venerdì 9 novembre 2007

Novembre

"Cominciai a sognare anch’io insieme a loro
poi l’anima d’improvviso prese il volo"



Hai uno sguardo, tu, fresco e bambino come l’odore del bucato appena lavato. Un maglione verde morbido, che non si smetterebbe mai di abbracciare. Hai sospiri leggeri di tristezza o desiderio, note alte nella voce e prolungati silenzi, alternati a moti improvvisi di dolcezza. E corrughi un po’ la fronte se non capisci, già sapendo che ciò che non ti è chiaro non ti piace; la distendi poi un istante se non ti sfiorano i ricordi, fai un respiro limpido e tiri fuori il migliore di quei sorrisi immensi, regalandolo, regalandolo, gentile.
A volte invece hai un sorriso spento, adulto e maturo, e gli occhi dilatati di chi ha così sofferto che non ce la fa più, e sa già come viene, e non ha voglia di spiegare. Davanti a questo sguardo io torno a distanze siderali e mi ritrovo accanto a te la ragazzina che sono, ingenua e presa dal dispiacere, che nulla può né forse deve dire. Davanti a questo sguardo, mentre camminiamo, mi vedo d’intralcio, mi strisciano le scarpe, e si moltiplica senza ragione la mia voglia di esserci, forse perché mi ritrovi alla fine di quel pensiero (ed ha una qualche importanza, poi?)
Hai movimenti veloci delle mani, quando racconti le cose, la capacità di sussurrare e farmi saltare il cuore in gola. Una bellezza così semplice e disarmata che sembra nessuno la noti, che sono certa al contrario tutti vedono, anche se non lo ammetti. Così che ti guardo, spesso, senza saperti dire esattamente perché nel tuo viso annegherei.

A me che ti ripenso stasera, immersa nel torpore delle coperte, credo resteranno per sempre molte fotografie. Una piega della pelle, al lato degli occhi, quando li apri. La misura inconfondibile di quello sguardo a labbra chiuse. Mille piccoli dettagli che forse neanche tu sai, e neanche io so.

Ho avuto la febbre, l’altra notte, sono andata a letto stordita e mi sono svegliata a metà con un rimbombo vuoto in testa e le gambe che non mi reggevano. Una febbre silenziosa, a me sconosciuta, una febbre di stanchezza e di esasperazione. Ci ha messo dieci ore per andar via, da sola com’era arrivata, ma portandosi dietro sudore e mal di testa sembra che sia riuscita a rimettermi i piedi in terra. Da quella mattina, e lo sento, è scomparso l’urlare represso di ogni giorno, le ossessioni non mi mordono più la gola, gli occhi si sono asciugati.
Ero semplicemente esausta. Di essere triste, di essere per forza e di volere, di cercare. Così mi sono svegliata, fresca e leggera, come sollevata da pesi insostenibili, ed ho messo la solita strada sotto le scarpe per andare all’università. Tutto intorno è diventato quasi familiare, conosciuto, accogliente. Mi sfiora un piacere così silenzioso da somigliare al pianto - ma senza più lacrime. Ci sei sempre, questo sì, per fortuna, a camminarmi a fianco con una nostalgia sottile ma non più ansiosa.

Non voglio che finiamo per avere tristezze diverse con le stesse canzoni. Non voglio che la storia sia la stessa che conosci e che prevedevi già; per una volta, non voglio che abbia ragione tu.
E siccome c’è di nuovo freddo e ho sonno, per una giornata come questa va bene un qualunque finale. Anche quello che dopo cent’anni di solitudine non ammette una seconda possibilità.


“Poi parliamo delle distanze e del cielo
e di dove va a dormire la luna quando esce il sole
di come era la terra prima che ci fosse l’amore
e sotto quale stella fra mille anni
se ci sarà una stella… ci si potrà abbracciare”

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