lunedì 20 agosto 2007

Sarà che tutta la vita è una strada e la vedi tornare

Esiste ancora, quel mondo parallelo. Basta varcare una soglia.
Una porta inutilmente chiusa, quando tutti ci possono entrare, come sempre negli ospedali; e cammino lenta, spaventata, in un corridoio troppo corto, che si supera in pochi passi e io vorrei non finisse mai. Faccio finta di non sentire le voci, di non riconoscere i capelli di mia zia e sbagliare direzione: piccola, ma c’è ancora, la paura. E poi entro, perché così ho deciso.
Zio Stefano è seduto vicino alla parete, col viso un po’ rigato di un pianto che non può asciugarsi da solo, e un sorriso incredibile e sereno come i suoi occhi blu, ancora dello stesso blu, nonostante un anno in terapia intensiva. Alza le braccia leggermente, solo a mezz’altezza ma con convinzione, e quello è il movimento più enorme che fa da mesi in qua. E’ stato un sorriso immenso, aperto, che voleva essere enorme, il mio. Voleva essere felice, per lui.
Poi ho iniziato anche a guardarlo, zio Stefano, con gli occhi miei di un tempo, di chi una cosa la riconosce. Di chi quella situazione, sì, la riconosce bene. E l’ho vista anche in lui, nel suo blu quasi allegro, l’azione lenta e progressiva di quella specie di veleno che penetra l’aria di un ospedale: ho visto la bontà dolorosa e fragile che conosco, l’arrendevolezza di chi non ha più orgoglio, e non importa cosa dicano, cosa pensino, possono chiedere di tutto, fa lo stesso, con quale forza negare, perché? Non è solo l’assenza di privacy, non è solo l’affidarsi alle mani di qualcun altro, un medico o un’infermiera, è l’inconsapevole abbandonare sé stessi. E’ quello che si diventa, dopo mesi, o forse anche prima. Mi ha raccontato dei suoi saluti a tutto il personale, perché sta per essere trasferito, mi ha detto che c’è stata molta commozione e abbracci, lacrime… annuivo, sapendo perfettamente. Dev’essere tremendo anche per lui pensare di spostarsi da quel posto, quasi peggio che lasciare casa non è così?, anche se ci si trasferisce per accelerare le cure, prevalgono il disorientamento totale e la paura, proprio quelli, uguali ai miei. Annuivo sorridendo.
Ho cercato non so quante volte di scrivergli una lettera, a mio zio, ci sono decine di fogli azzurri che ho iniziato e poi buttato senza neanche sentirmi troppo male per quell’abbandono in cui lasciavo le mie parole per lui. Ho voluto congelare e mettere da parte una cosa che sentivo così forte da essere un peso, un’angoscia; e come se fosse impossibile per me sopportare il senso di colpa, ho dimenticato. Dimenticato per mesi. Rimosso. Perché lui era tempo che voleva vedermi, perché molto prima di me aveva capito e associato la mia storia alla sua, ed io no.
Anzi, io sì. Ma non lo volevo. Soltanto quel pomeriggio, come un prodigio, quando mio padre per l'ennesima volta mi ha chiesto di andare con loro a trovarlo, è venuto fuori un "sì" deciso, che non sono riuscita a capire ma neanche a fermare. E più tardi, mentre stavo lì che osservavo, di colpo come una specie di valanga mi è crollato addosso quanto sono stata egoista, quanto chiusa, quanto come sempre ho scelto il non vedere e non sapere e chiunque me lo potrebbe ripetere che è la cosa peggiore ma lo sapevo già in effetti, è solo che non sono riuscita a darmi a troppe cose. A darmi, in generale. Non so spiegare la ragione dell’essermi isolata in quel modo, non so dire perché mi sono così estraniata, non so neanche se vale la pena capirlo, in fondo… Sono state giornate furibonde, senza atti d’amore… era forse il tempo di cui avevo bisogno, ma qui ci va un debito punto interrogativo.
E ho sentito quasi da subito di non meritare quell’accoglienza, tutto quel sorriso intero, le parole, la conversazione rilassata. Confusamente guardandomi intorno, come se non fossi davvero lì, ho capito che quella specie di perdono nei miei confronti non me lo meritavo. Avrei voluto forse piangere, mentre da un’altra parte il tuo sguardo benevolo mi accompagnava, capendomi già, con la magia che fai.
Non so quanto ci siamo fermati, tanto secondo l’orologio, comunque troppo poco per me, che nel frattempo non mi sono saputa perdonare. Eppure salutando mio zio, dandogli un bacio sulla guancia senza che lui potesse girarsi per ricambiare, né tanto meno abbracciarmi, dicendogli qualche parola ma più di tutto guardandolo, ho sentito una strana leggerezza. Non sarei più andata via, l’avrei riempito di quello sguardo per parlargli sincera, per fargli sapere di me e di quanto avevo aspettato, non serviva però: lui lo sapeva già, come lo sapevo io quando ero al suo posto. Al contempo poi non vedevo l’ora di uscire per respirare l’ossigeno del giardino e capire che nulla avevo sognato, per sentirmi sbattere in faccia l’aria di fuori e rendermi conto che ero stata di nuovo dentro. Di nuovo dentro, uscendone a testa alta.
E se non ci fossero state quelle lacrime, dopo, se non ci fossi stata tu a parlarmi, ad abbracciarmi, a farmi dire tutto e tirar fuori tutto, non sarei qui a scriverne… come se la tua indulgenza mi avesse contagiata e quasi, quasi, come se potessi assolvermi.

Buon viaggio, zio Stefano, a presto! Alla prossima passeggiata insieme, per mano


"Tu lotta ancora a lungo
non voglio che abbandoni
Il più bello dei tuoi giorni devi attraversare
la canzone tua più dolce è da cantare
tu non arrenderti così, sul confine
Il più verde dei tuoi mari devi navigare
il più rosso vino devi ancora bere
tu non fermarti proprio lì, sul confine"


... perchè sarò ad aspettarti, quando tornerai.

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