domenica 27 aprile 2008

"Fare tanta strada e arrivare qua"

Sono di ritorno, ancora. Sono stata fuori altri tre giorni, dopo i precedenti tre, e via dicendo, tanto che sopporto malvolentieri l’idea di dover restare qui per un po’. Ho sempre creduto che viaggiare fosse un muoversi momentaneo, che inizia con l’idea di dover finire, e che la cosa più importante fosse sempre avere una casa, da qualche parte, pronta ad accoglierci al ritorno. Mi sono resa conto invece, negli ultimi tempi, di quanto poco mi basti per stare bene in un posto. Non ho bisogno di appigli né di rifugi, non è necessario che abbia la certezza di un posto dove tornare. Mi basta solo passare il tempo con qualcuno con cui sto bene, ridere, guardarmi intorno, mi basta chiacchierare e scrivere e ascoltare musica. E per ognuna di queste cose, ovunque è perfetto. Non chiedo poi molto. Eppure non l’avrei mai detto, e mi stupisce accorgermene, mi lascia interdetta. Ho sempre amato stare comoda. Chissà se sono davvero cambiata, o sono solo leggermente più cosciente.
Penso a tutto questo con la testa affondata nell’acqua della vasca da bagno, nell’isolamento acustico e visivo completo. Mentre resto così, con il viso rivolto verso il fondo, la superficie liscia della vasca si sfrega contro le mie labbra e la punta del naso. Mi accarezza, muta. E mi fa pensare a tutti i difetti che si vedeva addosso, le tante imperfezioni che era capace di scovarsi, di cui ero così stupidamente innamorata. Le infinite meraviglie a cui ho confessato, per l’unica volta nella mia vita, che mi facevano impazzire. Io, ti rendi conto? Sono stata io. Così mi dondolo un po’ fra le immagini, con un mezzo sorriso, correggendo in ritardo ciò che avrei voluto dire. Aggiungo alle mie frasi quell’incisività e quella dolcezza che spesso l’emozione non è riuscita a rendere. Mi sembra quasi di poterglielo dire, piano in un orecchio, che non saprei immaginare una felicità più bella. E di non lasciarmi sola.
Ho letto un libro, da poco. L'ho fatto per metà con i miei occhi e per metà con i suoi, senza volerlo. Mi è sembrato migliorare ad ogni parola, e credo di aver pianto a pagine alterne, tanto da prolungare la lettura ripetendola infinite volte, con la scusa di aver visto le frasi appannate. A metà del libro, mi sono spaventata. Tutto ciò che vedevo in quelle righe mi sembrava troppo grande, troppo forte, troppo grave, come un mantello scuro che mi cadesse addosso fino a soffocarmi. Temevo di essere destinata alla vita che leggevo, ma soprattutto mi sovrastava tutto quello che imparavo dall'autrice, che tante volte avevo intravisto nel suo sguardo. Troppe volte, nel suo sguardo, come avevo fatto a non capire. Quando il libro è finito, non bastavano neanche più le lacrime. Sono tornata indietro, a quella pagina che conoscevo molto prima di leggerla da sola. Non bastava piangere, quando il libro è finito, non l'ho più dimenticato.
Poi il bordo della vasca mi ricorda quanto sia ingenuo da parte mia perdere tempo a rispolverare queste cose. L’acqua calda mi provoca sempre una specie di languore, e intorpidisce i miei pensieri, ma ora sono quasi brava a vederli da lontano. Come l’ultima parola che ho sentito, e l’ultimo gesto d’affetto. Sono quasi brava a guardarli come sono, piccole cicatrici che non hanno mai avuto una possibilità di espiazione.
Mi metto in piedi, e aspetto ferma finché quasi tutta l’acqua sparisce nello scolo. Dopo questa sorta di rito pomeridiano, giacché è la prima volta che - come dice Verena - “prendo una vasca”, ho tantissime cose a cui dedicarmi. E mi passerà presto di mente la sensazione ovattata di stare con la testa immersa nel calore, con i pensieri immersi nella testa, e tutta la pelle rapita dai pensieri.

"Troppo cerebrale per capire che si può star bene
senza complicare il pane
ci si spalma sopra un bel giretto di parole
vuote ma doppiate
Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo
e quando dormo taglia bene l'aquilone,
togli la ragione e lasciami sognare
lasciami sognare in pace"

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