sabato 19 febbraio 2011

Parigi ad occhi aperti

I turisti li riconosci perché guardano. Come se si potesse passare a occhi bassi davanti a questa grandezza.

Parigi si sveglia e si sentono già le campane a Notre-Dame
il pane è già caldo e c’è gente che va per le vie della città
Le campane dai forti rintocchi
come canti risuonano in ciel
e tutti lo sanno, il segreto è nel lento pulsar…


Parigi è una canzone della Disney. Quella che non riesco a smettere di canticchiare mentre mi fermo a metà su un ponte e guardo la rivière, i gabbiani sparsi: Clopin che spiega con le marionette chi è il vero mostro a Notre-Dame. Per certe cose non crescerò mai, e quando sollevo gli occhi sulla guglia vedo Quasimodo arrampicarsi, senza far finta che le storie sentite e risentite non vadano più di moda. Vorrei essere un animale e salire, troppe colonne, tetti, punte e ricami di pietra sono alti e inaccessibili, ma è lì che sta tutta l’immaginazione dei poeti, l’intera ragione per cui scegliere questo posto come centro di così tanti mondi. Dal basso non posso che fermarmi ammirata di fronte a un mare di spazio, altezze libere e colorate di vetri, sorridendo a ciò che sognavo di vedere da forse dieci anni. Le figure scolpite sulla facciata assistono al nostro piccolo vagare scoordinato ogni giorno, dai loro ranghi serrati, e passare qui sotto è come acquisire di colpo una realtà fisica sulla terra. Lo sguardo dell’immortalità ti sfiora la testa.
Parigi è il silenzio, un silenzio che dura ore. Si ferma tutto il resto finché sono qui, per lasciarmi pensare in pace o per togliermi il bisogno di farlo. Per farmi spalancare gli occhi e non dover neanche sorridere senza voglia, perché nella mia mente c’è posto per i percorsi, le distanze, i colori e i sensi, poco altro. Mi faccio spazio in ogni strada quasi scavando l’aria, creando una direzione mia, non importa quanto giusta o efficiente. Ascolto le voci enfatiche dei bambini, e nel frattempo cammino sopra al semestre appena finito, allo stress accumulato, alle rassegnazioni, scaccio via tutto senza una sola parola di rabbia. Per questo il silenzio di Parigi assomiglia alla libertà, al rispetto per gli altri, e amplifica la meraviglia nelle chiese e nei quartieri di domenica mattina.
Parigi è un museo con un grande orologio dorato. Il posto dove gli ultimi si prendono la rivincita, come in un disco di De Andrè. Nobili signore ritratte col profilo migliore, su sfondo monocromatico e con un bel rossetto violento... donne senz’anima e senza niente negli occhi, superate una sala dopo da una lavandaia che racchiude il doppio dell’emozione in uno sbadiglio. Il verde e il blu che Van Gogh vedeva nell'aria o in una cappella di campagna, che da sola non avrei mai scovato, a disposizione sulle pareti. E a salutarmi, gli occhi dell’Olympia che mi fissano impudenti, la sua mano come la sfida di una prostituta, molto più forte di me.
Parigi somiglia a Londra. O a Roma, a New York immagino. A tutte quelle grandi città in cui sei un puntino su una mappa di cui vorresti vedere tutto. Mi aggiro come ipnotizzata o in overdose, non so bene, tra le varie lingue che riconosco a orecchio e tutte le vie che portano alla Senna. Parigi è una cupola bianca, il tondo delle ninfee, il sole la prima volta al tramonto, i ritrattisti, i colori delle linee del métro. È una barista coi capelli corti che ti risolve un problema, le cartoline dei bouquinistes, il tizio nero che ti soccorre quando cadi per le scale, è una salita che non finisce mai, dimenticarsi di mangiare. Somiglia a Parigi, a un abbraccio colossale, in cui a nessuno importa se stai ferma o vai avanti: protetta e isolata, quando te la senti, puoi metterti al centro della Stella e scegliere la strada che ti somiglia di più.