martedì 22 gennaio 2008

Vittimismo: effetti collaterali

“Tristezza” è una parola che non ce la fa ad uscire intera. Arriva verso la “e” e si chiude in gola, si ripiega e rotola giù, si fa inghiottire. Amara.
Tristezza è l’unica cosa che mi stia cucita addosso. E’ la soluzione a qualunque domanda che abbia a che fare con un – Come stai? – anche chiesto per caso. Non ansia, né paura, desiderio, non più: tristezza desolata. E voglia di non volere niente.

Non ho ancora appeso il calendario nella stanza di Forlì. Le sue pareti sono rimaste semivuote, come fosse per me uno sforzo enorme attaccarci qualunque cosa. Era un venerdì pomeriggio, quando ho tirato tutto a lucido e messo su qualche cartolina, poi non ho avuto più il tempo, la voglia, o forse... la motivazione. Come se non fossi degna neanche di avere del colore sulle pareti. Come se questa tristezza mi rendesse colpevole, e chiunque per strada si rendesse ora conto che non sono più che uno spostamento d’aria. Niente di più di ieri.
Mi trascino dietro, camminando, una vita sgualcita e maltrattata, che non ha conosciuto tanto male, certo, ma ha saputo perfettamente come illudersi, prima di schiantarsi contro la verità. L’ho tenuta così ferma, così inquadrata e attenta ai doveri, timorosa di far male, indecisa e preoccupata di aver detto una parola di più. L’ho tenuta così salda nelle mie mani da dover scoprire solo adesso di non conoscerla bene, di non aver mai capito di cosa avesse bisogno. Un bisogno disperato. Sono stata troppo cieca, per questo tutto mi è sembrato una luce fortissima, un improvviso chiarimento. La spiegazione che stavo aspettando, da una voce che non aspettavo tanto bella. La voce migliore che esistesse.
Eppure adesso, poiché la voce tace, io non vedo l’ora di tornare alla mia cecità stropicciata. Sono vuota di luce per tutti, e vorrei non chiedere amore, non saper amare. E non leggere, e non pensare. Vorrei farmi piccola sotto le coperte e svegliarmi tra due mesi, due anni, due decenni. Non avere altri esami su cui dovermi concentrare, sono tutti così difficili, ho già fatto un miracolo per i precedenti, non ho più niente, basta per favore. Basta, fermate tutto, continuo dopo. Per favore.
Ma non posso. E mi regalo soltanto, per qualche istante almeno, la libertà di essere inadeguata, di lamentarmi, di sentirmi dimenticata da tutti e sola, debole. Voglio che il mio tempo sia debole dichiaratamente. Insignificante. Che si immerga senza freni nella tristezza che ha, perché far finta che non ci sia non serve, non viverla fino in fondo sarebbe un’occasione persa. O almeno, questa è una buona scusa. Per tutte quelle pieghe. Per essere finita vittima di me stessa.
Molte persone mi parlano, a molte io parlo, ormai priva di argini. Da ognuna di queste vorrei precipitarmi, a tutte vorrei chiedere un abbraccio, lungo, caldo, senza fretta. Qualcuna poi usa le parole giuste, so che capisce tutto, e perfettamente.
Nessuno però sa che abbaglio ho preso. Nessuno sa quanto sia stato forte. E quanto non sia esistito mai. Se non. Tutto. Dentro di me.

E lei cos’ha da guardare, signora? Non ha mai visto una persona piangere all’uscita del supermercato?


Le storie credute importanti
si sbriciolano in pochi istanti:
figure e impressioni passate
si fanno lontane e lontana così è la tua estate

E vesti la notte incombente
lasciando vagare la mente
al niente temuto e aspettato
sapendo che questo è il tuo autunno
che adesso è arrivato.

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