lunedì 18 giugno 2007

Curve nella memoria

Premessa: so che chi non ha vissuto queste vicende con me può trovare difficile capire di cosa sto parlando. Intanto, perchè qualcosa si comprenda, voglio specificare che il "tmo" è il reparto di trapianto di midollo osseo che ha ospitato la mia guarigione per lunghi mesi; le "ragazze" a cui alludo sono naturalmente le infermiere, e Tiziana e Cri sono due di loro; Dado... bè, Dado è il mio medico, all'anagrafe Edoardo Lanino, forse di lui vi parlerò un'altra volta.
Invece Giuseppe, Marco, Adil e Jo erano altri pazienti, conosciuti in tmo nel corso di quei mesi.... il loro destino non è stato il mio. Il dolore di averli persi resta vivo in me, così come il ricordo dei loro sorrisi e dei momenti allegri. Tutti, tutti i momenti allegri, e sono stati tanti, in quel corridoio del tmo!


E oggi, una tristezza sconfinata come il mare. Irreparabile.
Jo, perché mi regalavi tante cose? Volevi che di te mi restasse la traccia? La tengo ferma, profonda, in me. Adil, cos’è che ti ha rubato l’anima? E perché ha lasciato che tu soffrissi tanto? Giuseppe mi accarezzavi anziché graffiarmi, venivi in braccio senza dar testate e giocavamo per ore davanti a quella finestra sul mondo, c’era anche freddo e vento ed era forte… Marco davvero non sapevi quale fosse il problema? Davvero non l’avevi capito intuito chiesto mai? Avevi diciott’anni, Marco! Avevi dei sogni, e non chiedevi nulla?
Vorrei qualcuno a cui raccontare di voi. Raccontare di quando parlavamo, di quanto ridevamo, eravamo uguali ed eravamo malati ma non ce ne fregava niente.

L’abbraccio di Barbara e gli occhi di Cri sono le ultime immagini che ho in mente del Gaslini. Quella dolcezza indecisa, quel colore. Barbara, raggio di sole, è una persona che è entrata nella mia storia in punta di piedi, timorosa, e il tocco della sua mano era sempre silenzioso e discreto.
Il giorno che sapemmo di Jo ero in Day Hospital. Dentro di me sentivo che era questione di ore, di minuti, ma sperai sino all’ultimo che non fosse vero. Perché io Jo lo conoscevo. Jo era un ragazzino di dieci anni, e ci eravamo visti la prima volta nell’anticamera delle sale operatorie. Sua madre ci disse che sarebbero venuti presto anche loro in tmo, perché la malattia non faceva che tornare, e si era giunti al trapianto anche per lui. Lo rassicurai tanto, me lo ricordo, raccontai di quanto stavamo bene in reparto e di come erano simpatiche le ragazze, sorrisi, gli dissi che mi avrebbe trovata lì quando sarebbe arrivato. Poi venne Dado, e come sempre mi avviai sottobraccio con lui in sala operatoria, non ricordo precisamente perché, una cosa da niente credo, forse una semplice biopsia.
Jo venne in reparto poco tempo dopo, e non era un gran periodo per me, stavo sempre in stanza con la mia maledetta nausea immobilizzante, ci vedevamo poco e più che altro con sua madre Elena. Mi mandava delle cose però, come il sasso con la runa elfica che ho ancora in camera mia, e ogni tanto si affacciava timido alla porta della stanza. Quando lasciai il tmo, parecchio tempo dopo, lui era ancora lì. Poi mesi di telefonate, qualche cena insieme quando uscì, risate… e i suoi problemi con la gvh. La solita, immancabile, bastarda gvh.
Quella mattina in Day, dopo ore passate in attesa di notizie, tutti i timori si fusero nell’impatto con la realtà. Non potevo far altro che piangere, piangere soltanto. E lei, Barbara, anziché farmi andare in sala per la visita venne da me, prese una sedia bassa e mi si sedette accanto, mi fece poche domande, quelle strettamente necessarie. Rispondevo a monosillabi, senza mai guardarla, con gli occhi gonfi fissi sulla TV. Quasi ipnotizzata, perché se mi fossi girata verso di lei le sarei saltata al collo in lacrime. Barbara. Barbara che quella mattina era corsa al trasfusionale a dirci di non andare da Jo, perché non stava bene. Barbara che aveva pianto a dirotto forse più di me, Barbara che è così dolce, che non si merita niente di tutto questo. Barbara che faccio fatica a considerarla una dottoressa, che nonostante tutto sorride strizzando gli occhi, e si lega i capelli, e sta bene ovunque e con tutti. Raggio di sole. Il suo abbraccio me l’ha regalato dopo anni che ci conosciamo, per pudore, per timore di essere invadente, e io l’ho colto felice perché lo aspettavo e gliene sono grata, così grata! Perché mi ricorda di vivere, lei e tutte le altre, mi ricordano di vivere!

E Giuseppe, quant’era bello, piccolo, quel pomeriggio insieme non lo dimenticherò mai, quando sua madre mi disse “Può rimanere un po’ con te, che noi andiamo a fare la spesa?”. Avevo paura a tenerlo perché non pensavo di esserne in grado. Ma in fondo eravamo in tmo e c’erano le ragazze, di cosa spaventarsi? Poi eravamo felici di stare insieme. Io con lui, solo con lui al crepuscolo scuro di un gennaio freddissimo, su una barella in corridoio, giocando a far rotolare un flacone di gocce giù per un righello, mentre fuori il tramonto scendeva azzurro su un mare che mai avevo visto così impetuoso. Io a sostenerlo mentre cercava di camminare, io a sostenere lui! Io che a malapena mi reggevo in piedi lo tenevo in braccio, perché mi amava, perché si attaccava a me e mi abbracciava, delicato, bambino, mentre con tutti gli altri scalciava e faceva i capricci, quasi a dirmi “siamo tutti nella stessa barca, no?” Le ragazze si davano le consegne e noi giocavamo con la pallina di polistirolo, faccia da delinquente Giuse, certe volte giocavamo di nascosto e a dispetto della stanchezza, per non farti piangere, per farti dormire più sereno, Giuse, perché ti facessi misurare la febbre da quella povera Tiziana che non sapeva come fare. Ci dimisero quasi insieme, ricordi?
Dopo la breve convivenza fuori dal Gaslini, in due appartamenti vicini alle Sturline, e qualche ora insieme quando avevo un po’ di forze, mi ricoverai agli Infettivi, e lui quasi con me per altri problemi. Poi non so bene, poi mi dissero che era tornato in Sicilia, a casa sua, senza soluzioni. Ce la farà, pensavo, ce la farà lo stesso, quel bambino è immortale e Dio avrà pietà dei suoi due anni.
E invece quella telefonata. E invece ecco qui.
Giuseppe non ti ho nemmeno rivisto prima che morissi! Prima che il tuo cuore non sopportasse più nulla e smettesse di battere! Il mio Giuseppe!
Stavi imparando a camminare in una corsia di ospedale. Potevi essere un uomo nel mondo, ora, ma non ti hanno risparmiato. Non hanno potuto salvarti. Di te però mi resta quel sorriso beffardo, la foto in cui siamo belli insieme, e le tue mani piccole che mi sfioravano le guance.
Io, la tua ragazza. Un bacio ovunque tu sia.

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