono la rivincita, come in un disco di De Andrè. Nobili signore ritratte col profilo migliore, su sfondo monocromatico e con un bel rossetto violento... donne senz’anima e senza niente negli occhi, superate una sala dopo da una lavandaia che racchiude il doppio dell’emozione in uno sbadiglio. Il verde e il blu che Van Gogh vedeva nell'aria o in una cappella di campagna, che da sola non avrei mai scovato, a disposizione sulle pareti. E a salutarmi, gli occhi dell’Olympia che mi fissano impudenti, la sua mano come la sfida di una prostituta, molto più forte di me.
Parigi somiglia a Londra. O a Roma, a New York immagino. A tutte quelle grandi città in cui sei un puntino su una mappa di cui vorresti vedere tutto. Mi aggiro come ipnotizzata o in overdose, non so bene, tra le varie lingue che riconosco a orecchio e tutte le vie che portano alla Senna. Parigi è una cupola bianca, il tondo delle ninfee, il sole la prima volta al tramonto, i ritrattisti, i colori delle linee del métro. È una barista coi capelli corti che ti risolve un problema, le cartoline dei bouquinistes, il tizio nero che ti soccorre quando cadi per le scale, è una salita che non finisce mai, dimenticarsi di mangiare. Somiglia a Parigi, a un abbraccio colossale, in cui a nessuno importa se stai ferma o vai avanti: protetta e isolata, quando te la senti, puoi metterti al centro della Stella e scegliere la strada che ti somiglia di più.

giovedì 20 gennaio 2011

Sogno

Sogno che sprofondo in questo viaggio mio mentale
E tutto è nella notte, la notte tutta uguale
Sogno che sei un urlo di bambino intrappolato
Il gioco è cominciato...


I sassi, li vedo uno ad uno. Vedo i miei piedi camminare sformandosi su quel liscio polveroso, salato, e sento il freddo anche se è come stare dietro a una macchina fotografica. Non arrivo al bagnasciuga, mi fermo a metà. Mi siedo con calma, perché ho tempo questa volta, mi sono presa il tempo. Il mio primo pacchetto di sigarette, ne accendo una e mi sdraio su quei sassi come se avessi sempre voluto farlo, il giubbotto ammorbidisce il contatto, fumo e respiro, poche voci e tutto questo vento.
È un’insenatura dimenticata dalla gente, questa, perché è sgraziata: sta tra la fermata del quarantacinque e il ristorante La terrazza, sotto una traversa cortissima, a malapena c’è una scala per scendere. Ma è per questo che ci sono venuta, portandomi dietro il mio bagaglio intero di domande, i pianti inutili e i discorsi ripetitivi, tutto chiuso nella lana del maglione finché non mi stendo lì, dove nessuno mi viene a cercare. Scusa dio che sto fumando, guarda che grigio che è il mare quando non lo stiamo a vedere. Guarda le storie che nascono mentre sei distratto, gli amori senza immagine di copertina di chi si è tenuta ciò che provava fin quasi alla fine; di chi ogni tanto sta stretta nella sua vita fino a volersi male, ma se la fa passare. A me lasciami stare qui al riparo, che ho la schiena poggiata all’asciutto e non devo raggiungere il massimo per nessuno. Sono venuta per un addio, e per avere uno specchio. Sono venuta a espormi alla cura silenziosa che altre volte ho ricevuto, a fare le facce che mi pare e insultare, a chiedere perdono. Non sai niente di ciò che mi è successo, ma che importa? L’aria mi spazza il petto da tutto il peso, non c’era poi bisogno di tante parole.
Quando riapro gli occhi il viaggio è finito, devo buttarmi di nuovo nel traffico del mondo. Era inverno, ma mi ricordo quella spiaggia tra gli scogli, col sapore troppo forte del fumo in gola. E dire che per tornarci bastava fare un sogno.


Ci sarà qualcosa persa per la strada,
ci sarà qualcosa che ritorna,
e che ti fa partire ora


Genova, vengo fra poco.

giovedì 13 gennaio 2011

Buongiorno buonafortuna

Si sveglia la città al ritmo sul volante
in coda dietro a un tram e dalla radio il presidente
Buongiorno a te che sei nascosto nei pensieri
in piedi dalle sei di oggi o dalle sei di ieri
C'è un conto alla rovescia per ogni settimana
confuso tra gli odori della metropolitana
A chi si sente a terra oppure sulla luna...
buongiorno buonafortuna!


Anno nuovo! … spazzolino nuovo. Non c’è molto altro da registrare, né mi è mai piaciuto parlare di vita nuova quando al massimo quello che cambio è l’agenda. Per dirla meglio, lasciando perdere che il 31 dicembre mi è sempre stato sul cazzo, non stavo certo aspettando che finisse l’anno per impormi dei propositi o guardare ai miei errori. Cerco di non posticipare a nessuna scadenza futura decisioni che posso prendere immediatamente, e anche se in alcune cose so essere una maga della proroga, mi sono accorta che per altre davvero, davvero non serve aspettare. Non c’è niente che possa distrarre da un’assenza o attutire certi colpi, è solo un lavoro di pazienza e voglia di andare avanti. Movin’ on, in certi telefilm lo fanno continuamente, per finta o sul serio. Tocca che reciti per un po’, cancelli i messaggi prima di mandarli e i pensieri prima di formularli, e poi tutti gli sforzi finiscono col diventare spontanei, anche quello di ridere. Lo ritroverai più tardi, il gusto di fare le cose per te stessa. Quando torna la voce alta per cantare con la musica a tutto volume.
Non ho voglia di bilanci né intenzione di farne, ci sono conquiste di cui vado orgogliosa e scivolate che avrei potuto evitare, con grande sollievo mio e altrui. Tutto quello che so di me è ciò che uso per darmi addosso, perché è da pigri ed egoisti ostinarsi a non cambiare. Nonostante mi sforzi, in molte situazioni non ho ancora imparato a usare i guanti, ad avere rispetto di certi sentimenti, a lasciarne sfumare altri. Per questo, a volte mi copro di ridicolo, e altre di quella vergogna che non ha mai la lettera maiuscola. Se capita che sono stanca, fisso lo sguardo su un punto preciso, e tenendo la faccia immobile mi do un attimo di respiro. Poi mi risveglio, mi ricordo di dove eravamo rimasti. Allora questo gennaio in fondo è solo un giro di calendario: mi ricorda le cose che ho imparato, e dove non voglio più tornare. Tutto il resto è work in progress.

Mollati da due giorni, cretini per amore
col figlio a scuola e l'incubo del professore
formiche indaffarate, calcetto della sera
contenti che un inverno si trasformi in primavera.