mercoledì 21 novembre 2012

Andata e ritorno

Usciti di casa c’è l’ascensore. Quattro piani un autobus due tapis roulant.
Penso all’estenuante necessità dei saluti, a quanto si possa resistere in quell’eterno prendere e lasciare, dirsi a presto, sorridere finché non sali in treno, credere che anche stavolta passerà in fretta. Fai bene tu ad anticipare tutto, a scappare un attimo prima. Comunque so che anche stavolta sono domande inutili, che tutto avrà la sua motivazione e la magia si ripeterà nel rivederti. Ci allontaniamo dalla stazione, dagli ultimi sprazzi di periferia della città. Io sono già andata via da almeno dieci minuti.
Prima, ci sono i campi di granturco, verdissimi a inizio estate, mezzi secchi ormai a settembre. Mi ricordano il regionalino per Pavia, e la prima volta che ho visto delle risaie, ridendo al ricordo del libro di geografia su cui studiavo alle medie (ma non ho ancora capito quella questione della barbabietola da zucchero). Capannoni industriali un po’ isolati, qualche casa diroccata, fiumi, Piacenza. Campi falciati adesso, gialli con un albero in mezzo, mi sembra quasi di vederli già sfuocati, contrastati e con le curve messe bene, e attraverso questa lente mi sono così familiari da essere una compagnia buona. A quest’ora passa ancora qualche trattore. Ritorniamo tutti alle tane, io e loro.
Stabilimento Bormioli a Fidenza, quello dei calici da vino vinti coi punti della benzina che mamma tira fuori la domenica, non troppo spesso perché sono noiosi da lavare e asciugare a mano. Sono lontana da quella tavola al sole apparecchiata, dai caffè così affollati, ma anche dal golfo di Genova, e ormai dal divano rosso. Mi porto dietro i fili delle mie vite e dei miei posti allungandoli a piacere, finché non si adattano alla vita contingente in cui mi trovo, sentendo la mancanza di tutti a turno, di qualcuno sempre, come ho sentito prima di ora la mancanza di Forlì.
Parma. Mi chiedo se quando ti costruisci una nuova realtà in qualche modo perdi qualcosa della precedente, o quante in totale ne puoi accumulare sentendole tutte addosso, senza chiederti in quale stai meglio, senza dover scegliere. Il sole tramonta fra Reggio Emilia e Modena, l'arancione è bello anche dal treno.
Bologna è un presagio di Faenza, controllo di aver preso tutto, si scende, si schiacciano di nuovo le foglie secche bagnate di Viale della Libertà. Non so se provo più la stanchezza del viaggio o quella di ritrovarmi di nuovo in questo continente umido e un po’ buio, la fatica breve dell’adattamento.
Salgo le scale e sono a casa. È casa anche questa, sì, una di quelle in cui non sono cresciuta da piccola, come quella che ho lasciato da tre ore. La differenza tra questa e quella sei tu. La differenza tra me e te è così chiara che non c’è stato alcun bisogno di porsi la domanda. Pochi minuti, poi questa stanza arancione mi si stringe un po’ meglio intorno, riprendo le redini di qui da dove le avevo lasciate. Contenta, naturalmente, di quello e di quelli che trovo, degli abbracci che già pregusto, persino degli impegni.
Tengo stretto il filo rosso che proviene da lassù aspettando la prossima volta. Prendere di nuovo il treno, avere pazienza. E trovarti ad aspettarmi con un cartello in mano, come se tornassi da un'altra vita.

Che salpino le navi 
si levino le ancore e si gonfino le vele
verranno giorni limpidi e dobbiamo approfittare 
di questi venti gelidi, del greco e del maestrale,
lasciamo che ci spingano al di là di questo mare
e non c’è più niente per cui piangere o tornare.

Si perdano i rumori
e presto si allontanino i ricordi e questi odori
verranno giorni vergini e comunque giorni nuovi
ci inventeremo regole, ci sceglieremo i nomi
e certo ci ritroveremo a fare vecchi errori
ma solo per scoprire di essere migliori.