sabato 5 novembre 2011

Post scriptum - Su Genova



Svanito il sapore del vino dolce e della ginja, in bocca sento solo il fango, la marea nera che ha sconvolto e annegato la mia città. Ieri è stata ansia, rabbia, tristezza.
Ma stamattina mi ha telefonato una mia cara amica, che le ore dell’alluvione se le è passate fra quelli che nuotavano in un metro e mezzo d’acqua. Niente panico nella voce, niente voglia di polemica: mi ha parlato dei fiumi, del vecchietto che le ha spiegato che bisognava picconarli, dei capotreno che hanno dovuto fare il turno doppio perché quelli di Quezzi non uscivano di casa e i telefoni erano in preda a una strana sindrome. La macchina spostata cento volte per salvarla dalla fiumana, la strana inquietudine mai sentita prima, ma poi alla mamma “va tutto bene, figurati!” e le risate con la compagna d’ufficio. Non siamo nati mica ieri, capataz.
Cristina, quando l’ho sentita, si sentiva impotente come me; e incredula, mentre le sue colleghe in ospedale dal pomeriggio si fermavano anche la notte “finché qualcuno non arriva a dare il cambio”. Ho sentito l’amarezza sua e delle altre infermiere mentre arrivavano le notizie dei bambini morti, a colpirle come una perdita personale, come tutti i bambini, o tutte le vittime.
Allora mi sono ricordata che le catastrofi che piombano addosso a una parte o l’altra del mondo non somigliano agli speciali tv, ai primi piani degli occhi per beccare la lacrima, alle interviste con domande brillanti tipo “hai avuto paura?”. Che le parole disastro o tragedia o dramma hanno un significato profondo e terribile che il loro uso sconsiderato rischia di farci dimenticare. Sono come questa gente, a cui l’acqua che conoscono da una vita si è rivoltata contro dal lato opposto del mare. Sono come chi stamattina ha fatto il conto dei danni che ha subito, ringraziando che non gli sia andata peggio, e riprende a mugugnare ripulendo le sue cose; ma hanno anche il colore del lutto e del pianto, che con le risposte scocciate del sindaco non ha niente a che spartire. Ogni anno di pioggia ne arriva troppa, la città è stata costruita con criteri che non ne tengono conto, che hanno intrappolato i corsi d’acqua. Le strade in cui amo passeggiare sono diventate un fiume pericoloso.
La telefonata di stamattina mi ha svegliato dall’anestesia dell’enfasi mediatica che mette tutto sotto il microscopio, nell’immediato, e di colpo dimentica: mi ha riportato fra la polvere e la dignità della terra, in tutto il tempo che servirà per farla tornare come prima. Amìala cum'â l'arìa amìa cum'â l'è, cum'â l'é.

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