lunedì 10 settembre 2007

Strade (following epiphanies)

C’era odore di autunno, in quella strada larga, ti precedevo e ti seguivo cercando di non guardarti. Provavo a sentire le macchine, il vociare della gente, i miei stessi passi e quell’odore presente, provavo a non interessarmi del resto. Avevo bisogno di camminare, in effetti, per soffocare. Il pavimento a tessere colorate.
E’ che sempre così, da quando sono cresciuta e non so più controllarmi per bene, mi invento dei modi per andarmene da dove sono. Non avrei voluto. Ho stretto gli occhi e alzato la faccia, come una che non sa bene dove si trova, o come chi lo sa perfettamente e non vuole limitarsi a qui. Per non rischiare che mi arrivasse troppo addosso, per questo ho stretto gli occhi. Mi sono morsa le labbra, prima solo per pensarci su, poi davvero per farmi un po’ male. Tornare alla realtà.
Le strade così grandi danno sempre senso di confusione, e quello che uno spera è che tutti abbiano una meta precisa, che ognuno di quei volti pensierosi, di quei passi svelti e di quei caffé al bar abbia una destinazione, alla fine della via, che sappia benissimo cosa fare. Senza fermarsi, perché chi vince è perduto, e se anch’io mi fermassi potrei cadere. O girarmi e scappare, ma allora inciamperei nelle mie scarpe pesanti e sarebbe comunque cadere. Senza fermarmi, quindi.
La strada di casa mia era di ghiaia fino a poco tempo fa, aveva le buche e graffiava le gambe, toglieva la pelle, a cascare dalla bicicletta. Era così normale ferircisi che non lo sentivamo neanche più, ci si rialzava per correre, scivolare di nuovo, scappare davanti ai cani. Stavo in porta tra due muretti grigi e paravo anche fuori dai pali, ma il pallone finiva sempre sulle rose, chissà com’è. Si smetteva di giocare che ancora non era buio, mia madre che urlava, avevo i palmi delle mani rossi e polverosi che mi pulsavano un po’ per il dolore, il bianco della ghiaia sulla maglietta...
La strada di casa mia adesso se piove è nera d’asfalto: è un piacere andarci su, in bicicletta, e se cadessi al massimo sarebbe un livido. Però mi mancano le ferite dei sassi, che bruciavano e sanguinavano, ferite chiare, precise, da metterci su la saliva o al massimo, se c’è tempo, il disinfettante verde che non fa male. E tempo alla fine non ce n’è quasi mai.
C’era odore di autunno, in quella strada larga, quando ho pianto. Col viso girato dal lato sbagliato, piombata nella bambina che sono, pregando che quel maledetto autobus arrivasse in fretta e mi facesse muovere di nuovo. Perché lì ferma, appoggiata al marmo della vetrina, era troppo amaro e ingiusto piangere, quasi senza lacrime, con un senso di colpa indicibile. Piangere dalla paura di essere di nuovo sospesa sul precipizio del niente quando ogni cosa era stata a un passo, e allo stesso tempo voler ingoiare quel pianto per quanto era rabbioso, inutile, per nulla liberatorio.
Alla fine è passato, l’autobus.
Non passano le tracce che ho addosso, quelle che senti sotto le dita, che vedi appena nascoste dalla camicia… non se ne vanno mai. Ci ho riso e scherzato, ci ho passato su della crema, ho chiesto rimedi e me ne sono fregata, le ho dimenticate, le ho riviste. Non se ne vanno mai. Il mio corpo si è disegnato sopra decine di linee rosse, profonde o solo accennate, a volte incise, quasi sottolineature per ricordarsi di. E’ tutto quanto scritto, e solo adesso mi accorgo che non lo vorrei, che vorrei la pelle più liscia, serena. Perché sono cicatrici, ferme lì per sempre. E tu le senti.
Oggi mi mancano, per questo, le ferite dei sassi: quelle che con il disinfettante verde andavano via.


"E' la curva dell'estate sulla strada di frontiera
è la neve sui ciliegi è la mia casa di ringhiera
sono sogni e cicatrici, sono lacrime e radici
le parole che nascondo dentro me
scorrono e si confondono in fondo all'anima
... fin dentro l'anima"

Nessun commento:

Posta un commento