lunedì 12 maggio 2008

Uno stupido incubo

"Se mai hai avuto quindici anni sai
cos'è quel sogno detto America
l'hai marcato al tuo viso, nello sguardo deciso"


Non ho mai voluto andare in America. Cioè, in tutta quella parte di continente che va dalla Groenlandia alla Florida, che comunemente si chiama America. Così immisurabile, votata allo sperdimento, per me che già scompaio in una città di centomila persone. Sapere che c’è l’America, lo sconfinato fazzoletto di terra di là dal mare, mi fa sentire più stabile anche se non più protetta: mi fa paura il suo grigio da grattacielo, tanto quanto mi rassicura l’idea che tutta quella gente non sprofondi inghiottita dall’acqua. La mia America non ha un volto né un punto d’arrivo preciso, non è bianca né nera, è quella sorta di accadere indistinto di cui posso dimenticare, senza neanche assicurarmi che esista.
Le mamme forlivesi portano i bambini al parco. Leggono i giornali, si scambiano ricette e li sgridano se spingono gli altri giù dallo scivolo, come fanno le mamme che portano i bambini al parco. Io vorrei andare in Messico. Perù, Cile, Brasile, Nicaragua. Esserci nata, conoscere già le consuetudini, averne il colore sulla pelle. Per arrivare lì non mi basta certo un metro e cinquantacinque. Posso al massimo prendere una nave e aspettare per giorni, e vedere la terra all’orizzonte, prima di riaprire gli occhi. Come fa tutta quella gente ad esserci già stata, e come ha fatto poi a tornare indietro?
Stanotte ho sognato di essere inseguita. Non è la prima volta, anche se forse è meglio che sognare di cadere, com’è stato finora. Un inseguimento infinito, giù da un trampolino in una piscina che prima era vuota su un autobus tra i vestiti appesi in un mercatino da un bar all’altro con una bacchetta magica che non segue le mie formule di spalle davanti a una vetrina in un cantiere col pavimento sterrato su una strada senza curve in un centro storico su un cavallo scivolando sui sampietrini. Non arrivavo mai, né sapevo da cosa esattamente scappassi. Un uomo, credo. Una paura. Non lo so, certe cose nei sogni si danno per scontate.
Mi sono svegliata stanca e angosciata, con un sapore di sconfitta che ci è voluta mezza giornata a mandar via. Mi inseguono, chi mi prende per mano? Mi sparano addosso, chi mi avverte perché schivi i colpi? Chi mi fa cenno di entrare in casa, se mi vede passare trafelata? Nessuna sorpresa, neanche nei sogni. Non posso permettermi di guardare indietro. Indietro non c’è più niente. Corro. Quello che penso, non ho alcun diritto di dirglielo. Uno stupido incubo, era solo uno stupido incubo. Corro.
Domani butterò le lenzuola in lavatrice e per l’ennesima volta penserò che sto bene. Basta dimenticarsi, è lì la chiave di tutto, basta saper dimenticare e sapersi mentire. Prendersi per culo. Avere la faccia tosta di guardarsi allo specchio e dire che “comunque va tutto bene”. In realtà corro, ma non so neanche com’è fatta la salvezza alla fine della strada, se somiglia a un salto su una nave. Quasi certamente, dovessi passarci accanto, non la riconoscerò.
Ma poi a tutte le domande che ho sempre in testa, non è importante trovare una risposta: io so di essere così. Una che si segna sul calendario i compleanni, i posti in cui è stata, le ultime lezioni di ogni materia. Una che dall’indecisione ci mette una settimana a separare roba estiva e roba invernale. Una che puoi anche non rispondere, tanto poi ti cerca lei. Io sono una persona così: che ci pensi il giorno dopo e poi basta.


"Ho sognato una strada
che si ferma su un ponte
e che di là da un muro alto
corre l'orizzonte
Mi ci vorrebbe una scala
mi ci vorrebbe una luce
mi ci vorrebbe il coraggio
di dare una voce"


(E vi dico che aspetto l'angelo dall'orizzonte. Io sì.)

Nessun commento:

Posta un commento