domenica 23 novembre 2008

Attese

L’attesa è un mestiere che si affina come molti altri. Prevede la capacità di restar fermi senza fare altro che, per l’appunto, aspettare, assumendo magari le sembianze di chi assolve mille impegni e si muove. L’attesa è in realtà un’immobilità mentale, che impedisce qualunque azione che non sia a breve termine e condiziona ad un solo posto, ad un momento: il momento in cui essa si compie.
Rinunciare ad un'attesa è qualcosa di peggiore del classico gettare la spugna, ha molto poco a che vedere anche col verbo rassegnarsi. Non si abbandona il campo durante un incontro e non si prova l’infamia (o la gloria) di voltare le spalle nell’impeto di un evento tangibile che accade. No, rinunciare ad aspettare è più grave. Dover rinnegare il lavoro silenzioso e paziente con cui si è cercato, dritto o storto, di far procedere ogni cosa per bene, senza mai realmente scollegare il cervello dal fine più importante, il luogo, il momento, il compimento dell’attesa. Smettere di aspettare è veder morire qualcosa, malgrado tutto. Ti resta addosso.
Ho smesso di aspettare te almeno due volte. Non perché abbia smesso e poi ripreso ad aspettare la stessa cosa, tutt’altro: sono state due attese diverse, ognuna con le sue giornate, una più invadente, l’altra silenziosa e con pochi moti d’orgoglio. Ho avuto tempo di rimirare le mie attese, di limarne bene i contorni, ho avuto necessità di odiarle quando diventavano spasmodiche e modo di metterle da parte, dopo molti mesi. Tanto che adesso quasi non le ricordo, se non voglio. Mi dirai che non avrei mai dovuto aspettarti, a rigor di logica. Ti rispondo che era impossibile farne a meno, in tutta semplicità.
Ormai ti sorprenderesti di quanto io non mi aspetti più, stupisce anche me. Io che ho sempre atteso tanto, come i bambini, con la stessa irriducibile resistenza, ora il massimo che mi concedo è un rinvio di due giorni prima di comprare un disco. Avverto solo raramente qualche piccolo morso in quella zona atrofizzata, nei periodi peggiori, per il resto molto nulla. Ma vado al cinema e al ristorante, mi offendo, leggo, prendo il cornetto caldo alle due di notte in Piazza Saffi. Tutto questo c’era mentre ti aspettavo.
Certi giorni perdo i contorni della mia normalità, questo mi spaventa, arriva con una specie di tremore allo stomaco. Porta con sé la voglia di stendermi ancora sotto quella coperta, nascondermi e aspettare che scompaia ogni pericolo (come se quella coperta contro il mondo non fosse un rischio anche maggiore). Eppure non sono una fanatica della parola normalità: è impressionante vedere quante diversità mi porto dentro. E come da certe apatie mi risveglio con qualcosa di piccolissimo... una telefonata, una frase inaspettata e gentile, una musica così bella che passando nel parco ci si potrebbe improvvisare una danza. Con attorno le foglie che cadono, spargendo per aria il loro autunno, ridere.
A volte non avere da aspettare mi rende triste, altre mi sembra il modo migliore di vivere. Tutto quello che c’era dietro l’angolo mentre pensavo a te è ciò che ora mi riempie le giornate. Un po' pesa, un po' solleva. È il meglio che mi posso permettere. È ciò che mi fa dire adesso sto bene.

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