mercoledì 12 novembre 2008

Misurata preghiera

Sono entrata qui perché vagavo per la strada e mi stavo inzuppando i jeans sotto il diluvio. Oppure perché in realtà l’avevo deciso da un po’.
Casa tua non sembra mai vuota, anche quando non dicono messa, ci dev’essere qualcosa dietro a questa immobilità apparente. Allora siccome sto diventando sfrontata, mi sono invitata da sola, la piccola testolina chiusa alle tue leggi che viene a sedersi sulle tue panche di legno. Non è una sfida, Dio, al contrario è un segno di resa dopo una giornata faticosa, in cui mi sono sentita giudicata e sminuita. Sarebbe facile, lo sai, venire qui a lamentarmi, ma non è questo il motivo che mi ha spinto questo pomeriggio: è che io non voglio parlarti. Non ho intenzione di spiegarti niente.
Però lascio che tu guardi, come raccontare senza muovere le labbra, lascio che tu entri nei miei edifici interiori: vedi la stanza in cui ho messo le sue parole, quella dei programmi, quella di tutti i giorni in cui ho rifiutato di pensarti. Guarda che gran disordine, in quanti angoli manca luce ancora, senti che vento lieve soffia quando non c’è temporale. Chissà cosa te ne sembra, di tanto lavoro costruito e demolito.
Mi hai mandato in quest’isola del mondo, ma anch’io ho una mia piccola arte, lo sai Dio? Sto imparando. Io prendo parole che la gente non capisce, le guardo e mi sono chiarissime, tanto evidenti da essere quasi materiali; le prendo e inizio a plasmarle, ne smusso gli angoli e le rigiro, le trasformo, finché non diventano completamente familiari per tutti. E mentre lo faccio, poiché le amo, cerco di non privare quelle parole della loro bellezza originaria, della loro delicatezza o ambiguità, o della violenza, così che restino in ogni forma esattamente quello che sono. La mia piccola arte è un po’ come questa pioggia: incessante e ostinata, che cade sulla pietra e scava piccoli solchi. Io traduco. Traduco come erodere le rocce, levigare, inventare, e a tratti tirarsi indietro per evitare l’invadenza. Traduco come se ogni istante mi inchinassi, con profondo rispetto. Traduco come se mi muovessi su una musica.

Forse è solo un caso, Dio, se Fiorella ha questa voce che si fa bere, che ha le sue curve, le indecisioni e i voli. La sua voce che non inganna né si atteggia a seduttrice, ma porta il mio cuore ad accasciarsi e sciogliersi.
Forse è solo un caso se circa un anno fa, sul treno di ritorno da Bologna, ho incontrato Alessandro a salvarmi dall’ansia della SSLiMIT, Alessandro con cui ora sì e no ci salutiamo per strada, ma che mi accompagnò a casa e mi disse che la migliore sopravvivenza è, in effetti, non starci a pensare su. E da allora la facoltà mi sta meno stretta, a volte direi quasi comoda.
Forse è solo un caso, se Giulia ha quella scrittura terrena e morbida, tanto più coinvolgente perché concreta e tanto più viva perché priva di menzogne. Se ha quella scrittura ruvida come un silenzio e dolce come una carezza, timida solo per gioco, in realtà più solida di tutto. O forse è solo percorrendosi in verticale, passando la mano sulla linea ondulata delle ferite, portando fiera gli sbagli e tutto ciò che non doveva succedere, che scrive così. Sarà magari un caso, ma nel caso, tu dalle molta fortuna, per favore.

Ed io pensandoti così indulgente, senza chiedermi se realmente ti ho pregato, invece di dire amen ti dico arrivederci.

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