lunedì 30 luglio 2007

28/07/07 Farewell

Te ne sei andata in punta di piedi. Te ne sei andata di nascosto, io non ti ho sentita!
Sono venuta mille volte nella camera da letto in fondo al corridoio, ma non c’eri. Ho pensato che forse eri seduta in cucina, magari al telefono perché i compleanni e gli onomastici li sai tutti, giorno mese e anno, come un’anagrafe, e a tutti tieni che arrivi il tuo pensiero. Neanche in cucina c’eri.
Non credo che quella sia tu, così in silenzio. Eppure sono tue quelle mani di cera che stringono il rosario d’osso, proprio quel rosario, che trovammo per te in mezzo al marasma del mercatino delle pulci di Lyon. Era quello che ormai usavi, davvero? Quello tenevi accanto al letto? Vederlo così incastrato tra le tue dita immobili non mi convince che quella sia tu, senza più un movimento né una parola, ma mi ricorda che le nostre vite sono intrecciate. La tua e la mia, nonna. Sei una tempesta di ricordi nella mia mente, e nessuno di essi mi fa piangere, nessuno fa esplodere la mia tristezza, la mia solitudine, la mia disperazione… non posso stare in mezzo a tutti questi estranei, non sopporto quello che forse mi si richiede, una sorta di esibizione del mio dolore davanti a sconosciuti. Sì, sono venuti anche per me, ma io non sono qui per loro. Dove sono io, dov’è quel dolore? Arriva a tratti e vado a nasconderlo, a sentirlo da sola. Non mi importa di cosa penseranno.
Nonna Ziella, non eri tipo da ricordi tristi e lacrime agli occhi, saresti contenta di vedere che mi sono legata i capelli e che sono vestita “per bene”, “garbata”, che sono venuta a trovarti, non mi faresti piangere. Mi dicono che è stato un infarto, sai, ma poi come volevano che reggesse, il tuo cuore? Otto fratelli e sorelle, cinque figli, dieci nipoti e ventimila storie nella tua mente lucida fino all’ultimo, storie che mi fanno sorridere a leggere i numeri che avevi sulla tua sacra agenda telefonica, persone mai sentite, dalla fornaia al macellaio all’amico dell’amico che aveva un amico, fino al numero che so bene, quello 0105636507 che tu hai riportato come “Genova stanza n. 5”. Ci sono anch’io, lì dentro, e l’hai scritto grande perché è il numero di un posto lontano e sconosciuto ma alla fine non ti spaventava affatto chiamarmi. Neanche in Francia, ti spaventava, altrochè! Non c’è nessuna, nessuna delle tantissime persone che sono venute a salutarti (ed è veramente una miriade di persone!) che non dica di averti sentita da poco, che gli avevi mandato dei saluti, degli auguri, che ti ricordavi sempre di lei e dei suoi problemi o delle ricorrenze. Tutti sono qui per te, perché sei stata per tutti. Sei per tutti. Un mare infinito di gente.
“Ci si ostina in affezioni risolute, ignorando tacitamente l’evidenza”: forse è quello che sto facendo. Sorrido alle tue raccomandazioni, alle prediche, alle immancabili critiche sul modo di vestire, di pettinarsi e di vivere di noi nipoti che per tanto tempo non riuscivi a capire. Sorrido se ripenso che quando ti spiegai il referendum sulla fecondazione assistita dicesti che avresti votato quattro sì, come me, tu religiosa fino alla punta dei capelli ma con più buonsenso di tanti miei amici e cugini più giovani. Sorrido perché quando uscivamo da casa tua ci richiamavi sempre quando ormai eravamo al cancello, per darci qualcosa da portare a casa, immancabili pacchettini. Il sorriso si cancella un po’ perché parlare di questo al passato mi turba. Nel mio sogno io sono ancora piccola, e vengo a guardare i cartoni animati a casa tua alle sette e mezza di mattina (“Anna dai capelli rossi”, “Papà Gambalunga”, “Heidi”…), ma non voglio che tu ti alzi per me, è ancora tanto presto. Prima di rassegnarmi a prendere lo zaino e andare a scuola passo dalla tua stanza, che è com’era tempo fa, sono bassa rispetto al letto ed è buio, ti avviso che sto andando via e come sempre mi chiedi se tornerò a mezzogiorno. Sono tornata così tante volte! D’inverno amavo il fuoco acceso se fuori pioveva, non me ne sarei andata mai: dopo ore e ore di scuola avevo il mio posto lì accanto e quel tepore confortante, quella luce soffusa che suggeriva la protezione dal brutto tempo. Amavo la tua camomilla con l’alloro se avevo dolori, il divano morbido, il cornetto al cioccolato che mi prendevi da Sisto quando potevi avermi tutta la mattinata e ancora uscivi a far la spesa da sola. Bambina.

Io so che l’angoscia arriverà. Ha sempre tempo e modo di arrivare, lei. Verranno le lacrime, i sensi di colpa, verrà la paura e la solitudine di casa tua deserta, il terrore di non sentirti parlare. Il posto dove sei, quel piccolo cimitero che non avevo mai visto, adesso mi dà una pace sconfinata, ma forse non lo farà sempre. Verrà lo sconforto. Eppure io di te, di che donna sei, ho un ricordo radioso.
Mi ritrovo a pregare e a sperare, oggi, che quel paradiso per cui hai vissuto, agito, a cui hai sempre guardato, esista davvero. Che esista per te. Ciao, nonna.


"Piovono petali di girasole
sulla ferocia dell'assenza
la solitudine non ha odore
ed il coraggio è un'antica danza

Tu segui i passi di questo aspettare
Tu segui il senso del tuo cercare

C'è solo un posto dove puoi tornare
C'è solo un cuore dove puoi stare"

giovedì 26 luglio 2007

Assolutamente confuso

Guardo fisso la stella polare, chiedendomi perché stia sopra casa mia quando il nord è dall’altra parte. Un solo pensiero attraversa la mia mente, lasciando la sua scia di associazioni come una stella cadente: io potrei dirti tutto. Prendere e partire, prendere e andare, come se fossi davvero lì per me. Parlarti dei miei bambini senza versare una sola lacrima, se sei tu. C’è il rimpianto del viaggio che non ho più fatto, a ferirmi lieve. C'è questo strano vedere e non vedere le cose. Prendere e andare, con i capelli scomposti e la canotta da mare, così, se solo questo vento non fosse una frusta di calore. Io ti direi tutto. Anche se le cose più nascoste e inconfessabili di me, quelle che me stessa non sa, tu le sai già.
Poi capita che mi stendo sul letto a guardare su, ma questa è una posizione in cui sono inerme, in cui nessuno mi protegge e tutto può prendermi. E infatti mi colpisce. Quella dolcezza senza precedenti, mi colpisce, e come qualcosa che mi prende allo stomaco mi colpisce poterti pensare. Pensarti in ogni modo, mentre sei altrove. E maledico, anche se solo un po’, il mio stupido accento.
La tua voce da lontano ritorna. A quest’ora, in questo posto dimenticato dal mondo, con questo vento finalmente fresco, mi batte il cuore pensandoti. Non è il mare, il suo immenso indefinito, la sua rabbia, il suo blu spaventoso; è il fiume morbido, accogliente, è una risata imbarazzata, è te. E’ come sei tu, che adesso non leggo più con la mia voce.

venerdì 20 luglio 2007

Strane nuvole

Lei arriva con la notte, come il desiderio di un bacio. Questo non mi sorprende, perché io e la notte abbiamo sempre parlato e raramente il sonno è arrivato come e quando avrebbe dovuto. La luce accesa dà fastidio e non posso leggere all’infinito, sono costretta a restare ad occhi spalancati, con la testa sul cuscino, a guardare con stupore le stelle sulla mensola. Il mio cielo rassicurante, se è una notte di pensieri: stelle fosforescenti di via San Vitale. Così inavvertitamente mi spoglio ad una ad una di tutte le mie inibizioni, i miei desideri più nascosti prendono forme, colori, voci, consistenza, visioni di cui mi vergogno, da sveglia sogni bellissimi di posti e persone che fantastico di poter vedere, toccare, abbracciare. Accade allora, nel momento in cui mi allontano dalla terra, nei minuti che concedo ai miei segreti, che mi dimentico del dolore.
Con intensità forte o lieve, di mille forme, con milioni di cause insieme o senza alcun motivo: posso ancora sopportarne, dolore? Il dolore che ferisce, quello che unisce, quello che sorprende e quello che passa: posso ancora portarne i segni? Non so se mi è rimasto tempo abbastanza, volontà, o semplicemente spazio perché lui possa arrivare. Non lo crederei. Eppure arriva.
Sono così piena d’amore, ho chi mi colma interamente di attenzioni e parole, ho chi pensa, ogni tanto, che io esisto, ho chi rende ancora più dolce la musica più dolce del mondo, e lo fa sotto i miei occhi e per me. Ma dolore e amore giocano quasi ad armi pari, e quando l’uno prevale l’altro si fa sentire, anche piano, anche delicatamente, a stabilire sempre e comunque la propria presenza.
E’ che forse non avrei amore se non sentissi ogni tanto, piccola in qualche angolo di me, una fitta di malinconia. E’ un po’ come un tributo da versare, come il ricordo che non sempre e non tutto è stato così facile, che dietro una giornata leggera se ne nasconde una di impegni e doveri e sofferenze con cui confrontarsi. Quindi, l’accetto come viene, sapendo che sarebbe più pericoloso se vivessi ogni giorno in nuvole di zucchero. L’accetto quasi sorridendo.
Perché si fa dimenticare, il dolore, per lungo tempo, finge di lasciare solo i ricordi migliori, si mette la maschera più bella che ha perché possiamo dubitare di averlo davvero attraversato e pensare che portiamo con noi solo i momenti di festa. Ma è una maschera, appunto: è un trucco che presto o tardi finisce. E lui torna. Torna quella sensazione di bocca arsa e ferita, di nausea, torna la fitta che ti riporta ad un’altra, torna la consapevolezza e la lieve percezione del cadere senza saper rialzarsi, cadere e cadere e restare a terra impotenti piangere senza che per questo le gambe si muovano lasciar cadere il telefono e provarci e dover per forza chiedere aiuto fingere che non sia successo nulla e tornare a parlare perché te lo dovevi aspettare e ti avevano avvisata e come hai fatto a dimenticartelo?
Va bene, così. Va benissimo. Anche perché affrontato il momento di ogni giorno che mi riporta al dolore, ed è quasi un pugnale dolce a volte, posso tornare a pensare a quello che più amo. A quanto parliamo di notte, io e lei. Al libro che ho appena iniziato e appena finito e vorrei regalare al mondo intero. Al concerto, ai frollini al cioccolato, al tempo che non finisce.
Alla cattedrale di Saint Paul nel 1910.
Strane nuvole, quest’oggi. Strane nuvole davvero.

"E come cambia poco una sola voce
nel coro del vento
Ci s'inginocchia su questo sagrato immenso
dell'altipiano barocco d'oriente
Per orizzonte stelle basse
Per orizzonte stelle basse
oppure... niente"

domenica 15 luglio 2007

Però stai bene dove stai

“L'uomo che cammina sui pezzi di vetro
dicono ha due anime e un sesso
di ramo duro in cuore
e una luna e dei fuochi alle spalle
mentre balla e balla
sotto l'angolo retto di una stella”


Stamattina, quando ho aperto gli occhi, ho visto che avevo la mano spalancata verso l’alto, poggiata sul copriletto. Mi sono ricordata di un gesto bellissimo che faceva Elda per svegliarmi: metteva la sua mano mezza chiusa nella mia e ne accarezzava piano il palmo, perché io non mi spaventassi dell’arrivare di quella nuova mattina e di tutto quello che mi aspettava. Solo con lei mi riusciva di iniziare a parlare immediatamente dopo essere uscita dal sonno, rinunciavo al broncio crucciato che ho in genere e mettevo su il miglior sorriso che avessi a disposizione. Del resto era impossibile non farlo davanti a quegli enormi occhi marroni… quanto di più spontaneo avessi, per chi mi chiamava con quel nome tenerissimo. Mi raccontava tante delle sue disavventure, mentre lavorava…
E quel ragazzo dopo sei anni è ancora lì, a danzare su pezzi di bottiglie rotte, disegnato come le illustrazioni del Piccolo Principe: con un vestito azzurro, le guance rosee, con la sua stella giallo brillante che gli fa da soffitto. Una stella e il soffitto, vero? E’ il ragazzo dei pezzi di vetro di via Paolo Fabbri.
Erano le sere che mi telefonava Angela, perché mancava poco e lei voleva sentirsi presente, e ogni volta qualcosa dentro mi si capovolgeva al sentirla. Ma quello che veramente mi piaceva era che quel pavimento di legno così tiepido, quel letto improvvisato nel salotto disadorno, mi ricordavano del presente e delle persone che avevo appena incontrato e mi facevano pensare meno a lei. Stavo già guarendo da lei?

“Quando vedi che non si taglia, già lo sai
ti potresti innamorare di lui
forse sei già innamorata di lui
cosa importa se ha vent'anni...”


Il cielo non diventava mai nero del tutto. C’era come un chiarore rosa scuro a mantenerlo offuscato, mi opprimeva. Eppure perché ne ho un ricordo così ampio e bello? Vivevo con una nuova famiglia e mi sentivo perfettamente a casa, potevo perder tempo a passare la spugna in cucina, portare il cane a spasso e rifarmi il letto, quasi non mi sembrava vero… E poi c’era Sonia e i nostri discorsi, lei mi chiedeva poche cose e me ne raccontava molte ma sapeva starmi ad ascoltare, sembrava che sorridesse come chi ha capito tutto della persona che ha di fronte però vorrebbe togliersi qualche curiosità, ed io non desideravo altro che parlare! Preziosa, Sonia, e ancora non è cambiata affatto. Avevo gli alberi alti che facevano ombra, di mattina, dovevo bere tantissimo e lo odiavo, ma non riuscivo a far vincere il malumore su quella strada. Un autunno del genere forse non l’ho più vissuto! Non avevo portato neanche la macchina fotografica, invece poi le foto che ho di lì sono tra le più belle: giorni sulle nuvole.
Certe volte ti immagino passare lì sotto con lo zaino dell’università, tu che guardi dritto davanti a te con quella canzone che ti dà grinta, ti vedo perché sento ancora l’aria fresca di settembre, un’aria da giubbotto leggero.
Inizio a camminarti vicino, da lontano.

“Lui ti offre la sua ultima carta
il suo ultimo prezioso tentativo di stupire
quando dice è quattro giorni che
ti amo, ti prego non andare via
non lasciarmi ferito
E non hai capito ancora come mai
hai lasciato in un minuto tutto quel che hai
... però stai bene dove stai”

giovedì 12 luglio 2007

C'è tempo

Io parlavo una lingua diversa, distratta dalla concentrazione, spaesata dal dover mettere tutto insieme. Però poi l’ho visto. Ho visto i suoi occhi fissi sui miei attenti e presenti, l’ho vista non spostarsi mai, quasi che tutta la mia forza dipendesse da quello sguardo - non ti muovere, stai lì, per favore - Ma non ricambio i suoi occhi, non mi volto, non sposto il centro di quanto sto vedendo; solo, sorrido. È questo che le do: un sorriso rilassato al suo sguardo, tra i fuochi in mezzo al cielo.

Perché ogni volta che mi metto a sognare arriva puntuale il trillo del telefono ad interrompermi? E poi, stavo davvero sognando? Mio cugino ride come sempre con la sua voce stridula e chiassosa davanti ad un cartone animato. I cartoni animati, esistono anche quelli!
Ho oscillato tra l’annullamento totale di me stessa nelle carte e uno slancio irresistibile verso il mondo, verso tutto l’altro di qui. Di ovunque. Sempre e contemporaneamente rincuorata e disperata, del tutto estranea o completamente immersa… Tutto è stato un turbine, in questi giorni, irrefrenabile. Adesso invece sento il bisogno di riconquistare il contatto con la realtà, voglio riempirmi gli occhi di colore, mantenere questo cuore allagato com’è, insomma: tornare a vedere il mondo a piedi scalzi. Esistono i granelli di sabbia nelle scarpe, i cani randagi, esiste quel film che fa fermare l’aria, esiste mia sorella che mi fa i regali, ancora c’è il freddo del marmo nel salone e il divano dello studio… ma tutto questo dov’era finito!? Sono stata davvero così estranea, così disattenta?
Mi sento ondeggiare tra le sensazioni più diverse e così ubriaca e sregolata sono una piuma bianca che ogni corrente porta dove vuole e posso pensare che sia amore così come no lo sai posso anche frenarmi dallo scrivere e riesco a dormire pochissimo, e poi penso a Giulia e a come può esistere una persona come Giulia e in fondo torno alla strada di sassi e vedo ch’è tardi e devo andar via. Ma prima di farlo, la ringrazio.
In questa pace della riscoperta c’è tanto di quello che volevo, c’è dieci storie, c’è uscire di casa e c’è posti dove andare, stanchezza felice, qualcuno a cui pensare quando chiudo gli occhi.
E questa canzone, a benedire la mia sera.

domenica 8 luglio 2007

Ecriture automatique

Avevo intenzione ovviamente di non far nulla per un certo tempo. Dopo tanto impegno e lavoro, la prima cosa che ti viene da desiderare è l’ozio o il sonno, insomma niente obblighi per un po’. Affiggere un bel cartello con su scritto “Ferie dal pensiero”, e non rispondere alle domande né correre troppo avanti con la mente, proprio ragionare in estate. “Ferie dal pensiero”.
È poi la cosa più normale che ci si trovi soli… mi sento una sperduta a girare per casa con le mani in mano, vorrei che ci fosse ancora tantissimo disordine da rimettere a posto, e potermi cullare come prima nella soddisfazione delle cose che so. Potrei anche sedermi, a un certo punto, e pensare di fare dei bilanci. Tornare indietro con i ricordi e alla luce di questo sole di luglio cercare di capire cosa mi dicono, dar loro un nome per poterli chiamare quando li cerco, metterci vicino un segno… è che forse non sono ancora pronta per farlo, temo quello a cui potrei arrivare, temo di sgualcire col mio fare maldestro le cose più belle e delicate che ho in me.
Eppure non sono io che decido dove viaggiare: mi ritrovo a pensare, seduta in macchina, a quello che ho imparato. Canova, certo. Joyce, certo. Seneca, certo. E poi.
La scuola è stata la mia vita sociale forzata, quando avrei preferito non conoscere nessun altro, quando avevo chiara in me la consapevolezza di dovermi ricostruire lentamente e da sola. A volte, per questo, penso mi abbia salvata. È stata la consuetudine grigia a cui mi sono abituata con fatica ma con volontà, la consuetudine blu a cui mi sono aggrappata con forza quando tutto intorno sembrava crollare, la consuetudine arancione del ridere e del parlare di quest’anno, così splendidamente nuovo. Sono passata dal dare tutto quanto avevo allo studio dei primi anni, in cui studiare mi sembrava davvero una delle poche cose che riuscivo a fare bene, al detestare numeri e persone con la voglia assoluta di andarmene lontano, quando nulla più è stato abbastanza e ogni verifica mi sembrava una sadica punizione. Infine l’amore, la gente, le scoperte dell’ultimo anno, amare perché brevi, meravigliose perché importanti. Non so se ho mai raggiunto un equilibrio in questo, così come in tutte le mie cose... Ma quanto so ora è che sono cambiata, che il mio è stato un crescere difficile ma costante e che in questo crescere la scuola c’è stata sempre.
Ho imparato la disponibilità, che prima non avevo assolutamente: quella di spiegare e rispiegare le stesse cose a più persone, quella di passare gli appunti o le versioni a tutta la classe, quella di prestare le cose e di prendermi le responsabilità. Non che adesso sia la persona più paziente del mondo, ché per quello ci vorrebbe ben altro, ma sono così diversa dalla ragazzina scontrosa e irascibile di cinque anni fa! Così inaspettatamente diversa!
Poi penso che la scuola sia una situazione del tutto anomala rispetto al resto del mondo. Insegna la complicità, la solidarietà, la simpatia, la comprensione. Quando vedi una persona piangere, o ridi con lei, quando la incontri ogni singolo giorno che Dio manda in terra sempre lì al suo posto, quando sai cosa le piace e cosa proprio non capisce, condividi più di quanto tu non ammetta, sei “coinvolto” tuo malgrado: non riesci a pensare di farle del male, né di rifiutarle un favore, un suggerimento, un sostegno quando ne ha bisogno. I compagni di classe diventano famiglia più della famiglia stessa, per la loro presenza costante, per la rete di affetti e di semplici sguardi che intessi quotidianamente e senza rendertene conto.
Ecco, ero certa che non avrei resistito alla tentazione di fare bilanci, alla fine! Così di getto che neanche mi fermo a rileggere. In effetti, dopo aver pensato tanto in fretta, non mi resta che infilare il pigiama e andare a letto, fingendo di poter tornare al mio proposito iniziale: “Ferie dal pensiero”

mercoledì 4 luglio 2007

Anime salve in terra e in mare

Non vedevo l’ora di vedermi così. Mettere quella collana, essere celeste e bianca, e camminare senza più doveri nella testa ritrovando i vent’anni che sono. A volte mi sento così grande che persino piegarmi a slacciare le scarpe può diventare una fatica, è che sembra lontano; sono i giorni in cui emerge la me più frivola e mi strizzerei l’occhio se mi incontrassi, sono i giorni in cui guardo dritto davanti a me, in cui sovrasto la gente e le sue parole e mi sembro persino un po’ bella. Sono i giorni in cui mi sembra che avverrà ciò che desidero, comunque e ad ogni modo.
Però appena tornata a casa, la prima cosa che faccio è sempre la stessa: pazientemente, elimino tutto. Slaccio il bracciale, sfilo gli orecchini, strucco le ultime tracce di ombretto, mi libero dalle scarpe e lentamente mi metto comoda. Mi piace che sia così, ritrovarmi semplice, come hai detto tu ieri, quello che sono… in fondo una ragazzina.
In casa mia mi muovo come una sensitiva. Per non svegliare nessuno scendo le scale a piedi scalzi, spengo le ultime luci e inizio a scivolare per i corridoi e le stanze, sapendo dove ci sono i mobili, dove le scarpe lasciate da mio padre, dove potrei urtare la porta socchiusa. E’ che casa nostra dopo anni non ha più luoghi inesplorati, ma continua ad avere misteri, orologi che ticchettano, rumori inesplicabili... per fortuna, a ricordarci che siamo certi di noi stessi, ma sempre fino a un certo punto. “In assoluto, ma fino a prova contraria” direbbe Bea.
Sono stata tanto occupata poi, e ho fatto un po’ di quelle cento cose che mi aspettavano dopo l’esame: ho scritto mail, sms, ricevuto gente, fatto auguri di compleanno, ho sistemato le magliette nei cassetti e svuotato la scrivania. A dir la verità, quasi non ricordavo che fosse di vetro! Emana addirittura tristezza vederla sgombra e pulita, non lo era da tempo, tutto questo tempo…. Chiudere i quaderni mi ha fatto una certa malinconia e pensare che quelle cose che so sono in me e pensare che non serviranno forse ad altri che alla bellezza e vedere i fogli di appunti e quella pagina bagnata dalla pioggia e quel foglio che ho fatto bene a non leggere neanche e invece tutto lo schema enorme che mi piace ricordare a memoria ancora un fodero di plastica stracolmo e la mia calligrafia di qualche mese fa e come era allungata quando ho scritto in fretta e questi appunti di filosofia che chissà se riesco adesso a decifrare... Come sono cambiata, come amo quello che è stato! E nulla più che queste parole:

“Sono giorni di finestre adornate, canti di stagione
anime salve in terra e in mare
Sono state giornate furibonde, senza atti d’amore
senza calma di vento
Solo passaggi e passaggi... passaggi di tempo”