mercoledì 26 settembre 2007

E così sia

Adesso, adesso che hai un po’ di tempo, fa’ un respiro profondo, chiudi gli occhi… e immagina.
Immagina un amore rotondo, completo, tutto da costruire. Un amore che ti invada d’improvviso senza lasciarti dubbi, che abbia la vivacità e l’intensità di un temporale che aspetti da tempo (o che non ti aspetti affatto). Che sia sicuro di sé, ma non troppo, tanto che tu debba rassicurarlo ma mai ripetere le cose allo sfinimento; che sappia come fare a non deluderti, e ti regali magliette colorate, che non dimentichi niente di quanto ti riguarda e sia speciale, solo tuo.
Immagina un amore la cui bellezza sia indiscutibile e rara, o per lo meno, che ti lasci pochi difetti da perdonare, e ti faccia disimparare del tutto i tuoi; forte, giovane e maturo, divertente, con lunghi riccioli scuri (o con i capelli corti, o lisci, o comunque tu voglia). Cerca di sentire le sue mani delicate a inondarti di attenzioni, a riscaldarti di mattina presto quando ti scontri con la nebbia azzurra e fredda della notte non ancora finita, e il suo sorriso meraviglioso a proteggerti. Prova a sognare un amore che non abbassi lo sguardo di fronte al tuo, che non sia mai neanche sfiorato dal pensiero di tradirti, che abbia timidezze comuni e arrossisca, ma senza dire sciocchezze solo perché è imbarazzato; e sappia far finta di niente, quando serve, e canti, canti con la voce più bella che ha, davanti a te.
Guardalo correre dietro al vento e abbracciarti di sorpresa, prenderti alle spalle e sollevarti in aria, farti scoppiare il cuore! Sorridigli quando ti guarda con gli occhi del desiderio, o quando non ti guarda affatto e sei tu ad averlo in mente, sorridi; immagina questo amore a riempirti di passione con un bacio, questo amore indiscusso e leggero, senza sensi di colpa e senza alcun rimorso, che sa cosa fare e cosa dire, e resta in silenzio se non vuoi sentirlo.
Dolce, magnifico, semplice e sorprendente, ad aumentare ogni minuto.
Lo vedi, riesci ad averne un’idea? Lo vedi, tu? questo amore pieno.

Ecco: questo è l’amore che vorrei per te.
Quello che io non sono.

“Buonanotte, anima mia
adesso spengo la luce
e così sia”

venerdì 21 settembre 2007

Sympathy

In questi giorni sembra che tutti vogliano qualcosa da me. Attenzione, favori, informazioni, telefonate, doveri, appuntamenti, libri, canzoni. Ognuno ha qualcosa da chiedere. Io fossi in voi, cari voi, non vorrei niente da me. Perché quello che riesco a dare è così poco, così svogliato, così striminzito, che non vale davvero la pena averlo, a mio modesto parere.
In meno di una settimana ho saputo dove passerò i prossimi cinque anni, trovato casa, scelto e comprato un portatile, sono andata a litigare col dentista, ho avuto un lavoro e una scadenza per consegnarlo, ritirato moduli, fatto l’iscrizione, ripreso la terapia, detto bugie e sperato e smesso di sperare e desiderato ancora. Perdo anche miliardi di capelli al secondo, mi devo meravigliare?
She was a failure, she said. […] It was sympahy she wanted, to be assured of her genius, first of all, and then to be taken within the circle of life, warmed and soothed, to have her senses restored to her, her bareness made fertile, and all the rooms of the house made full of life.
She wanted sympathy. Ma anche solo qualcuno che si faccia trovare sotto casa con un posto in macchina e il sorriso più presente che riesce a fare. O magari un attimo più grande, con uno sguardo che sia ti capisco, che sia ti voglio bene e so già cos’hai se vuoi ti porto lontano… e mi posi una mano sulla spalla, a dire che ci sediamo al bar facciamo due chiacchiere e parlerò io finché non avrai tu qualcosa da dire, ti parlerò di me adesso che posso, sarò così per te, accomodante quanto riesco, e ti guarderò fisso ma non sempre perché non mi dia nessuna spiegazione. Solo un pomeriggio leggero, non chiedo mica chissà che.

Sono stata così chiusa, così afona e immobile. Immersa nella tristezza e nel suo non sentire, solo aspettando… non si sa cosa. Per fortuna e in definitiva, aspettando molto poco. Giusto il tempo perché arrivassi.
Per poi avvertire di sera sempre nel silenzio, ma stavolta un silenzio splendido e pieno del tuo respiro, di colpo tutti i pori riaprirsi; sentire di nuovo con violenza il dolore, il calore, il dispiacere e come un miracolo, un miracolo, il petto battere forte. Deciso, veloce… Bellissimo.
A te che mi prendi d’improvviso, quando non me l’aspetto. Grazie.

"You are not my enemy anymore
there's a ray of light upon your face now
I can look into your eyes
and I never thought it could be so simple"

... When we'll wake up some morning rain will wash away our pain...

mercoledì 19 settembre 2007

The sound of silence (-autunno dolciastro-)

“Già settembre, poche voci distanti
e un autunno distratto al di là dei vetri
quasi speravo che non arrivassi più
quasi credevo che non mi mancassi eppure…
stavo aspettando”


C’è un silenzio così bello, così perfetto. E non è pace e non è amore, ma neanche l’incertezza di ieri, non è vuoto e non è pesante, resta solo sospeso attorno a me isolandomi da tutto, come una coltre spessa ma leggera. Potrei far finta di ignorarlo, chiudere gli occhi, tornare a casa e inventare un modo per ingannare l’attesa; sarebbe un peccato però. Sono sfinita. Questa quiete mi riposa, sembra messa qui apposta.
Fasano, le cinque di pomeriggio, nuvole scure, nessun messaggio ancora. Trascino i passi fino alla macchina e sembra che in giro non ci sia un’anima, è tutto così tranquillo e privo di pretese che vorrei ringraziare chiunque abbia costruito questo momento per me… Guido senza attenzione, come fosse naturale, con la radio accesa e senza alcuna meta precisa: mi cerco le strade più isolate, così da non dover scansare le altre macchine né spostare troppo lo sguardo.
“Eri tu, quel tasto dolente eri tu, autunno dolciastro eri tu…”
Ti aspetto fino alle sei. Le sei e mezza, hai visto mai servisse a qualcosa. “Dopo tanto sbandare” cerco di darmi un ordine e calmarmi, pur non smettendo di andare, piano, per questo paese semideserto e grigio, aria di pioggia, aria di pioggia sui vetri, e non solo. Penso ininterrottamente ma senza che nulla si chiarisca, senza decifrare quanto i ricordi mi facciano male e quanto mi portino a sperare ancora, semplicemente mettendo insieme un’immagine dopo l’altra con il cuore chiuso, impermeabile. Come se niente più mi toccasse, non adesso.
Lasciate che chiuda gli occhi e portatemi via di qui. Dolcemente. In silenzio.



“And in the naked light I saw
ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
people hearing without listening
people writing songs that voices never share
and no one dared
disturb the sound of silence”

sabato 15 settembre 2007

Desperate housewife

Giovedì di buon’ora, perfettamente calata nel ruolo della Brava Figlia Collaborativa, telefono a mia madre per chiederle se c’è qualcosa da fare in casa, visto che di mattina io sono libera e il resto della famiglia lavora. Candidamente lei mi dice: “No, non c’è niente da fare – bugiarda: per lei c’è sempre qualcosa da fare! – stai pure tranquilla. Al limite – eccola! – con un po’ di acqua e detersivo puoi lavare le piastrelle del bagno verde”
Ora, teniamo presente che:
- il bagno verde è il più grande di casa
- il bagno verde è tutto fatto di piastrelle. TUTTO.
… e qui, puntuale, arriva il colpo di grazia: “Passale due volte, prima con la pezza bagnata e poi asciutta, va bene?”. DUE VOLTE. “Sì, ok”. E sti cazzi.
Di conseguenza ho passato mattina e metà pomeriggio con le mani nell’acqua, ad arrampicarmi su scale e a strisciare sotto mensole basse, nonché a scivolare sulla vasca e fare lo slalom tra i sanitari, con l’unico scopo di detergere piastrella per piastrella, di lustrare ripiani, greche, specchi, insomma di tirare a lucido tutte le superfici piane possibili. E adesso non venitemi a dire che se mi fa male OVUNQUE sto prendendo l’influenza!
Mi sono sempre chiesta come si chiami la sindrome che porta mia madre a inventarsi qualunque improbabile tipo di pulizia, a non pensare mai che la casa stia bene come sta. Ogni piccolo acaro indifeso che osi presentarsi sulla soglia viene sistematicamente individuato e sterminato dal vigile occhio materno, a cui nulla sfugge; non c’è perdono né pietà per nessun capello caduto, per nessuna macchia sul pavimento, impronta sul mobile, briciola di pane in cucina. Mia madre è uno dei pochi esseri viventi in grado (e lo dico per comprovata esperienza) di mettersi a passare l’aspirapolvere nell’intero piano rialzato vestita e truccata di tutto punto per uscire, mentre noi la aspettiamo in macchina chiedendoci perché ci stia mettendo tanto…
Ora, non è che sia del tutto pazza. In linea di massima direi addirittura che ogni tanto ha ragione, perché questa casa è immensa e non si riesce a finire di pulirla che già bisogna ricominciare… Però delle volte noi poveri familiari si resta basiti davanti alla sua instancabile inventiva puliziesca, che la porta nei momenti più inaspettati a chiederci di lavare le scope o di lucidare le foglie delle piante, urlando e strepitando come un’ossessa che il mondo straborda di polvere!

L’unica stanza che sembra miracolosamente immune al suo controllo serrato, ringraziando il cielo, è lo studio. Il mio studio. Isola felice della musica e custode fedele dei libri, possessore di mille comodi anfratti dove si smarriscono fogli, grato contenitore del disordine, ideale rifugio dalle umane cure: il mio studio adorato! Non esiste un altro luogo in questa casa (in questo pianeta) dove mi senta a mio agio come nello studio, dove abbia lasciato più tracce e trascorso più momenti, non c’è altro posto dove si avverta in modo più tangibile la mia presenza anche quando non ci sono. Qui si trovano i biglietti dei concerti e tutte le fotografie, cinque anni di Liceo in decine di quaderni, la locandina di Onda Tropicale rubata, quel prodigio di gioia del mio stereo, il bicchiere di Coca Cola della stazione e il poster plastificato di Via del Campo 29/r. C’è Klimt sul divano, Van Gogh accanto ai dischi, e la consuetudine di ritrovarmi sempre a guardare l’albero di pepe finto di questo balcone, quando penso, scostando la tenda o lasciando impronte sulla scrivania di vetro.
Sì, non ci sono solo io, è vero, in fondo si tratta di una stanza al piano terra e in famiglia siamo in quattro… ma da che mondo è mondo, con il suo verde rassicurante, lo studio è mio. E quindi mia madre lo sa, mi piace essere io a pulirlo da cima a fondo, non importa quanto tempo mi ci voglia né quanta sopravvivenza in più sia concessa agli acari che popolano questo locus amoenus...!

In conclusione poi, vista dall’esterno e con un minimo di obiettività, mamma è una gran bella donna: ha gusto, senso pratico, fa delle crostate divine ed ammattisce per il caffé; riesce a trovare argomenti di conversazione con chiunque, è dotata di uno stupendo sense of humour e, aspetto fondamentale, quasi sempre lascia in pace lo studio.
Casualmente però, oggi mi ritrovo nella mia stanza, mani nell’acqua, a dover lavare il muro. Il muro. Perché quello che il mondo non sa è che mia madre nasconde, nel profondo di sé, l’anima psicotica di Bree Van de Kamp…

lunedì 10 settembre 2007

Strade (following epiphanies)

C’era odore di autunno, in quella strada larga, ti precedevo e ti seguivo cercando di non guardarti. Provavo a sentire le macchine, il vociare della gente, i miei stessi passi e quell’odore presente, provavo a non interessarmi del resto. Avevo bisogno di camminare, in effetti, per soffocare. Il pavimento a tessere colorate.
E’ che sempre così, da quando sono cresciuta e non so più controllarmi per bene, mi invento dei modi per andarmene da dove sono. Non avrei voluto. Ho stretto gli occhi e alzato la faccia, come una che non sa bene dove si trova, o come chi lo sa perfettamente e non vuole limitarsi a qui. Per non rischiare che mi arrivasse troppo addosso, per questo ho stretto gli occhi. Mi sono morsa le labbra, prima solo per pensarci su, poi davvero per farmi un po’ male. Tornare alla realtà.
Le strade così grandi danno sempre senso di confusione, e quello che uno spera è che tutti abbiano una meta precisa, che ognuno di quei volti pensierosi, di quei passi svelti e di quei caffé al bar abbia una destinazione, alla fine della via, che sappia benissimo cosa fare. Senza fermarsi, perché chi vince è perduto, e se anch’io mi fermassi potrei cadere. O girarmi e scappare, ma allora inciamperei nelle mie scarpe pesanti e sarebbe comunque cadere. Senza fermarmi, quindi.
La strada di casa mia era di ghiaia fino a poco tempo fa, aveva le buche e graffiava le gambe, toglieva la pelle, a cascare dalla bicicletta. Era così normale ferircisi che non lo sentivamo neanche più, ci si rialzava per correre, scivolare di nuovo, scappare davanti ai cani. Stavo in porta tra due muretti grigi e paravo anche fuori dai pali, ma il pallone finiva sempre sulle rose, chissà com’è. Si smetteva di giocare che ancora non era buio, mia madre che urlava, avevo i palmi delle mani rossi e polverosi che mi pulsavano un po’ per il dolore, il bianco della ghiaia sulla maglietta...
La strada di casa mia adesso se piove è nera d’asfalto: è un piacere andarci su, in bicicletta, e se cadessi al massimo sarebbe un livido. Però mi mancano le ferite dei sassi, che bruciavano e sanguinavano, ferite chiare, precise, da metterci su la saliva o al massimo, se c’è tempo, il disinfettante verde che non fa male. E tempo alla fine non ce n’è quasi mai.
C’era odore di autunno, in quella strada larga, quando ho pianto. Col viso girato dal lato sbagliato, piombata nella bambina che sono, pregando che quel maledetto autobus arrivasse in fretta e mi facesse muovere di nuovo. Perché lì ferma, appoggiata al marmo della vetrina, era troppo amaro e ingiusto piangere, quasi senza lacrime, con un senso di colpa indicibile. Piangere dalla paura di essere di nuovo sospesa sul precipizio del niente quando ogni cosa era stata a un passo, e allo stesso tempo voler ingoiare quel pianto per quanto era rabbioso, inutile, per nulla liberatorio.
Alla fine è passato, l’autobus.
Non passano le tracce che ho addosso, quelle che senti sotto le dita, che vedi appena nascoste dalla camicia… non se ne vanno mai. Ci ho riso e scherzato, ci ho passato su della crema, ho chiesto rimedi e me ne sono fregata, le ho dimenticate, le ho riviste. Non se ne vanno mai. Il mio corpo si è disegnato sopra decine di linee rosse, profonde o solo accennate, a volte incise, quasi sottolineature per ricordarsi di. E’ tutto quanto scritto, e solo adesso mi accorgo che non lo vorrei, che vorrei la pelle più liscia, serena. Perché sono cicatrici, ferme lì per sempre. E tu le senti.
Oggi mi mancano, per questo, le ferite dei sassi: quelle che con il disinfettante verde andavano via.


"E' la curva dell'estate sulla strada di frontiera
è la neve sui ciliegi è la mia casa di ringhiera
sono sogni e cicatrici, sono lacrime e radici
le parole che nascondo dentro me
scorrono e si confondono in fondo all'anima
... fin dentro l'anima"

domenica 9 settembre 2007

Perché viaggiare non è solamente partire e tornare...

[Comptine d’une autre été – l’après midi, Yann Tiersen]

Abbiamo da poco passato Ancona, e sono in questo scompartimento da un’eternità. Forse due. Ho messo le cuffie solo per darmi un aspetto, in qualche modo, nel momento in cui mi sono accorta che da minuti ed ore fissavo il finestrino restando immobile, ricordandomi solo ogni tanto di respirare. Lentamente, con pazienza, la musica mi avvolge e mi riporta al calore della realtà, muovo le gambe rattrappite in un angolo, ho il gelo nelle scarpe, mi stropiccio gli occhi ed è come se la mia mente gradualmente tornasse ad aprirsi. Ho pensato, pensato tanto, ricordato, rimpianto, adesso ascolto.
Le mie dita cominciano da sole a seguire il pianoforte, il sorriso ad aprirsi, i colori a farsi nitidi: mi sembra solo ora, per la prima volta dall’inizio del mio ritorno, di vedere davvero al di là del vetro, di uscire dal baratro di me stessa ed arrivare a guardare fuori… quello che c’è è la meraviglia.
Sembra che il treno viaggi su una distesa d’acqua, di un celeste intenso ma non minaccioso, placata, interminabile, serena: i binari corrono sul mare. Laggiù in fondo, una linea retta perfetta divide questa pace mostruosa e sconfinata da un cielo frastagliato di nuvole, rosa e arancio a tratti e poi ancora indeciso e scuro, ma senza mettere paura. Sono nuvole piatte, come una coperta, sarà una notte fredda, ma silenziosa. Davanti a tutto questo mi si spalanca lo sguardo, mi incanto nello stupore come se aprendo il più possibile gli occhi potessi farcela entrare, tutta quella bellezza, e trattenerla per sempre, e ritrovarla a volte, non perderla più.


Trieste, Bologna, Forlì. Sembra sia stato un secolo.

Sono scesa dall’espresso dopo 12 ore di viaggio con due ragazzi una madre e un gatto, e una città sconosciuta mi è sembrata subito casa mia. Mi è sembrato di essere libera di colpo, per un tempo immenso, di poter finalmente provare a briglia sciolta i sentimenti che volevo, provarli sul viso. Al centro della stazione, come soffitto, c’era una piramide di vetro e legno: mi sono seduta lì sotto e come un piccolo miracolo di accoglienza mi volavano sulla testa gabbiani, uno dopo l’altro, componendo parabole lente, ed erano lì da sempre, loro. Sì, anch’io.
Trieste ho deciso di vederla se e quando volevo. Fare cose assurde, come mettermi a leggere “Cent’anni di solitudine” su una panchina in un parco, solo perché c’era un buon odore e non mi andava di camminare… Sono uscita poi di pomeriggio, con i singhiozzi ancora lievi in gola e lacrime appena asciugate sulle guance. Una leggerezza sul petto e la voglia di vedere il mare… confusa, di una strana allegria, ho passeggiato guardando e sentendo ogni cosa, la piazza i palazzi le strade la stazione, colmando il vuoto, incurante di tutto. Ma quello che di più bello Trieste mi ha regalato è stato il tramonto meraviglioso che ho visto spuntare quando già volevo andar via. Mi sono voltata un attimo, ed eccolo: forte, magnifico, un sole rosso accarezzava tutto penetrando il grigio con il suo calore, riempiendo il freddo d’arancio, aprendomi il cuore! Il colore di quei minuti lunghissimi è ciò che mi porto dentro dall’altro estremo d’Italia, ed è moltissimo. Per com’ero, è moltissimo.

Bologna, niente di più splendido. Non trovo parole che descrivano, non le cerco. Suoni, sapori, odori, colori, emozioni, risate, non so come renderli… niente di più splendido, solo questo.

Forlì è stato un passaggio veloce, solo per farsi un po’ male le mani portando la valigia pesante e accarezzare un gatto nero, senza che mi sia guardata troppo intorno. Un passaggio, ma bello, leggero, divertente. Benissimo così.


Dopo quasi una settimana mi ritrovo nuovamente in treno, passata Ancona, con lo sguardo invaso dalla visione del mare, le mani ancora piccole, la fronte divisa in due, il cuore stracolmo. E sulle labbra il sorriso sorpreso e felice di pensare che io sono, ogni tanto, per te, anche qualcosa di bello.

sabato 1 settembre 2007

"Pace non trovo" - before leaving

Oggi tutto si scontra in me.
Sembra che qualcuno si sia divertito a prendere una serie di sensazioni diverse ed emozioni intense contrastanti che evidentemente avevo da qualche parte, e ad evidenziarle, a metterle insieme a caso nell’esatto centro di me, un po’ a destra del cuore. Qui tutto mi pesa. Altalenando tra la paura nera, fonda, tremenda, inspiegabile che ho, e un’energia gioiosa in fondo in fondo ottimista, pulita, luminosa, che è quella che vorrei.
E succede che mi basta una parola, una musica al momento giusto o al momento più sbagliato possibile, e non desidero altro che piangere, piangere, gridare ancora, e piangere. Avverto un perenne nodo in gola che sì, alle volte riesce a sciogliersi, lasciandomi ridere, ma che poi si ripresenta puntuale e stretto, pronto a farmi del male a suo piacimento.
Fa buio e ho ancora una specie di battaglia silenziosa che infuria, in un punto impreciso, senza che si sentano i rumori delle armi, senza che il fragore e le urla siano chiari e si facciano capire, ma che mi fa arrivare in bocca solo l’amaro del sangue. Vorrei piangere fuori lo sconosciuto che è in me.
So poi alla perfezione che potrei trovare tutta la dolcezza del mondo, non l’ho forse già trovata? Mi spaventa pensare. E’ tutto così poco definito, è tutto sospeso e oscilla, in bilico, so che nulla sarà come vorrei. Nulla di tutto quello che immagino, eppure testarda la mia mente non si ferma. A metà esatta tra l'allegria più sorridente e questa oppressione d'ansia.
Ogni tentata stabilità non lo era che per poco tempo, io lo sapevo, mi sono lanciata a capofitto senza un solo ripensamento e mi sono battuta perché fosse così, ho lasciato scivolare i giorni andando col sorriso sulle labbra verso questo terrore che - già sapevo - era lì ad aspettare, certo che anch’io, il giorno mio che è oggi, sarei arrivata. Inerme.
E ovviamente no, io non ci ripenso, e non mi pento di un solo istante, io parto stasera. Valigia in mano, scarpe allacciate, sola. Non saluto nessuno, questa volta, perché non voglio ritrovare nessuno come lo lascio: “che nulla sia più al suo posto, quando torno” pregherei. Ma questo sarebbe volere troppo, e allora che almeno io non sia più la stessa, al mio ritorno…
Valigia in mano, scarpe allacciate, sola.
Speranza, da qualche parte.
E la sensazione terribile e stupenda di essere a un passo dal possibile, come sull’orlo di un precipizio.