giovedì 11 luglio 2013

Stile libero

Chissà a cosa pensano i nuotatori lontani dalla riva. Come calcolano il fiato che gli serve a tornare indietro. Con che tipo di musica si accompagnano o quanto è spesso il silenzio che cercano. Si fermano, si guardano indietro, e forse ce l’hanno tutti quel momento di indecisione, se rientrare o prendere il largo. Chissà che ogni piccola vita non possa essere compresa in quelle lunghe andate e ritorni.

A volte mi sembra di non fare altro. Quando per qualcuno vado via, per qualcun altro sto arrivando. È sempre difficile quantificare quale delle due cose mi faccia più piacere. A volte penso di avere desideri così contrastanti che finiranno per tirarmi da un lato e dall’altro, e strapparmi in mille pezzi.

Da quando sono qui mi sembra di aver realizzato di colpo quello che mi è successo negli ultimi mesi. Mi sembra di vedere la forma distillata e cristallina della persona che sono diventata, come quando fai evaporare l’acqua di mare da un bicchiere e ti resta lo strato di sale. E luccica, e può essere tantissime cose. Penso al tempo che ci è voluto a trovarti, non perché sia stato tardi né presto, non perché mi abbia insegnato tutti i segreti, ma perché è tempo da recuperare. Penso ai troppi treni, alla sensazione calda di Plaza Bib-Rambla, a calle Puentezuelas, ogni tanto al porto di Vigo. Penso ai sogni ricorrenti e che qualcosa mi lancia segnali e io non so come afferrarli. E sono qui che guardo il sale di me stessa senza capire dove poterlo lanciare.

Chissà da cosa scappano i nuotatori lontani dalla riva, chissà chi è che li spinge sempre a ritornare.

A te il mare l’ho chiuso dentro un barattolo. Non per intrappolarlo, non per avvicinartelo. Ma perché ovunque mi portino i segni so che non sarà lontano da dove sei tu. Perché siamo come due nuotatori, e tra una bracciata e l’altra ci guardiamo, venendoci incontro.


In fondo al mare cadono le onde
riposano per ripartire 
e lasciano un'impronta sulla sabbia 
prima di sparire. 

In fondo al mare nuotano i miei sogni
pronti per risalire
Si aprono nell'acqua come fiori e in un istante 
vanno verso il cielo. 

Dedicami i tuoi spazi e questo immenso blu
Quale distanza serve per toccare terra?


mercoledì 21 novembre 2012

Andata e ritorno

Usciti di casa c’è l’ascensore. Quattro piani un autobus due tapis roulant.
Penso all’estenuante necessità dei saluti, a quanto si possa resistere in quell’eterno prendere e lasciare, dirsi a presto, sorridere finché non sali in treno, credere che anche stavolta passerà in fretta. Fai bene tu ad anticipare tutto, a scappare un attimo prima. Comunque so che anche stavolta sono domande inutili, che tutto avrà la sua motivazione e la magia si ripeterà nel rivederti. Ci allontaniamo dalla stazione, dagli ultimi sprazzi di periferia della città. Io sono già andata via da almeno dieci minuti.
Prima, ci sono i campi di granturco, verdissimi a inizio estate, mezzi secchi ormai a settembre. Mi ricordano il regionalino per Pavia, e la prima volta che ho visto delle risaie, ridendo al ricordo del libro di geografia su cui studiavo alle medie (ma non ho ancora capito quella questione della barbabietola da zucchero). Capannoni industriali un po’ isolati, qualche casa diroccata, fiumi, Piacenza. Campi falciati adesso, gialli con un albero in mezzo, mi sembra quasi di vederli già sfuocati, contrastati e con le curve messe bene, e attraverso questa lente mi sono così familiari da essere una compagnia buona. A quest’ora passa ancora qualche trattore. Ritorniamo tutti alle tane, io e loro.
Stabilimento Bormioli a Fidenza, quello dei calici da vino vinti coi punti della benzina che mamma tira fuori la domenica, non troppo spesso perché sono noiosi da lavare e asciugare a mano. Sono lontana da quella tavola al sole apparecchiata, dai caffè così affollati, ma anche dal golfo di Genova, e ormai dal divano rosso. Mi porto dietro i fili delle mie vite e dei miei posti allungandoli a piacere, finché non si adattano alla vita contingente in cui mi trovo, sentendo la mancanza di tutti a turno, di qualcuno sempre, come ho sentito prima di ora la mancanza di Forlì.
Parma. Mi chiedo se quando ti costruisci una nuova realtà in qualche modo perdi qualcosa della precedente, o quante in totale ne puoi accumulare sentendole tutte addosso, senza chiederti in quale stai meglio, senza dover scegliere. Il sole tramonta fra Reggio Emilia e Modena, l'arancione è bello anche dal treno.
Bologna è un presagio di Faenza, controllo di aver preso tutto, si scende, si schiacciano di nuovo le foglie secche bagnate di Viale della Libertà. Non so se provo più la stanchezza del viaggio o quella di ritrovarmi di nuovo in questo continente umido e un po’ buio, la fatica breve dell’adattamento.
Salgo le scale e sono a casa. È casa anche questa, sì, una di quelle in cui non sono cresciuta da piccola, come quella che ho lasciato da tre ore. La differenza tra questa e quella sei tu. La differenza tra me e te è così chiara che non c’è stato alcun bisogno di porsi la domanda. Pochi minuti, poi questa stanza arancione mi si stringe un po’ meglio intorno, riprendo le redini di qui da dove le avevo lasciate. Contenta, naturalmente, di quello e di quelli che trovo, degli abbracci che già pregusto, persino degli impegni.
Tengo stretto il filo rosso che proviene da lassù aspettando la prossima volta. Prendere di nuovo il treno, avere pazienza. E trovarti ad aspettarmi con un cartello in mano, come se tornassi da un'altra vita.

Che salpino le navi 
si levino le ancore e si gonfino le vele
verranno giorni limpidi e dobbiamo approfittare 
di questi venti gelidi, del greco e del maestrale,
lasciamo che ci spingano al di là di questo mare
e non c’è più niente per cui piangere o tornare.

Si perdano i rumori
e presto si allontanino i ricordi e questi odori
verranno giorni vergini e comunque giorni nuovi
ci inventeremo regole, ci sceglieremo i nomi
e certo ci ritroveremo a fare vecchi errori
ma solo per scoprire di essere migliori.



giovedì 9 agosto 2012

Qui

Ti piacerebbe qui.
L’aria dell’estate e tutto arido e netto come certe tue foto. Il sole implacabile si abbatte sui colori, rinforza i sassi, mette alla prova la terra. Ti piacerebbe qui perché ci attirano gli stessi dettagli, come calamite, e avresti caldo di che lamentarti, ma apprezzeresti un mondo che è rimasto un po’ antico. Di porte di legno scrostate e vecchiette che vanno al mercato, dialetto quasi sempre, una natura incerta se sbocciare una volta per tutte o restare ordinaria. Quanto spazio è aperto agli occhi vergini, quanto resta protetto per chi ha impiegato anni a imparare a vedere.
Ti ho detto portami in America, ti ho detto andiamocene lontano, perché se mi accompagni tu anche un posto spaventoso sarà facile, sarà sempre sentirsi un po’ a casa. Ti ho detto mostrami grattacieli e spiagge immense, per l’entusiasmo che so che avremmo e per inventarci storie improbabili, come il pesciolino nei guai con la giustizia che se ne va e poi torna.
Ma mi piace pensare che verrai qui. Perché sono orgogliosa di quello che la mia terra sta diventando, ma forse ancora di più di quello che è rimasta. Vieni da un’Italia che non sembra la stessa eppure ti sento così parte delle mie cose. Come se invece di essere straniera ti avessimo già adottata, perché io ti porto negli occhi, e sai già come guardare.
È che tu sei la bellezza delle cose che succedono e cambiano forma a tutto. E ti ho chiesto di andare insieme in chissà quante città straniere, ma vorrei solo poterti stringere nelle mie strade di pietra. Sentirmi completa, qui, una volta.

Benvenuto raggio di sole
a questa terra di terra e sassi
a questi laghi bianchi come la neve sotto i tuoi passi
a questo amore a questa distrazione
a questo carnevale...




mercoledì 8 febbraio 2012

Acqua

Oggi la città fa rumore d’acqua.
Distinguo il cielo dalla finestra e tutto gocciola inesorabile e lento, il manto di neve scende, i ghiaccioli alle finestre fanno meno impressione. Sembra che tutto abbia voglia di sciogliersi, oggi. E dopo lo strato di gelo potrebbe toccare ai tetti, alle pareti, potrebbero sciogliersi le tapparelle e le finestre, le macchine parcheggiate, liquefarsi le vetrine coi saldi e gli alberi piegati dal peso, i palazzi della facoltà, scivolare giù il campanile, potrebbe diventare tutta una pianura bianca e pacifica.
Io vorrei che mi si sciogliesse il nodo allo stomaco. Vorrei che passasse il tremore che non è freddo e non è paura, ma tensione e delusione. Tremo quando litigo, quando sono felice e vorrei dire molte più cose, ma sorrido e basta. Tremo se mi sento in colpa oppure per la rabbia, o quando le due cose si mischiano e ce ne vuole per calmarmi. Va tutto al contrario, sono stanca e sfiduciata mentre potrei starmene in vacanza senza pensieri. I miei sogni sono libri di fantascienza che finiscono sempre allo stesso modo: devo consegnare qualcosa e non faccio in tempo. Non riesco a finire per quanto mi sforzi, non sono sufficiente, come se anche nel sonno presentissi quello che vedo appena sveglia. Vorrei potermi sciogliere e sentire il calore, la speranza. Invece tremo, e non c’è coperta che conforti.

Una volta ti ho fotografato dei fiori viola. Ci ho portato la fotocamera di proposito, per il colore e perché erano proprio di fronte a casa tua, ma non li avevi visti. Avresti dovuto capire che il mondo non faceva tanto schifo come ti sembrava, che non tutti erano pronti a trattarti male, o un’altra serie di cose a piacere. La foto non te l’ho mandata, era un’idea stupida, ma ce l’ho ancora.
L’ho rivista oggi, col rumore dell'acqua che scende, mentre immagino Forlì come una grande pianura liquida.



"Abbiamo parlato a lungo
tu guardavi le mie mani
io la curva dolce del tuo sorriso
E un pensiero silenzioso
trafiggeva la bellezza
trasparente dei tuoi occhi
Avrò cura di te
e l'inverno sarà
senza neve né pioggia
senza ombre né nebbia..."

venerdì 23 dicembre 2011

Apologia di Laura Pausini

Da tempo immemore faccio parte di quelli che “musica italiana sì, ma di un certo livello”. Una delle condizioni essenziali per selezionare la cosiddetta buona musica, naturalmente, sta nel prendere in giro senza tregua e senza pietà l’onnipresente Laura Pausini, emblema del pop italiano nel mondo, l’unica romagnola che sforna più hit radiofoniche che piadine.
Non lo nego, nel mio passato ho dei precedenti oscuri. Sono stata anch’io adolescente con l’innamorato impossibile, e mi sono fatta i miei bei pomeriggi al suono di quante notti perse a piangere rileggendo quelle lettere o incancellabile oramaaaaaai... Di conseguenza, ho una discreta cultura pausiniana, che a posteriori ho demolito con gran gusto per farmi due risate (memorabili le battute con Chiara, “Pausini, trasferisciti in Sudamerica o vai a stendere la sfoglia per la lasagna!”)
E tuttavia. Mi è capitato ultimamente di vedere qualche intervista, ascoltare nuove canzoni, riconsiderare il personaggio che la Laurona nazionale rappresenta. E mi vedo costretta a ammettere che mi piace. La Pausini è una che ammira un mare di gente - pur essendo lei quella col successo planetario - ed è amica di chiunque, si trucca in modo poco visibile e si mette pantaloni di pelle nera poco dopo essere ingrassata. Tra l’altro ingrassa perché, parole sue, “quando resto a casa per un periodo, MANGIO”, e se ne frega del gossip tanto se c’è da sapere qualcosa sul suo privato lo dice lei per prima. Sembra priva di invidie, la Pausini, rivendica di essere una terrona del nord e in tempo di crisi, anziché scegliere il pezzo d’amore di sicuro impatto, decide di uscire con la canzone più allegra dell’album. Insomma, una super famosa super tranquilla.
Come se non bastasse, questa donna è stata in grado di organizzare un concerto benefico da sessantamilapersone e piùdicentodonnecantanti, il tutto a San Siro, facendo cosa? Svegliandosi un giorno col pallino del girl power e ammazzando il suo computer di e-mail. Oltre a chiedersi quanto è lunga la mailing list di Laurona, la domanda che è rimasta sospesa nell’aria per tutto il concerto, attaccata a ogni mano tesa e nelle risate d’emozione di molte cantanti, è stata “come è possibile?”. È possibile se dietro c’è una persona priva di supponenza, che duetta con chiunque con la stessa gratitudine, che sembra stupita di ogni successo che ha, e non si fa problemi complicati di stile o di (im)possibilità. Ha chiesto, si è offerta in prima persona, le hanno risposto. Con una semplicità molto poco europea, verrebbe da dire.
Capiamoci, questa donna canta ascolta il tuo cuore, fai quel che dice anche se fa soffrire (versi degni di Fabio Volo) e si è macchiata di crimini imperdonabili, come rifare Spaccacuore di Samuele Bersani. Ergo, non inizierò a cantare l’ultimo singolo per strada né improvvisamente me ne andrò in giro per concerti pausiniani, a sgolarmi sulla solitudine o a dividermi tra lei e il mare... continuiamo ad essere su due strade musicali diverse. Apprezzo la sua notevole potenza vocale e il suo fare deliziosamente romagnolo, ne apprezzo la trasparenza così poco scontata, e persino gli ideali. La trovo il simbolo di un’Italia che è bello esportare, perché si dà poche arie e dice quello che pensa (un po’ come la Mannoia). Ma continuerò a sfotterla finché disco non ci separi.
Quindi Laura, “non vivo più, non sogno più”... ma NON CANTO PIU’ no eh?!

giovedì 24 novembre 2011

Non ti muovere

Lo sai cosa succede se ti avvicini?
Corri un rischio che neanche ti immagini.
La conversazione potrebbe deviare dai libri o dai vestiti, potresti smettere la tua perenne aria di fuga. La prossemica si studia per teatro, tecniche di comunicazione, differenze culturali. Da persone disciplinate, abbiamo studiato a lungo a quale distanza stare.
Invece mettiamo che ti avvicini. Potrebbe succedere che i nostri occhi si fermino alla stessa altezza, gli uni di fronte agli altri, e in un incastro del genere ci potresti anche cadere. Potresti vedere giornate intere in cui non avevo affatto voglia di fare ciò che dovevo, e serate che invece mi hanno dato il meglio, tirandomi fuori. Potresti vedermi certe mattine, quando ho fatto sogni così violenti che uscendo di casa mi tasto addosso e mi guardo i piedi, per controllare di non essere nuda.
Se ci mettiamo di mezzo le mani, poi, potresti dimenticarti di tutti i motivi per cui il mio affetto ha smesso di mancarti. O magari ti tornerebbe su la rabbia, come succede a me ogni tanto, l’impotenza di fronte alle risposte deludenti, lo sguardo accigliato con cui finora ho evitato certe scelte e certi gesti. E tagliato le parole. Le mani sono la cosa più pericolosa ci che potrebbe succedere. Ma forse le nostre sono diventate due sconosciute.
A volte mi davi piccoli calci sulle scarpe, come i bambini quando dicono e dai. Avevo ancora più voglia di abbracciarti, ma è stato sempre così difficile. Col tempo, è diventata la fatica di doversi guadagnare ogni singola tenerezza, ogni ora in più del tuo tempo. Ho collezionato ritagli di te. Dopo, ho cercato di selezionarli come si fa con i poster dell’adolescenza, che tieni solo quelli a cui sei affezionata, o che ti fanno vergognare di meno.
Ma mettiamo sempre che ti avvicini. Mi sono ricordata di quando mi poggiavi il mento sulla spalla, è stato così strano che mi sono chiesta se davvero eri tu. Nel frattempo sono stata talmente tante persone. Però adesso, se muovi un braccio a toccarmi, nell’immediato potresti innescare una sospensione delle difese. Potrei guardarti con una domanda scritta in faccia, o persino arrivare a chiederti come stai. Peggio, potrei venirti incontro a mia volta.
Allora lo vedi, tenere sempre un metro vuoto in mezzo ci serve eccome. Non ti avvicinare, resta dove sei. Non ti muovere.



We'll fast forward to a few years later
And no one knows except the both of us
I've more than honored your request for silence
And you've washed your hands clean of this

What part of our history's reinvented and under rug swept?
What part of your memory is selective and tends to forget?
What with this distance it seems so obvious?

sabato 5 novembre 2011

Post scriptum - Su Genova



Svanito il sapore del vino dolce e della ginja, in bocca sento solo il fango, la marea nera che ha sconvolto e annegato la mia città. Ieri è stata ansia, rabbia, tristezza.
Ma stamattina mi ha telefonato una mia cara amica, che le ore dell’alluvione se le è passate fra quelli che nuotavano in un metro e mezzo d’acqua. Niente panico nella voce, niente voglia di polemica: mi ha parlato dei fiumi, del vecchietto che le ha spiegato che bisognava picconarli, dei capotreno che hanno dovuto fare il turno doppio perché quelli di Quezzi non uscivano di casa e i telefoni erano in preda a una strana sindrome. La macchina spostata cento volte per salvarla dalla fiumana, la strana inquietudine mai sentita prima, ma poi alla mamma “va tutto bene, figurati!” e le risate con la compagna d’ufficio. Non siamo nati mica ieri, capataz.
Cristina, quando l’ho sentita, si sentiva impotente come me; e incredula, mentre le sue colleghe in ospedale dal pomeriggio si fermavano anche la notte “finché qualcuno non arriva a dare il cambio”. Ho sentito l’amarezza sua e delle altre infermiere mentre arrivavano le notizie dei bambini morti, a colpirle come una perdita personale, come tutti i bambini, o tutte le vittime.
Allora mi sono ricordata che le catastrofi che piombano addosso a una parte o l’altra del mondo non somigliano agli speciali tv, ai primi piani degli occhi per beccare la lacrima, alle interviste con domande brillanti tipo “hai avuto paura?”. Che le parole disastro o tragedia o dramma hanno un significato profondo e terribile che il loro uso sconsiderato rischia di farci dimenticare. Sono come questa gente, a cui l’acqua che conoscono da una vita si è rivoltata contro dal lato opposto del mare. Sono come chi stamattina ha fatto il conto dei danni che ha subito, ringraziando che non gli sia andata peggio, e riprende a mugugnare ripulendo le sue cose; ma hanno anche il colore del lutto e del pianto, che con le risposte scocciate del sindaco non ha niente a che spartire. Ogni anno di pioggia ne arriva troppa, la città è stata costruita con criteri che non ne tengono conto, che hanno intrappolato i corsi d’acqua. Le strade in cui amo passeggiare sono diventate un fiume pericoloso.
La telefonata di stamattina mi ha svegliato dall’anestesia dell’enfasi mediatica che mette tutto sotto il microscopio, nell’immediato, e di colpo dimentica: mi ha riportato fra la polvere e la dignità della terra, in tutto il tempo che servirà per farla tornare come prima. Amìala cum'â l'arìa amìa cum'â l'è, cum'â l'é.