giovedì 1 novembre 2007

Sentimento del tempo (impazienza)

Vedo, ho avuto vent’anni per lo più fatti di attese.
Il tempo per partire, il tempo di restare, il tempo di lasciare, il tempo di abbracciare...
Aspettare l’autobus alle sette di mattina sotto la pioggia di gennaio, una mano a stringere il lettore mp3 in tasca, l’altra gelida a tenere l’ombrello; aspettare fuori dal bar, fuori dal cinema, fuori dalla porta l’amica ritardataria che mi ha fatto scapicollare per poi lasciarmi lì decine di minuti. Uscire dall’aula al suono della campanella dell’ultima ora e fermarmi nell’atrio, aspettare che Mari esca per viaggiare con lei parlando fino a casa, fantasticando di settimane in Brasile e infervorandoci nelle critiche dei rispettivi prof. Restare in attesa di quella chiamata o di quel messaggio che – lo sento – può salvarmi la vita ma non accenna ad arrivare. Aspettare un giorno. Un mese. Cinque anni. Aspettare paziente che finisca la lezione di storia. Che passi la pioggia, il singhiozzo, i cinquanta minuti di treno, la fitta lancinante allo stomaco, la stanchezza e l’Inverno.
Nell’attesa mi ritrovo ferma in un equilibrio stabile, ogni minuto di spazio libero diventa un fermarmi, in silenzio, a guardare la mia vita che continua a scorrere all’esterno di me. Ho creduto quindi per molto tempo di aver imparato ad aspettare, almeno questo, di aver sviluppato una sorta di capacità a riempire le pause forzate... di conseguenza a non aver fretta: mi sbagliavo, ovviamente :)
Al contrario, ultimamente mi accorgo di avere una mia incoscienza patologica di cui non so liberarmi, quasi che ogni cosa fosse la più normale e non ci fosse mai di che stupirsi, mai nulla di esagerato. Impaziente, precipitosa, mi sembra spesso che nessuno si accorga di quanto poco tempo ci han dato per fare ciò che più vogliamo, e che nessuno veda come me quanto poco basti per perdere ogni cosa (ed è così poco, credimi, che non preoccuparmi di cosa vedono gli altri è il minimo, a pensare che domani magari non ci sei).
So perfettamente, al contempo, che questa visione non porta lontano, che la stragrande maggioranza delle persone vive senza sentire l’acqua alla gola, sa aspettare senza ansie e non pretende, si scandalizza per gli eccessi in nome dell’essere opportuni. Sto cercando per questo di guarirne, ma è così forte il desiderio e così veloce il tempo, così beffardo, pronto a riprendersi in fretta quello che regala, che mi è difficilissimo e spesso non sono certa di volerlo.
Ahimè, credo di aver dimenticato mio malgrado cosa voglia dire essere opportuna, controllata, conveniente, adeguata, senza pretese. Adesso mi lancerei in corse a perdifiato e prenderei ogni cosa subito, e non mi negherei nulla, perché so cosa vuol dire avere un istante e poi perdere. Saper camminare e un mese dopo non reggersi in piedi, avere un appiglio e vederlo svanire, conoscere una voce o un volto e poco dopo non ritrovarli, scrivere miliardi di lettere e non sapere più - d’improvviso - se ai destinatari fa piacere riceverle. E allora affrettata, precipitosa, pur sapendo quanto sia sbagliato.
Perché è questo volere disperato, questa enorme impazienza, che mi porta alla mia esagerazione. Di cui spesso sì, mi pento. A cui devo il pianto dirotto e il mal di testa persistente.
E pazienza... aspetterò che mi passi!




Post scriptum – delirio di mezzanotte

C’è un tempo perfetto per fare silenzio. Esiste davvero un tempo “giusto” per fare qualcosa? - mi chiedo. Non è forse un costringersi, un inutile trattenersi, il nostro continuo aspettare il momento adatto per dire, sentire, agire? La verità è che, cara Lù, non controlliamo niente di quanto ci succede, e quello che a noi sembra il momento perfetto ed unico ed inimitabile può non esserlo per chi ci sta di fronte. Potessimo avercelo tutti, l’orologio degli dèi.
Come si fa – spiegatemi – a capire se la frase che ci pulsa in gola farebbe meglio ad uscire subito o a restare lì rinchiusa? Come si può stabilire la canzone che faremmo meglio ad ascoltare, il libro che dovremmo leggere, il bacio che dovremmo dare in un preciso istante tra milioni? Credo alla fine che il solo modo di comportarsi sia lasciar sgorgare. Ché preoccuparsi del resto non serve.
Tanto quando succede, quando non si è soli a sentire qualcosa, quando si desidera in due o tre o quattro esattamente lo stesso, quando si è a un passo e si ha la certezza che nulla potrà fermarci, allora si capisce che per una volta, una volta almeno, quello era il momento. E non si dimentica più.

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